28 febbraio 2010

Luzi: i poeti contro il potere

Superare un ripiegamento intimista e una protesta anti-moderna che hanno permesso sì la nascita di capolavori, ma sono serviti anche da alibi per evitare un confronto arduo con la società contemporanea. Un inedito del grande poeta fiorentino a 5 anni dalla morte
di Mario Luzi
Sarà opportuno ripercorrere con grande velocità sintetica il cammino della poesia moderna – perché è da qui che bisogna partire se vogliamo mantenerci nel concreto di un’esperienza – e ricordare quando è cominciata la separazione, quando è cominciato il divorzio tra la poesia, il poeta e la società. Perché questa separazione c’è stata e in un certo modo c’è ancora, sebbene credo le cose stiano attualmente modificandosi. E proprio dal vivo di questa modificazione in corso penso sia legittimo ripensare agli anni passati, alla condizione del poeta nella società moderna, e trarre qualche indicazione e forse qualche lucidità supplettiva a precisare che cosa siamo oggi, cosa è oggi il rapporto dell’uomo che vive la vita quotidiana con tutto o con l’aspirazione al tutto, con l’Assoluto a cui inconsciamente o consapevolmente tutti, più o meno, tendono.
Dobbiamo dunque ricordare quando la storia dell’uomo ha preso questa piega e si è inoltrata per i viottoli e i sentieri della pura economicità; facendosi depotenziare e spogliare di tante possibilità in nome del profitto, in nome della produzione, in nome dell’organizzazione del lavoro che è stata elevata a criterio dominante. Subito la poesia non poté non reagire e non registrare il colpo di questa modificazione che si stava operando. Questo già in piena fioritura borghese, per esempio nella Germania della fine del Settecento, quando questa inclinazione della civiltà andava manifestandosi.
Nell’euforia della fioritura si ebbero delle contestazioni profonde, delle dissociazioni totali dalla società contemporanea e sono proprio questi gli autori a cui bisogna risalire per avere il senso della Modernità, di che cosa essa è veramente nella letteratura e nel pensiero. Dicendo questo alludo a Hölderlin e Novalis, che già si resero conto, con strumenti analitici diversi dai nostri, di ciò che si stava preparando. Naturalmente queste dissociazioni dalla legge sociale presente portarono a conseguenze disparate, a volte traumatiche. Voi sapete quale sia stato il destino personale di Hölderlin, mentre la sua poesia inaugurava una grande epoca, epoca però di dolore e separazione.
Questo divorzio della poesia dalla società è stato visto soprattutto al negativo, come 'dissenso' dalla ragione prevalente nella polis già violenta, creata appunto dalla borghesia nel suo periodo trionfale. La città della convivenza coatta di cui ci parla già Baudelaire è stata vista sotto questo aspetto come opposizione al potere alienante della società e delle leggi che la dominano, leggi della produzione e del profitto, visti come numi astratti, quindi città già tendenzialmente disumana. Questo divorzio è stato visto come rivolta, come dissacrazione del mito fasullo e tragico dell’egemonia economica su tutto il resto.
Certo, queste cose nella poesia moderna ci sono, questa opposizione di fondo in nome dell’uomo contro il pericolo della disumanizzazione incipiente, allora non vistosa come adesso, è un po’, in fondo, alla base di quello che si chiamava la 'maledizione' dei poeti maudits e dei loro antenati cui abbiamo già accennato. Di questi (mi riferisco a Hölderlin e Novalis) si è molto parlato, si è molto insistito su questo lato 'contestativo', sacrosantamente contestativo, di questo servizio all’uomo che la poesia ha fatto, a cominciare dalla prima presa di consapevolezza e coscienza dello Stato, della città moderna. Ma questo innegabile movimento centrifugo dal potere, che in altre epoche e circostanze sociali aveva delegato i poeti a celebrare i fasti, questo movimento di dissociazione, così diverso dal momento dell’investitura data al poeta nel nome dello Stato – pensate al tempo della signoria agli Estensi, che avevano il loro Tasso, il loro Ariosto come esponenti pubblici della loro civiltà e perfino della loro ragione politica – ha anche un risvolto che è molto meno considerato. Questa fuga della poesia, questa sua autoesclusione dalla città e dalle sue leggi, dalle sue imposizioni, è anche il suo ritiro sulla montagna; è anche occasione – forzata, se volete – ma necessaria, di un ripensamento sulla poesia stessa, sulle sue ragioni, la sua natura, il suo linguaggio.

