23 gennaio 2010

Se lo scrittore di sinistra va «sotto processo»

Paolo Nori è «accusato» di aver scritto su «Libero» una recensione
di Pierluigi Battista
Ma i professori universitari, i critici letterari, i giornalisti culturali non hanno niente di meglio da fare che mettere in piedi grotteschi tribunali per mettere alla sbarra scrittori che scrivono su giornali considerati politicamente ripugnanti e antropologicamente repellenti? Non possono leggere qualche libro, scavare qualche interessante bibliografia, insomma studiare un po' di più, riprendere in mano qualche classico della letteratura anziché allestire liste di proscrizione con i nomi di chi scrive una recensione offrendo con ciò i propri servigi all'orrido e infrequentabile Nemico? Non è uno scherzo, e nemmeno un filmino di contropropaganda sugli anni bui dello stalinismo o sulle imprese delle Guardie Rosse che mettevano alla gogna i professori «reazionari». È quello che accadrà il prossimo martedì, quando in una libreria romana si inscenerà un processo, pubblico ministero il grande critico Andrea Cortellessa, che si avviterà attorno a questo interrogativo cruciale per le sorti della nostra civiltà: «Si può collaborare con Libero?». Libero è il giornale sulle cui pagine culturali curate da Francesco Borgonovo uno scrittore di sinistra, Paolo Nori, ha recentemente pubblicato una recensione di «Che la festa cominci» di Niccolò Ammaniti. «Nazione indiana» è invece una autorevole rivista di critica online dove Cortellessa, qualche tempo fa, ha scomunicato urbi et orbi il sunnominato Nori, imputato nel processo che si terrà nella libreria romana, per essersi contaminato con un giornale (testuale) «fecale e coprolalico»: un giornale impastato, par di capire, con la stessa disgustosa materia della destra di cui Libero sarebbe ufficiosamente organo di stampa. Naturalmente non è specificato cos' abbia scritto Nori di così terrificante per meritare un simile trattamento. Ma è del tutto irrilevante: come al solito non sono gli argomenti che contano, ma dove sono scritti. Non conta il merito, ma l' ossessione del tradimento, la certezza che con il Nemico non bisogna mai mischiarsi, mai interloquire, mai discutere: il conflitto culturale ancora una volta scambiato per una trincea da dove non si sparano argomenti, ma anatemi, insulti, accuse apocalittiche, guerre finali da concludere con l'annientamento (simbolico, per carità) delle truppe avversarie e con la punizione (simbolica, per carità) del disertore. Un' ansia di purezza che sopprime per principio ogni discussione tra diversi. Un'intolleranza suprema che si ammanta magari, come sempre avviene con la neo-lingua orwelliana, dei nobili valori della tolleranza. Una visione militarista della cultura, che esclude a priori ogni contatto con il Nemico. Come nelle tragedie di ieri. Come nella caricatura che se ne fa oggi, dove gli epigoni fanno il verso ai loro antenati. Sospettosi di tutto: che però non sospettano l'abisso di ridicolo in cui sono destinati a sprofondare.
«Corriere della Sera» del 18 gennaio 2010

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