26 gennaio 2010

Quando la grammatica era roba da borghesi

s. i. a.
Ultimamente, specie dopo la presentazione alla Camera del ddl Frassinetti (16 dicembre), di cui abbiamo parlato ampiamente, c’è stato un risveglio d’interesse per la «questione della lingua» sia sulla stampa d’informazione sia sui numerosi blog e siti Internet. Non si può non essere d’accordo con Pietro Trifone, quando dice: «La forte sensibilità intorno a questi temi è un bel sintomo, è sensibilità per un valore importante, la lingua italiana». Fino al 2001 era pressoché proibito parlare di degrado della lingua, pena la taccia di purismo o, peggio, incompetenza. Oggi invece si scopre che l’allarme, lanciato da Nencioni e Devoto sin dagli anni ’70, era tutt’altro che infondato, e tutti, addetti ai lavori e non, ammettono che la lingua italiana attraversa un periodo difficile, portando a conferma varie statistiche, per la verità disponibili anche prima del 2000.
I più severi a denunciare il degrado sono coloro che in passato, deliberatamente o meno, gli hanno dato man forte con parole d’ordine quali «lasciate la lingua ai parlanti», «l’italiano lingua straniera» e simili sciocchezze. Non pochi sostenitori della libertà linguistica, fervidi a tal punto da considerare un’offesa la grammatica, oggi riscoprono il congiuntivo (una testimonianza persino eclatante in merito è data dal libro di Valeria della Valle e Giuseppe Patota, Viva il congiuntivo!, Sperling&Kupfer).
Ma non basta. Dopo gli appelli dei Lincei e della Crusca, svegliatasi dal suo lungo torpore, sul Corriere (13 gennaio) Cesare Segre detta lezioni di galateo linguistico, impensabili solo qualche anno fa. Prontamente sono intervenuti sulla questione molti altri, tra cui gli scrittori Antonio Scurati, Silvia Ballestra e Tommaso Pincio. Sotto accusa è, naturalmente, la classe politica, la quale «tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso».
Quanto ai deprecati dibattiti televisivi, l’involgarimento è generale e non è nato ora. Si tratta, in realtà, dell’aspetto più appariscente di quella demagogia linguistica, ossia di quella tendenza al ribasso culturale, che si è imposta sin dagli anni Settanta con il tacito assenso, se non con l’incoraggiamento, di quanti oggi se ne scandalizzano. In questa situazione raccomandare, ad esempio, di non usare i dialettalismi «ai livelli alti» del discorso è una resipiscenza tardiva.
In ogni caso il degrado della lingua non si può circoscrivere ai «registri» o alla volgarità, che è in certa misura fisiologica. La decadenza del linguaggio sta altrove ed è quella preconizzata da Orwell, che oggi si manifesta nel concettualismo vuoto e sfrenato del «politicamente corretto». Se poi entriamo in un ufficio pubblico non ci accoglie il turpiloquio ma il «burocratese», che per molti è ancor meno rassicurante, e se andiamo in giro per la città l’anglomania si rivela un morbo contagioso. Persino in un festival per ragazzi organizzato in provincia di Salerno le sedi vengono chiamate locations e le sezioni Free to fly, First screens, Y Gen, Kids, Focus in Europe, ecc. Tutto questo con il contributo della Regione Campania, che non è né uno Stato americano né una contea inglese.
Ignaro del vero degrado, Antonio Scurati dà fondo ai suoi registri più aulici e scrive: «una sorta di compulsione bassomimetica è la manifestazione più evidente del clima di basso impero in cui viviamo». Della stessa «compulsione» farebbe parte la tendenza a dare del tu agli immigrati, ritenuta una manifestazione di disprezzo come se fossimo ancora nel ’68, quando i professori venivano così apostrofati dagli studenti. E se fosse invece un segno di amicizia? Nel dubbio Silvia Ballestra consiglia l’uso della «seconda persona plurale» e per non apparire nostalgica (chi non ricorda il «voi» fascista?) porta ad esempio l’inglese, forse dimenticando che you può indicare sia il singolare sia il plurale (away with you! può significare sia «vattene» sia «andatevene»).
Le cose più giuste e sensate, al netto degli inutili pistolotti antiberlusconiani, sono state scritte da Marco Mancassola sul Manifesto (20 dicembre). Ha scritto, ad esempio, che certi baroni universitari scrivono peggio dei loro allievi e che gli scrittori, invece di ricostruire la lingua nazionale, contribuiscono a distruggerla mimando il linguaggio televisivo.
«Il Giornale» del 26 gennaio 2010

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