25 febbraio 2010

Bisogna mettere un freno a Internet?

s. i. a.
Google nella bufera. Ieri la Commissione europea ha confermato l’indagine sulle presunte pratiche anticoncorrenziali della società di Mountain View. E soprattutto, sempre ieri, il Tribunale di Milano ha condannato i vertici del gruppo per violazione della legge della privacy (ma non per diffamazione) per la pubblicazione, su Google Video, di un filmato in cui un ragazzo down veniva malmenato dai compagni di scuola. Tre dei quattro imputati – David Carl Drummond, già presidente e amministratore delegato di Google Italy, George De Los Reyes, ex membro del cda e poi ad di Google Italy, e Peter Fleischer, responsabile della privacy per l’Europa – sono stati condannati a sei mesi di reclusione (pena sospesa).
Il video coi maltrattamenti a un giovane disabile restò online dall’8 settembre al 7 novembre 2006, quando fu rimosso poche ore dopo una segnalazione. Il 24 novembre, una denuncia dell’associazione Vivi Down avviò il processo che si è concluso ieri. Il giudice monocratico, Oscar Magi, ha parzialmente confermato le accuse del procuratore aggiunto, Alfredo Robledo, e del pm, Francesco Cajani. Alle parti civili non è stato riconosciuto alcun risarcimento, perché non è stata accolta la tesi della diffamazione, mentre i capi di Google sono stati ritenuti responsabili dell’illecito trattamento dei dati personali del giovane. “Il diritto d’impresa non può prevalere sulla persona – ha commentato il procuratore Robledo – al centro di questo procedimento era la tutela della persona attraverso, appunto, la tutela della privacy”. Teoricamente, questo parrebbe implicare l’obbligo di acquisire il consenso di qualunque soggetto coinvolto nei video pubblicati.
La linea difensiva di Google, che probabilmente verrà ribadita nell’appello dopo che le motivazioni della sentenza diventeranno pubbliche, si basa sull’impossibilità, per il provider dei servizi, di conoscere in anticipo tutti i dati che sono caricati quotidianamente. Inoltre, “noi forniamo gli strumenti agli utenti, la responsabilità di quello che mettono online è loro”, ha sostenuto Marco Pancini, responsabile dei rapporti istituzionali per Google Italia. Anzi: a Milano si è celebrato “un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet”, temperato solo dal rifiuto “dell’obbligo di una censura preventiva”.
Opposta la lettura di Vivi Down: “Quello che a noi interessava – ha spiegato l’avvocato Guido Camera – era l’affermazione della responsabilità penale dei dirigenti di Google, e questa è stata riconosciuta dal giudice”. La sentenza milanese non ha precedenti, tanto che l’ambasciatore statunitense a Roma, David Thorne, si è detto “negativamente colpito”. Alcuni casi avevano lambito la questione – per esempio quando un tribunale di Parigi ordinò al colosso delle aste online, Ebay, di risarcire il gruppo del lusso, Lvmh, per la vendita di prodotti contraffatti. Il caso, oggi pendente presso la Corte di giustizia europea, si distanzia però da quello di Google sia perché Ebay non è un intermediario puro, sia perché si trattava di un processo civile verso un’azienda e non di un’azione penale contro i suoi dirigenti.
E’ difficile sottostimare le potenziali conseguenze della decisione, se non verrà rovesciata nei successivi gradi di giudizio. “Il nostro paese ottiene così un triste primato – commenta Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni – Si stanno diffondendo atteggiamenti contrari alla libertà del Web, basati sull’incapacità di comprendere la differenza fra Internet e un tipico prodotto editoriale. Le conseguenze di lungo periodo potrebbero essere preoccupanti per la libertà d’espressione e per lo stesso tessuto economico”. Intanto, Google deve affilare le armi anche contro l’indagine della Commissione europea, relativa ai ricorsi del sito britannico Foundem, del motore di ricerca Ejustice.fr e del portale Microsoft Ciao! I primi lamentano le basse posizioni ottenute nei risultati delle ricerche su Google, il terzo considera iniquo il contratto standard per il servizio di pubblicità Adsense.
«Il Foglio» del 25 febbraio 2010

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