26 febbraio 2010

Non chiamatela per carità «compassione»

Vita e morte a Londara (e a Radiorai)
di Francesco Ognibene
Esistono almeno due metodi collaudati per manipolare la percezione pubblica delle grandi questioni sulla vita umana: cambiar no­me alla realtà, o rovesciare il significato delle parole. Si tratta di strategie culturali speri­mentate al punto tale da trasformarle in auto­matismi inconsapevoli, maschere sotto le qua­li i fatti diventano invisibili, quasi irrilevanti. Ha cambiato nome l’aborto, dissimulato sotto le burocratiche spoglie della «interruzione vo­lontaria di gravidanza», meglio se Ivg. Si è sma­terializzata la pillola del giorno dopo (poten­zialmente abortiva) chiamandola «contracce­zione d’emergenza». Persino quando si parla di «autodeterminazione» occorre cercare nel doppiofondo semantico, là dove spesso si sco­prirà il reale intento eutanasico di chi parla di libertà e diritti.
Ma la distanza tra idee pensate ed espresse di­venta abissale quando si assiste allo stravolgi­mento di concetti capovolti nel loro opposto. È quanto sta accadendo in Inghilterra, dove ieri il procuratore gene­rale del Regno, Keir Starmer, dettando i cri­teri in base ai quali an­drà perseguito o pro­sciolto chi attivamente aiuta un parente o un a­mico a morire ha spie­gato che mai si dovrà mandare in prigione la persona che ha agito per «motivi di compas­sione ». Già la definizio­ne giuridica del gesto – «suicidio assistito» – a­pre più di un dubbio: chi stacca un sondino, inocula un farmaco le­tale o spegne un ventilatore polmonare cau­sando la morte realizza un vero atto eutanasi­co. Chiamandolo in un altro modo si compie una falsificazione mirata a precostituire il giu­dizio dell’opinione pubblica, deviando l’im­patto di quella che resta una morte procurata. Ma se chi ha realizzato quello che il nostro Co­dice penale definisce «omicidio del consen­ziente » riesce a dimostrare che l’ha fatto per «compassione» nessun tribunale inglese potrà più punire la cooperazione al suicidio con la pena prevista di 14 anni. Il lasciapassare per l’assoluzione è la «compassione» del gesto, che – par di capire – si traduce nella semplice as­senza di motivi di risentimento o d’interesse personale. Cambiato nome e aspetto, l’euta­nasia viene così accolta nelle corti di giustizia inglesi, e riesce persino nel trucco più sbalor­ditivo: coprire la soppressione di una vita al colmo della sua fragilità con l’onore che si tri­buta a chi si china sull’altro sofferente per «com-patire» insieme a lui. Lo slancio del sa­maritano è snaturato nella sua tragica carica­tura: la mano che per secoli si è posata con a­more sulla ferita ignorata da altri ora procura la morte. Uccide sì, ma per «compassione»: non sapendo più farsi carico dell’estrema fa­tica di vivere la fa cessare, così contribuendo a far sedimentare l’idea che sia questa la solu­zione alla malattia senza speranza, alla solitu­dine, alla vecchiaia estrema, alla demenza. Sembra che questo crescente peso di soffe­renza sia insopportabile alla nostra società sbrigativa e nichilista, e allora meglio autoriz­zare (e incoraggiare) il repulisti facendolo pas­sare per ammirevole virtù. Una truffa cultura­le agghiacciante. L’eco di questa mentalità «compassionevole» s’è udito anche in Italia, ieri mattina, nella pun­tata che «Radio Anch’io» ha dedicato agli svi­luppi parlamentari della legge sulle Dichiara­zioni anticipate di trattamento. Il servizio pub­blico ha consentito che, nella generale confu­sione di concetti scientifici, si lasciasse dire (persino plaudendo all’efficacia dell’idea) che essendo brutto veder morire di sete pazienti come Eluana sarebbe meglio praticargli una bella iniezione, e via. A completare il pasticcio la doppia conduzione in studio con la 'voce' sanremese, che sul palco canta l’allergia a qual­siasi verità salvo poi aderire senza mostrar dub­bio alcuno alla discutibilissima «verità» di chi ha portato a morte Eluana. Un bell’esempio di coerenza, davvero. Come quello dell’ex mi­nistro che si sbraccia per la «presa in carico» dei pazienti ma poi squarcia la rete di prote­zione culturale che la nostra civiltà da sempre stende sotto i più deboli invocando la legge del «liberi tutti» di dare e farsi dare la morte come e quando ci pare. Ma la nuova, terribile, «com­passione » autorizza anche questo.
«Avvenire» del 26 febbraio 2010

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