23 gennaio 2010

«La modernità uccide la letteratura»

Nello studio di Ezio Raimondi
di Paolo Di Stefano
Scrivere significa cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che ci scava (Georges Perec) La ricerca della meditazione (contro le illusioni della vita contemporanea)
Nel mondo dei libri il desiderio si trasforma in esperienza e l'esperienza in destino
L'etica bolognese è una tendenza all'autocritica e all'ironia su se stessi
La lezione del grande critico, allievo di Longhi e Contini «Sono un artigiano. Il rispetto per la parola è rispetto per l'uomo»

Un uomo d'altri tempi, e non solo per motivi anagrafici: Ezio Raimondi lo sarebbe anche se non avesse 85 anni. Probabilmente lo è sempre stato. E quando si dice «uomo d'altri tempi» non è necessario pensare al passato, perché ascoltarlo è come sentire la voce di una coscienza che proviene da lontanissimo pur essendo profondamente radicata nel presente. Esploratore onnivoro di un' infinità di autori, non solo italiani, da Dante a Manzoni, da Broch a Gadda, da Nabokov a DeLillo. Un critico che riflette, un teorico che vede il particolare. Alto, asciutto, elegante, chiuso tra muri di libri inseriti di traverso, incastrati, pigiati dentro scaffalature che dal pavimento arrivano al soffitto e da pile che si innalzano ovunque, Raimondi ha una retorica limpida, dalle volute ariose. «La letteratura - dice - è in una condizione difficile, ha subìto una sorta di lesione che si traduce quasi in una disfida contro la vita contemporanea, un'epoca che non favorisce la meditazione. Per questo, oggi più che mai è chiamata a trovare un senso in un mondo che vuole un accumulo di esperienze istantanee, mentre la letteratura utilizza la memoria e diventa forte quando l'io torna a chiedersi: chi sono? L' invocazione della letteratura è una sola: facci essere umani, per citare Wittgenstein». Una tale fede nella letteratura non si può facilmente distinguere da una vera e propria tensione etica, civile, religiosa che ha radici familiari: «Carlos Fuentes ha detto che alla letteratura spetta di parlare di ciò che è invisibile dentro il visibile. La parola della letteratura è a suo modo una rivelazione di noi stessi a noi stessi, una sorta di epifania, una prova a cui si è chiamati: creare un universo che prima non esisteva e in cui le risposte sono interrogativi. Ed è da lì, dagli interrogativi, che comincia la dimensione religiosa». C'è una curiosità, in Raimondi, che supera i confini geo-letterari, sicché a rigore non è lecito parlare di un italianista punto e basta. In un saggio intitolato Novecento e dopo, del 2003, Raimondi esponeva le sue considerazioni su un secolo di letteratura, chiamando in causa Conrad, Kafka, Canetti, Céline, Benn. Scrittori apparentemente lontanissimi tra loro. Che cosa li unisce? «La difficoltà di essere uomini moderni in un mondo molto complesso, complessità delle cose e dei drammi vissuti: l'essere vigili nel presente e interpretare le situazioni storiche in una prospettiva critica. La letteratura, ben prima di altre forze, ha sperimentato il doppio binario della globalizzazione e della localizzazione, i classici per definizione vivono nelle dimensioni più varie e rivelano una straordinaria disponibilità a tempi e luoghi diversi». Domanda da cento milioni: che rapporto si stabilisce per un critico tra la propria biografia intellettuale e gli scrittori di cui ci si occupa? «È una domanda che alla mia età ci si pone spesso. Guardandosi indietro si scopre che nella coerenza, se c'è, hanno avuto un ruolo importante la casualità e l'imprevisto. Sempre Fuentes dice che nel mondo dei libri la vita è un complesso di possibilità che trasformano il desiderio in esperienza e l' esperienza in destino». Casuale è stata per Raimondi, ad esempio, la passione per Céline: «Céline è la storia dell'amicizia con Giuseppe Guglielmi, il quale lo traduceva scoprendo un Céline diverso, che univa il fango con l'azzurro del cielo. Così, lo scrittore, con la violenza e la forza della sua parola, è diventato un po' il volto dell'amico. Nella mia storia personale la letteratura non mi ha mai allontanato dal vivere, ma gli ha dato una luce più alta, l'ha reso più dignitoso e ragionevole, come se mi trovassi in una vallata e dall'alto di una collina il testo letterario mi mostrasse una direzione più ampia». Anche i maestri possono indicare una via. Nel caso di Raimondi, su tutti, nell'alto della collina ci sono uno storico dell'arte e un filologo: Roberto Longhi e Gianfranco Contini. «Arrivai nel '41 in università senza conoscere niente, come un selvaggio. La prima lezione di Longhi fu una rivelazione: c'era in lui un gioco ironico in cui la parola misurava se stessa nel rapporto con l'immagine. Nel '43 l'università si chiuse e dovetti aspettare il ritorno alla vita libera per fare un esame con Longhi: ci tenevo come fosse una prova del nove. Ne ho cancellato il ricordo, quella prova è una specie di buco nero, come se avessi commesso un omicidio».