Ci sono dei grandi martyres, testimoni di questo periodo della separazione, della dissociazione, dello scandalo.
Sono coloro che punteggiano come pietre miliari il cammino della poesia moderna, a cominciare da Hölderlin, Leopardi, Baudelaire, per continuare con Mallarmé, Rimbaud e arrivare a Rebora, che mi pare un’indicazione esemplare di questo conflitto: incompatibilità tra la società moderna e le pretese giuste della poesia. Considerando queste vite e questi destini di poeti e considerando il senso profondo della loro opera, noi arriviamo a percepire simultaneamente l’ultima sostanza della condizione poetica, quindi quello che la poesia, per restare fedele a se stessa, ha il diritto di pretendere, quello che ha l’ambizione di raggiungere e l’impossibilità di vedere raggiungibile nel mondo già disumanizzato. Quindi, nello stesso tempo, si alzava moltissimo la mira della poesia, nella sua solitudine del ritiro sulla montagna. Nello stesso tempo si esacerbava la critica alla società contemporanea che rendeva impossibili queste ambizioni, queste mire che non erano egoistiche certo, ma delle conquiste prospettate per l’umanità, delle aperture sulla conoscenza ulteriore rispetto alla tradizione e alla cultura. Tutto ciò che abbiamo continuato a chiedere alla poesia è di non venir meno e di realizzare il nostro destino.
Veniamo da una devastazione che è il luogo della nostra segregazione. Tutti, insomma, scendiamo dalla montagna dove si è compiuta forse una umana reintegrazione di forze e dove in qualche forma il Signore della Creazione e della continuità della vita ha parlato, si è fatto riconoscere in questa solitudine che il poeta moderno ha dovuto vivere. E a me sembra che ora si possa dire che in questa stagione un trasporto nuovo verso gli uomini accenda il discorso dei poeti che sarebbe assurdo mantenere introflesso e riottoso per abitudine e tradizione – sia pure per abitudine e tradizione sublimemente motivate. Tutti gli istituti e i poteri che si opponevano alla familiarità e alla fraternizzazione sono crollati; nemici visibili e dichiarati della parola non ce ne sono, mentre c’è un invisibile, imprendibile avversario che corrompe le parole, moltiplicandole, svuotandole di senso e di peso. È una violenza anche questa, 'l’abuso' della parola, che è anch’essa un modo di tacere e di tacitare. Si può tacere rifiutandosi di parlare, ma si può tacere anche parlando a sproposito, violando il linguaggio con la reiterazione e le proliferazione insensata che tutti i giorni noi sperimentiamo sulla nostra pazienza. Questo avversario invisibile 'corrompe' anche l’uomo sostituendosi alla sua volontà, alla sua libera volontà, subdolamente.
L’uomo della città, l’uomo a cui si possano inoculare e desideri e pensieri e soluzione dei pensieri e bisogni fasulli e modi fasulli di soddisfare questi bisogni, è un uomo eterodiretto, che è un pericolo molto grave.
La poesia sente questo ancora di più, sente che si svolge non tra avversari reali e riconoscibili, ma tutti sono vittime di questo. Per cui quegli istituti pubblici o illustri contro i quali si era ritirata – potremmo dire così – nel suo Aventino o sulla montagna, ecco ora non ci sono più; c’è questa generale sofferenza e questa situazione caotica attraverso la quale noi cerchiamo di percorrere il nostro itinerario – più in balia delle onde mosse da cause a noi sfuggenti e da queste forze insinuanti e subdole che la sommuovono, che dalla nostra coscienza, dalla nostra volontà.
Allora, in questo generale bisogno di ricomposizione, di ricongiunzione fraterna che questo caos contemporaneo ci impone, noi arriviamo, forse un po’ fortificati e consci, divenuti noi stessi per il fatto che pensiamo attraverso la parola, che è lo strumento che distingue l’uomo, quindi l’umano per eccellenza. Divenuti noi stessi emblemi di qualche principio fino ad ora non riconosciuto – oppure non abbastanza riconosciuto. Ne sottolineo due che mi sembra opportuno richiamare: 1) Per amare il mondo bisogna anche sapersene separare. Per questo si parla di un ritiro sulla montagna, che è durato tanto ed era una situazione di sofferenza, un modo di reintegrazione dell’umano, delle proprie visioni ritrovate nella solitudine, tramite il quale è stato possibile riaccendere un amore per il mondo, in virtù di un riacquisto di forza, di volontà, di parola.
2) Il secondo è molto affine al primo. Per catturare la vita, per esprimerla, per comunicarla bisogna morire al mondo, alla vita, per accendere l’immagine viva e valorizzarla, così come dice l’autore del bellissimo studio Mysterium mortis (uscito da Queriniana una ventina di anni fa), Ladislaus Boros, proprio esemplificando il suo discorso con lo studio della poesia, del poeta. Per cui il poeta esemplare in questo senso era Hölderlin, che poi diventerà il poeta per eccellenza, alla fonte di tante speculazioni filosofiche e della filosofia moderna. Di Hölderlin parleranno Heidegger, anche teologi come Bonhoeffer. La poesia diventa un po’ l’esempio vivente di questo profondo sacrificio che impone al poeta di rinunciare a vivere per vivere di più, comunicare di più la vita. C’è qui una specie di mistero, anche un po’ cristico, che la teologia moderna ha riscoperto.
Il poeta dell’Ottocento, il grande poeta della separazione, della dissociazione ha vissuto come frustrato il suo disinganno filosofico, ha avuto come un contraccolpo dalla constatazione che il suo sogno, la sua aspirazione ad un’armonia, ad una totalità di conoscenza era respinto dall’epoca. C’è una pretesa, forse un po’ luciferina, di chiudere il mondo così ostico, in una formula, in una Weltanschauung preliminare che in fondo è già un giudizio negativo sul mondo, di inconciliabilità e di condanna.
Questo fatto è comune ai grandi poeti che abbiamo nominato prima, soprattutto Leopardi, Baudelaire, eccetera. Questa ambizione a prefigurarsi il mondo e a chiuderlo in un giudizio di valore preliminarmente, pregiudizialmente, non si addice più alle generazioni cresciute nell’esperienza del XX secolo, che ha fatto, volente o nolente, l’esperienza dell’esilio dal mondo, talora non solo metaforico. Tutti quelli che hanno fatto l’esperienza dell’esilio e della segregazione hanno ritrovato, o sono stati favoriti nel ritrovare, dopo tanta degenerazione e rifiuto, l’amore, la charitas che poi sarebbe connaturale ab initio col poetare, perché non si dà la parola, l’uso di questa senza amore, senza la generosità di un’offerta che è essa stessa amore.

