11 gennaio 2010

Google, la parola dell'ossessione

di Andrea Cortellessa
Non c’è niente da fare: pochi generi del discorso hanno oggi, per efficacia, l’appeal delle Classifiche. Di questi tempi, poi, alla fine dell’anno si aggiunge la scadenza del decennio (anche se gli storici sanno che questi sventurati Anni Zero, per far danni, hanno ancora più di 360 giorni a disposizione: ma, a sua volta, quello «zero» in coda è irresistibile). Liste, canoni, giochi della torre: alzi la mano chi se ne è saputo astenere. Non se ne astengono neppure i linguisti dell’American Dialect Society che, per dare un po’ di pepe ai loro convegni, hanno pensato bene di concludere le loro assise, a partire dal 1990, con la scelta della «parola dell’anno»: sul modello dell’«uomo dell’anno» della rivista «Time». Per esempio nel ‘91 prevalse il sintagma «madre di tutte le...» (che dopo la Prima guerra del Golfo s’è imposto in un’infinita, stucchevole quantità di costrutti derivati; corrispettivo nostrano è il suffisso «-poli», mutuato da Tangentopoli). Nello specifico linguistico regola del gioco è che (a differenza di «Time») non conti tanto l’oggetto designato - il referente, per dirla appunto coi linguisti - bensì la parola che vi si riferisce.
La notizia è che nel corso dell’ultimo convegno, a Baltimora, «parola del decennio» è stata eletta Google: che ha prevalso su 9/11, verde, blog e guerra al terrore. Giusto: in quanto nei termini concorrenti conta piuttosto il referente, mentre la parola Google ha dato vita a derivati quale l’orribile googlare (senza contare la fantasia grafica con la quale sempre più spesso se ne usa la forma - specie l’accogliente doppia «o» - per siglare ricorrenze e appuntamenti). Ed è anche un messaggio di speranza scegliere Google - qualcosa cioè che ci ha senza dubbio migliorato la vita - in luogo di 9/11 (11 settembre per antonomasia, ovviamente, quello del 2001): che invece ce l'ha peggiorata catastroficamente.
Ma è un segno dei tempi anche in altri sensi. Google, oltre che un oggetto è un marchio. Non è un caso che, nel decennio del trionfo dell’ideologia liberista, la privatizzazione della lingua passi per il Web (con l’accaparramento di parole-chiave, «dominî» potenzialmente fruttuosi). E poi, nessuno ci toglie dalla testa che in Google conti infinitamente, più che la parola, la cosa: che pare realizzare il sogno della Biblioteca di Babele. Sempre più spesso sfogliamo con Google books libri che pure sappiamo di possedere, su uno scaffale lontano solo pochi passi. Infine, e soprattutto: chi si astiene da Google per risolvere, appunto, i suoi dubbi linguistici? Non solo per verificare la grafia di Hugo von Hoffmansthal; ma anche di termini d’uso che dovremmo conoscere a menadito. E che in effetti conosciamo: ma sui quali proprio la possibilità di accertarci, d’improvviso, ci rende incerti. Chissà se i linguisti sono soddisfatti di questo effetto collaterale.
«La Stampa» dell'11 gennaio 2010

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