08 gennaio 2010

Lombroso e i suoi seguaci

La «fossetta» dove si perde la ragione
di Marco Dotti
Una immersione nelle atmosfere del Museo di Antropologia Criminale riaperto a Torino dopo anni di lavori. Vi si raccolgono non soltanto preparati anatomici, disegni, fotografie, scritti e manufatti di internati nei manicomi e nelle carceri del Regno d'Italia; ma anche lo stigma dello stesso Lombroso, che dispose la propria decapitazione post-mortem e la conservazione del proprio cervello
Si intitolava semplicemente Come mio padre venne all'antropologia criminale, il saggio che Gina Ferrero-Lombroso dedicò al padre Cesare e al suo programma di positivismo applicato all'ambito sociologico, prima elogiato e infine vituperato dalla comunità scientifica.Pubblicate nel 1921 dall'editore Bocca di Milano - e subito riprese, come era d'uso all'epoca, con altro titolo e da altro editore - le note di Gina ripercorrevano le «scoperte» dello scienzato nato a Verona il 6 novembre del 1835, che, nel corso delle sue ricerche, sosteneva di avere individuato segreto, origine e misteri della natura criminale. Fu osservando il cranio del bandito calabrese Giuseppe Villela - ricorda Gina, divulgatrice di rango che con la sua prosa semplice e ricca di informazioni stupì persino Filippo Turati - che Cesare Lombroso maturò una delle sue pricipali convinzioni: l'indice del potenziale criminogeno e dell'atavismo che rendevano alcuni individui «delinquenti per natura», quindi insofferenti alla pacifica comunità dei «normali» si trovava nella fossetta occipitale.
La teoria dell'atavismo
Nel 1872, quando effettuò l'autopsia sul cadavere di Vilella, Lombroso riscontrò un'anomalia nella conformazione cranica del brigante allora settantenne: una piccola cavità localizzata nella zona dell'occipite. Ne dedusse che la «fossetta» - non presente a suo dire negli individui comuni - costituisse una prova di pazzia, di delinquenza o di atavica brutalità selvaggia. L'atavismo era un'altra delle parole che Lombroso contribuì a far circolare, sovradeterminandola di aspettative e di senso, nel panorama scientifico del tardo XIX secolo. Per la teoria dell'atavismo, certe caratteristiche somatiche, psichiche e comportamentali dell'individuo si trasmetterebbero di generazione in generazione, attestando il legame tra il «delinquente moderno» e uno stadio primitivo e «selvatico» dell'umanità. Come un Rousseau alla rovescia, impregnato di medicina sperimentale e di letture darwiniste, Lombroso ricorda - è sempre Gina a riportarne le parole - come alla vista della conformazione cranica di Vilella, avendo riscontrato la presenza della tanto vituperata fossetta occipitale, «il problema della natura del delinquente mi apparve subitamente illuminato come una vasta pianura sotto un cielo infinito». Era così giunto alla conclusione - importante per lui, ma determinante anche per i riflessi e gli echi irriflessi sul dibattito e le pratiche di un'epoca intera e persino oltre - che «l'uomo delinquente non era altro che il rappresentate attuale dell'uomo primitivo e anche dei suoi predecessori».
Nell'atavismo, che più di una ipotesi era per lui una incontestabile e «scientificamente» incontrovertibile certezza, Cesare Lombroso segnava il passo di un progresso che, nelle discipline criminologiche e sociali, cercava spesso maldestramente di liberarsi dalla metafisica di matrice religiosa, servendosi a suo modo di Darwin e delle ricerche sull'evoluzionismo, mischiate con non poca ingenuità e confusione all'influentissima «legge biogenetica fondamentale» enunciata dal naturalista tedesco Ernst Heinrich Haeckel. Secondo la legge di Haeckel, l'atavismo poteva infatti leggersi come derivazione - ai nostri occhi distorta fin che si vuole - del rapporto tra ontogenesi e filogenesi dove, semplificando, lo sviluppo di ciascun individuo ricapitolerebbe lo sviluppo complessivo della specie.
Ogni individuo, preso in se stesso ma in quanto appartenente alla specie, ricapitolerebbe lo sviluppo della specie stessa cui appartiene, anche se - e qui sta il punto - persino in quella umana permarrebbero alcuni individui, delinquenti e pazzi su tutti, rimasti indietro rispetto al percorso della specie stessa. Era possibile dunque isolare preventivamente questi soggetti, individuandone attraverso screening antropometrici conformazioni craniche e tratti somatici (stigmate) che ne attesterebbero l'appartenenza a uno stadio regressivo dell'evoluzione della specie e, di conseguenza, intervenire anche sul piano del controllo sociale e della repressione. I delinquenti non esercitavano dunque, secondo Lombroso e la sua «scuola positiva», la loro «criminalità» per un deliberato atto di scelta morale, ma perché spinti da una congenita indifferenza il cui indice principale era l'assoluta insensibilità al dolore, proprio e altrui, e la tendenza a tatuarsi il corpo, come nei selvaggi.