E Contini? «Era la grande filologia, che io legavo alle mie esperienze di lettura personali e eterodosse, soprattutto dei romantici tedeschi. Il filologo è un critico che esamina la parola e la definisce nel tempo. Con Contini sentivo una specie di complesso, qualcosa tra il desiderio di avvicinarlo e il timore di dire sciocchezze. Poi scoprii che Longhi e Contini si univano e io nel '48, arrivando a Curtius e alla sua letteratura europea, ne feci una strana sintesi per renderli più accessibili alla mia dimensione. Lo dico con orgoglio, anche se guardarmi allo specchio mi ripugna». La dimensione europea era uno dei tratti cruciali di un'altra esperienza che ha segnato la lunga vita di Raimondi, Il Mulino, la rivista e poi la casa editrice: «La mia generazione alla fine della guerra andava scoprendo una nuova Europa. Nelle pagine finali della sua storia letteraria De Sanctis mette a confronto l'italianità moderna con l'Europa. E Curtius era la consacrazione di quella prospettiva. Al Mulino conobbi Altiero Spinelli, un uomo impetuoso con un acuto gusto letterario, una specie di leninista democratico, un politico libero con un senso molto alto della severità e dell'impegno come atto morale, di una moralità superiore». Il Mulino è restato per Raimondi un punto di riferimento sin dalla fondazione, dice: «Mi permetteva di dare senso politico al mio lavoro culturale senza farmi diventare un politico. Da insegnante mettevo in pratica le ipotesi di cui si discuteva nei consigli editoriali. Poi ci fu il trauma del 68 che mise in gioco tutto». Che cosa esattamente? «L'ipotesi del Mulino era di procedere con una mentalità di riforme, mentre il 68 parlava di rivoluzione: pur condividendo certe idee degli studenti, io mi sentivo intimamente riformista». Una biografia, quella di Raimondi, che si confonde con la storia della rivista e della casa editrice: «Il progetto era quello di proporre strumenti moderni attraverso l'incontro del liberalismo, del socialismo riformista e del cattolicesimo: un gioco a più voci. La scoperta della sociologia fu un modo per sostituire alla filosofia anche idealistica una forma di discorso più diretto alla realtà, interpretando il mutamento e dando prova di razionalità etica. Poche realtà hanno resistito nel tempo come Il Mulino». Forse in questa resistenza ha avuto un ruolo anche la città: «L'ethos bolognese è una tendenza all'autocritica e all'ironia su se stessi che porta a un' insolita curiosità verso gli altri, a una capacità di ascolto e di compromesso, a un' attenzione all'umano e al molteplice». Non è superfluo ricordare che Raimondi proviene da una famiglia della Bologna povera, il padre ciabattino e la mamma donna di servizio, «ma con un fortissimo senso del proprio ceto»: «Sono stato educato alla dignità e alla trasparenza, e le mie qualità migliori vengono da lì. Ho cercato di trasferire nel lavoro intellettuale quell'etica laica e religiosa insieme. Religione era una parola non detta nel mondo povero ma praticata, e si traduceva nella solidarietà, nel venire incontro agli altri. Ma senza dirlo, perché l'atto di generosità andava compiuto in silenzio: con le parole non si scherzava e l'educazione al silenzio era vitale. Per mio padre dovevo diventare un artigiano, mentre mia madre aveva un'idea più costruttiva e volle farmi studiare. Il risultato è che sono rimasto un artigiano anche lavorando sulla parola, sulla scrittura come attività che chiede un' esperienza diretta. E con la convinzione che le parole rispettate sono uomini rispettati». Via del Borgo, dove vivevano i Raimondi, fu distrutta da un bombardamento il 25 settembre '43: «Cominciò una vita di nomadi. Mio padre morì per malattia nel '45, mia madre non lavorava, io facevo il correttore di bozze in un giornale. Ero alle due torri quando vidi arrivare i primi soldati polacchi. Con la Liberazione eravamo rimasti soli, ma pensavo che da allora la storia si sarebbe data in modo tranquillo e ascendente. Purtroppo però quella tensione si è persa ed è rimasto il sogno che quel tempo ritorni come forza interiore di un'Italia moderna capace di ritrovare la sua vocazione di vitalità. Ma forse è solo la proiezione della mia piccola storia personale e per questo lo dico sottovoce».

Ezio Raimondi è nato a Lizzano in Belvedere (Bologna) nel 1924. Professore emerito di Letteratura italiana all' Università di Bologna, è direttore dell' Archivio Umanistico Rinascimentale e presidente dell' Istituto Beni Culturali Emilia-Romagna. Ha insegnato anche negli Stati Uniti. È stato presidente del Mulino fino al 2003. Tra i suoi numerosi libri si segnalano: «Metafora e storia» (1970), «Il romanzo senza idillio» (1974), «La dissimulazione romanzesca» (nuova edizione 2004) e, in ultimo, «Un' etica del lettore» (2007) e «Il senso della letteratura» (2008).
«Corriere della Sera» del 10 gennaio 2010

Nessun commento: