29 gennaio 2010

Poche parole per dire il ’900. Poi il silenzio per superarlo

J.D. Salinger, lo scrittore americano autore de «Il giovane Holden», pubblicato nel 1951, è morto all’età di 91 anni. Secondo quanto reso noto dal figlio, Salinger è deceduto per cause naturali nella sua casa di Cornish, New Hampshire. Da decenni viveva da recluso. Dal 1965 aveva smesso di scrivere. Dal 1980 non dava interviste.
di Giuseppe Conte
J. D. Salinger si era già congedato dalla sua epoca 40 anni fa. Viveva come un maestro zen al tempo dell’incomunicabilità. Il vecchio Holden, antieroe di tutti gli adolescenti
Da quanto durava il silenzio di Jerome David Salinger? Ora la sua scomparsa, a 91 anni, rende quel silenzio definitivo, e nello stesso tempo lo riempie del clamore che ogni dipartita porta con sé. Quel suo appartarsi, quel suo vivere ritirato e irraggiungibile a Cornish, nel New Hampshire, avevano contribuito a creare il suo mito vivente. Lontano dagli schiamazzi e dalle sfide che piacevano a Norman Mailer, dalla Chicago nera di Saul Bellow, dalla scena di Manhattan tutta occupata da Philip Roth, Jerome David Salinger apparteneva, per isolato che fosse, alla loro grande famiglia. Anche lui di origini ebraiche, anche lui tormentato dai temi del sesso, anche lui propenso a credere nel valore benefico della scienza umana per eccellenza del Ventesimo secolo, che è la psicoanalisi.
Ma Salinger, rispetto ai suoi colleghi, aveva qualcosa di diverso e di più. Aveva individuato una volta per tutte il tema della giovinezza con una essenzialità miracolosa, con una forza leggera e drammatica, ariosa e malinconica che fa pensare a Francis Scott Fitzgerald, di cui fu un ammiratore non a caso; quella giovinezza che all’autore di Tenera è la notte appariva come «un sogno, una specie di follia chimica». E poi Salinger aveva quel silenzio Zen in cui si era chiuso, quella ricerca metafisica che innerva già alcune delle sue opere successive al successo cui il suo nome è legato, intitolato in italiano Il giovane Holden con una davvero opportuna sottolineatura del tema della giovinezza. Il romanzo è del 1951. E inaugura la seconda metà di un secolo in cui i giovani hanno vissuto ribellioni, paranoie, passioni, trasgressioni come mai nei secoli passati. Il giovane Holden come James Dean, come il primo Brando. Si scava il solco tra le generazioni che dura ancora. La giovinezza si erge ad arbitro, a metro di valutazione. Da trasgressiva può diventare regressiva, come è per me in certi seguaci conclamati del maestro americano. Ecco l’incipit del romanzo: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorreste sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori o compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e, secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio di infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto». Il linguaggio ammicca al gergo giovanile e allo slang. E in poche righe enuncia i temi portanti che renderanno il libro così nuovo e così memorabile.
Holden Caulfield, la voce che parla, taglia i ponti con il romanzo tradizionale, e spara contro Dickens le sue cartucce novecentesche. Alla generosità visionaria a delirante dell’autore di David Copperfield - che, detto per inciso, oggi è forse più drammaticamente, paradossalmente attuale di Salinger stesso - contrappone un progetto di scrittura residuale, introversa, ellittica. Novecentesca. Subito compare sulla scena la famiglia, tema su cui tutta la narrativa ebraico-americana si incentra e si gioca. Padri e madri borghesi, timorati, conformisti. A cui i figli gettano contro le proprie nevrosi di ribellione e di cambiamento. Ricordate il Lamento di Portnoy, di Philip Roth, che bissò il successo del Giovane Holden e divenne una sorta di manifesto per la generazione successiva? Il sesso appare sempre come problematico e infelice. A niente era valso l’insegnamento clamoroso e gioioso di Henry Miller. Al giovane Holden il sesso procurato in un alberghetto dal cameriere Maurice si presenta come squallido, come qualcosa che lo defrauda e lo umilia. Lo stesso suo professore Antolini lo spaventa, quando intravede in lui la volontà di abbagliarlo e sedurlo. Tutto è disillusione. Un certo humour freddo e in sostanza nichilista percorre questa disillusione, rendendola sopportabile, o almeno dicibile. La malattia in questo universo è il male assoluto. E così le immagini del fratello Allie morto di leucemia inseguono Holden mescolandosi alla sua quotidianità. E la psicoanalisi diventa la terapia, l’epilogo obbligato, cui il protagonista sarà spinto dalla sorella Phoebe e dalla famiglia.
L’approdo alla psicoanalisi data il libro. Nel secolo XXI la psicoanalisi non ha già più la stessa funzione e lo stesso potere di attrazione. Salinger scrive e definisce magistralmente il suo tempo. I Nove racconti, del 1953, Franny e Zooey, del 1961. Poi, dall’ultimo racconto del 1965, fa tesoro del suo silenzio. Fu chiamato in causa per spiegare diversi fenomeni artistici del suo tempo. Scrisse Italo Calvino che nei Nove racconti Salinger «contrappone alla volgarità imperante giochi e chiacchiere di bambini e di donne; e ti fa correre un brivido per la schiena, perché rappresenta il rapporto totale e diretto con l’universo, quello che i teologi chiamano la grazia. E la grazia non è graziosa, è felicemente assurda e tragica». Calvino commentò con queste righe così limpide l’apparentamento tra Salinger e Antonioni, nella fattispecie l’Antonioni dell’Eclisse, fatto da un critico cinematografico come Pietro Bianchi. L’alienazione, l’incomunicabilità, l’assurdo: Antonioni, Beckett... Il Novecento nei suoi aspetti ormai canonici e finiti. Salinger si congeda al momento giusto, ora il suo silenzio è quello di una maestro Zen, quello che a me piace chiamare il silenzio dell’infinito.
«Il Giornale» del 29 gennaio 2010

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