Lo studio del criminale-nato, osserverà Lombroso tra le pagine di uno dei suoi lavori più noti e influenti, L'uomo delinquente, poteva dar luogo a un «progresso» contro l'oscurantismo metafisico delle scienze criminali e umane in genere. Come? Semplicemente sottraendo allo studio e alla repressione del «delitto astratto», l'individuazione e lo studio del «delinquente», intervendo non sulla mistica della «malvagità» del reo, ma su una a questo punto ben più concreta «pericolosità sociale» preventiva. «L'esame del delinquente fatto dall'antropologia criminale» - scriveva a questo proposito Lombroso - «ha stabilito trovarsi in questi, massime nel suo tipo più caratteristico, una quantità di caratteri abnormi, anatomici, biologici e psicologici, molti dei quali hanno significato atavico, perché ripetono le forme proprie degli antenati anche pre-umani dell'uomo. E siccome a questi caratteri atavici si associano tendenze e manifestazioni criminose, e queste sono normali e frequentissime negli animali e nei popoli primitivi e selvaggi, così è legittimo concludere che anche nei criminali queste tendenze siano naturali, nel senso che dipendono necessariamente dalla loro organizzazione, analoga, per inferiorità di struttura e di funzioni fisiche e psichiche, a quella dei popoli primitivi e dei selvaggi e qualche volta degli animali».
Comunque lo si voglia giudicare, per quanto caricaturali appaiano certe sue posizioni, sia nel campo delle scienze criminologiche, sia in quello della psicologia sociale tout court Lombroso rappresenta a tutt'oggi un nervo scoperto per un certo positivismo mal compreso. Progressista nelle intenzioni, probabilmente reazionario nei fatti, nel corso di un decennio Lombroso suscitò un vero e proprio «movimento» di individuazione, catalogazione e analisi delle stigmate della devianza (fossette occipitali e tatuaggi su tutti) che, oltre a essere osservati sul corpo di detenuti, briganti, camorristi o semplici «imbecilli», venivano debitamente fotografati e ritagliati dai cadaveri, puntati su tavolette con degli spilli e inviate a Torino, nel museo a cui lo stesso Lombroso stava dando vita.
In mostra i corpi del reato
Fondato da Lombroso nel 1876, l'anno della prima edizione dell'Uomo delinquente, il Museo di antropologia criminale di Torino nacque come collezione privata e fu allestito al numero 18 di via Po, nelle sale del Laboratorio di Medicina legale dell'Università. Il primo nucleo della collezione, avrebbe scritto Lombroso in un articolo pubblicato sulla «Illustrazione italiana» nel 1906, risaliva proprio ai suoi studi degli anni sessanta del XIX secolo e prese i suoi modelli dall'esercito:«avendovi vissuto parecchi anni come medico militare, prima nel '59 e nel '66 ebbi campo di misurare craniologicamente migliaia di soldati italiani e raccoglierne inoltre crani e cervelli». Lombroso non esiterà a descrivere i materiali reperiti nelle carceri, nei manicomi e negli obitori - circonferenze craniche, pugnali camuffati da crocifissi, nodi scorsoi, ma anche bellissimi mobili intarsiati da mattoidi, vasi, ricostruzioni di scene del crimine e insospettabili «corpi del reato», ma anche feti e lembi di pelle tatuata, il cui stato di conservazione è alquanto problematico - come «poveri trofei», raccolti «prima in una camera da studente, spauracchio continuo delle padrone di casa, poi in una specie di granaio che fungeva da laboratorio nella via Po di Torino.
E finalmente nel '99 nelle ampie sale del Museo Psichiatrico criminale, nei nuovi laboratori biologici nella Università di Torino». Riaperto il 27 novembre scorso in occasione del centenario della morte di Lombroso, dopo anni di lavori, fra le sue collezioni il Museo di Antropologia Criminale oggi situato in via Pietro Giuria 15, e sovrainteso da Silvano Montaldo raccoglie preparati anatomici, disegni, fotografie, scritti e manufatti di internati nei manicomi e nelle carceri del Regno d'Italia, presentandosi quasi come un palinsesto della mentalità dell'epoca e della mente di uno dei suoi più illustri e, al tempo stesso, più contraddittori interpreti. Ironia della sorte, tra i molti reperti conservati, non ultimo è lo stigma dello stesso Lombroso, che per testamento dispose la propria decapitazione post-mortem e la conservazione del proprio cervello in una teca ricolma di positivissima formalina.
«Il Manifesto» del 5 gennaio 2010

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