La poesia, come ogni altra attività del conoscere, come la fede stessa, oggi non sarebbe contenta di sé, se parlasse al cospetto del mondo da un punto convenuto di sicurezza e non dall’interno della realtà, nel suo stesso sfacimento, delle contraddizioni medesime in cui il presente consiste, prima di essere formalizzato come passato. È dunque all’interno del patema, dell’agonia, della malattia, avendole dentro di sé, fatte proprie. Siamo dentro la procella e cerchiamo di attraversarla, guidati da una luce che continuamente rischiamo si offuschi, ma sappiamo che proprio la speranza di ritrovarla sempre più intensa o totale è il senso stesso del viaggio. E questo è appunto il combattimento dell’uomo, questa la sua agonia che ne giustifica e ne onora la presenza nel creato che lo comprende. A mano a mano che il culmine delle cognizioni si accresce, che l’errore trova una provvisoria correzione, nello stesso tempo la quantità del non-sapere si moltiplica; il sapere avanza e procede insieme con il non sapere. La parola mistero che fu irrisa dai positivisti, oggi è considerata plausibile anche dagli scienziati. E noi sappiamo che c’è un mistero che non è soltanto il contrario della conoscenza: l’uomo che esce da tante disfatte della 'ragione razionalista' – la ragione è un grande attributo dell’uomo, però l’uso parziale e funzionale di essa ha tradito probabilmente questa virtù – si dispone a pensare che c’è un conoscere misterioso e cioè che il conoscere è più vasto degli strumenti approntati dalla aridità funzionale a questo scopo. C’è un mistero che è conoscenza, c’è una conoscenza per mistero; il mistero è un modo di apprendere a cui l’uomo è chiamato non per rassegnazione o per diminuzione di intelligenza, ma per un salto nella procedura del conoscere pari all’incomprensibilità dell’oggetto, riguardo alla norma che la ragione si è data finora.
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È una violenza anche questa: l’abuso della parola.
Si può tacere rifiutandosi di parlare, ma si può tacere anche parlando a sproposito, violando il linguaggio con la reiterazione e la proliferazione insensata che tutti i giorni sperimentiamo. Questo avversario invisibile corrompe l’uomo sostituendosi alla sua volontà, alla sua libera volontà, subdolamente
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Nato a Firenze nel 1914, Mario Luzi vive i primi anni a Siena e compie gli studi universitari a Firenze, laureandosi in letteratura francese. Collabora a riviste d’avanguardia come Il Frontespizio , Campo di Marte , Paragone . Nel 1938 inizia l’insegnamento alle scuole superiori, che lo porterà a Parma, a San Miniato e infine a Roma dove lavorerà alla Sovrintendenza bibliografica. Nel 1955 gli viene assegnata la cattedra di letteratura francese alla facoltà di Scienze politiche di Firenze. Nel 1978, gli viene assegnato il Premio Viareggio. Il 14 ottobre 2004, in occasione del suo novantesimo compleanno viene nominato senatore a vita. Muore a Firenze il 28 febbraio 2005, lasciando dietro di sé un’opera poetica fra le più importanti del ’900 non solo italiano.
Tra i titoli della sua produzione lirica: La barca (1935), Avvento notturno (1940), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Il gusto della vita (1960), Nel magma (1963), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994).
Pubblichiamo qui il testo inedito di un intervento tenuto il 25 gennaio del 1990 al Centro culturale di Milano sul tema «Uomo e destino: il viaggio di una generazione».
«Avvenire» del 28 febbraio 2010

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