31 gennaio 2010

Perché dovremmo dire no al burqa e invece sì ad aborto ed eutanasia?

di Pier Giorgio Liverani
Che differenza c’è tra il burqa e l’aborto o il suicidio? La domanda, apparentemente assurda, è motivata.
Su il Manifesto (giovedì 28) e a proposito della proposta di vietare il burqa anche in Italia, Giuliana Sgrena afferma che quel velo «innanzitutto offende la dignità della donna, poi anche i valori della Repubblica se intesi come i valori universali nati dalla Rivoluzione Francese». Esistono, dunque (ma c’erano anche da molti secoli prima della Rivoluzione), alcuni valori universali che esigono il rispetto di tutti e di fronte ai quali le scelte individuali non possono essere giustificate. Lo dice un giornale 'che più laico non si può'.
Il medesimo giorno l’Unità dedicava due pagine al bioeticista superlaico Hugo Tristram Engelhart, texano di origine tedesca, sostenitore di un’etica pragmatica e utilitaristica, quindi senza principi. A Milano costui aveva presentato un libro sulla «laicità vista dai laici». Ecco alcuni concetti cari all’eticista texano: «Il divieto di suicidio, di suicidio assistito, di eutanasia non è altro che un tabù, un complesso di proibizioni [...] che non ci appaiono più degni di essere presi sul serio, perché l’unica guida alle nostre scelte deriva dal consenso delle persone coinvolte». In breve ecco la ricetta morale di Engelhart, notoriamente sostenitore anche dell’aborto: «Pratica la tua convinzione finché non danneggia quella degli altri». Anche Emma Bonino dichiara sull’Espresso (con la data del 4 febbraio) che, «in un paese civile 'Io non lo farei' non può diventare 'tu non lo fare'»: dove si vede che, per i 'laici', i valori universali non contano nulla e, anzi, che la loro 'laicità' nega il principio che fonda la società umana: il bene comune (compreso quello enunciato in testata dall’Unità).
Una società civile nasce per essere garante della vita e del bene dei suoi membri sulla base di un’etica condi­visa. Dovrebbe essere ovvio che, invece, è tutt’altro se affida ai singoli le scelte fondamentali. Dunque, se no al burqa, no almeno anche ad aborto, suicidio ed eutanasia.
«Avvenire» del 31 gennaio 2010
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Donne e islam
di Giuliana Sgrena
Il velo dell'ipocrisia in difesa dell'identità
Sembra un dibattito surreale dopo che qualcuno aveva giustificato una guerra per eliminare il burqa. Era solo un subdolo pretesto, con esito grottesco, giocato sulla pelle delle donne, visto che il burqa non si porta più solo in Afghanistan ma anche in Europa. Dalla Francia la discussione sul divieto - per legge - dell'uso del burqa e del niqab (veli integrali con la sola differenza che il primo ha una rete all'altezza degli occhi e il secondo lascia una fessura) rimbalza in Italia. La Francia non è nuova a simili divieti, con una legge del 2005 sono già stati aboliti i simboli religiosi nelle scuole e nei luoghi pubblici. Eppure il dibattito sul burqa è forse più teso di allora. Da parte dei fautori del relativismo culturale si invoca la «libertà di espressione» mentre il presidente Sarkozy si oppone al burqa perché «offende i valori della Repubblica». Il burqa innanzitutto offende la dignità della donna, poi anche i valori della repubblica se intesi come i valori universali nati dalla rivoluzione francese.
Chi difende il burqa o il velo in nome dell'identità, della tradizione o della religione lo fa per ipocrisia o per ignoranza. Sappiamo che le tradizioni si superano (non avevamo forse anche in Italia il fazzoletto in testa, il tabù della verginità e le attenuanti per il delitto d'onore?), che il corano non prescrive l'uso del velo e tanto meno del burqa, vietato anche dal gran muftì di al Azhar, la massima autorità sunnita, e infine che l'unica identità riconoscibile dietro un simile simulacro è quella wahabita, la versione più integralista dell'islam che è religione di stato in Arabia saudita. Che si diffonde in tutto il mondo a suon di petrodollari.
Il problema è dunque se vogliamo aiutare donne, come noi, ad affermare i loro diritti o sostenere un sistema patriarcal-tribal-religioso sessista che usa il velo come controllo della sessualità della donna. Con il velo la donna deve garantire l'onore del maschio nascondendo le parti del suo corpo che potrebbero indurlo in tentazione. E se cade in tentazione è sempre la donna a pagare con il delitto d'«onore».
Anche l'Italia, che non ha mai avuto una politica sulla migrazione (affrontata solo in termini umanitari o di sicurezza), si trova ad affrontare la questione del burqa. Dal punto di vista della sicurezza (riconoscibilità della persona) c'è già una legge del 1975 che vieta di andare con il viso coperto, anche se l'applicazione viene lasciata alla discrezionalità dei funzionari. Ma qui non si tratta tanto di sicurezza quanto dei diritti delle donne, gli stessi che noi abbiamo faticosamente conquistato e che ogni giorno vengono messi in discussione. Non possiamo permettere a donne di essere private della possibilità di comunicare con il mondo in cui vivono perché isolate da un velo.
Lo si può fare con una legge? In Italia probabilmente no, perché non siamo un paese laico, ma terra disseminata di simboli e superstizioni religiose: invece di aiutare queste donne finiremmo per renderle doppiamente vittime. Occorre prima garantire loro gli stessi nostri diritti per pretendere il rispetto delle nostre leggi. Solo giustizia e uguaglianza possono eliminare la violazione dei diritti e l'intolleranza.
«Il Manifesto» del 28 gennaio 2010

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