13 febbraio 2010

Pasternak e Salamov: gulag e parole

di Fulvio Panzeri
Ha l’incandescenza della forza della poesia che riesce a ridare senso alla vita e una natura morale che è in grado di giudicare con grande dignità tutti i pesantissimi torti subiti nei Gulag sovietici questo epistolario tra Varlam Salamov e Boris Pasternak, curato con grande pertinenza da Luciana Montagnani, che ha composto un libro che ricostruisce a tutto tondo il rapporto, breve ma assai intenso nel suo valore, tra due grandi della letteratura russa del Novecento. Partendo proprio da una volontà espressa da Salamov, in una nota introduttiva, in cui l’autore scrive: «un tempo mi proponevo di trasformare la nostra corrispondenza sui problemi della rima russa in uno studio, importante per i poeti», un tema trattato nella loro corrispondenza, il libro raccoglie le lettere che i due grandi scrittori si sono scambiati e si conclude con un altro importante testo di Salamov, i «Ricordi» su Pasternak, in cui lo scrittore traccia un ritratto importante, e non certo agiografico, dell’autore del Dottor Zivago, oltre ad indicare quanto abbia contato per lui, per la sua idea di poesia, la lezione dello scrittore.
L’incontro tra i due avviene all’inizio degli anni Cinquanta, in un momento cruciale per entrambi. Finiti gli anni del terrore staliniano, Salamov viene rilasciato dal Gulag siberiano, anche se ci rimarrà ancora per un breve periodo, non come prigioniero, ma come confinato.
Pasternak invece ha deciso di portare a termine quello che sarà il suo capolavoro, quel Dottor Zivago a cui aveva iniziato a lavorare all’indomani della guerra e che poi aveva lasciato inconcluso.
Per Salamov la poesia di Pasternak è un punto di riferimento per lui e per tutti coloro che si trovavano ai lavori forzati a Kolyma ed è lui a scrivere il primo biglietto, la cui risposta tarda ad arrivare. Ed è già una storia, che Salamov ha poi raccontato, il suo viaggio per ritirare quella missiva, che era arrivata molti mesi dopo.
Nei «ricordi» sottolinea: «Un giorno scriverò un racconto sul viaggio che compii per andare a prendere la Sua prima lettera con cinquanta gradi sotto lo zero, trasbordando dalle renne ai cani, e dalla slitta all’automobile. Viaggiai cinque giorni per andare a prendere quella lettera».
Quando riesce a tornare a Mosca, la cosa che gli sta più a cuore è quella di andare ad incontrare Pasternak. La sua idea di poesia gli dà nuova linfa vitale, nuovo entusiasmo.
La libertà che ha ottenuto è vera e viva perché gli restituisce la possibilità di scrivere. È per questo che nelle lettere Salamov parla poco dell’esperienza passata: lo fa solo quando è necessario, ad esempio nel momento in cui scrive due lunghe lettere di analisi del dattiloscritto del Dottor Zivago e scrive le sue dettagliatissime osservazioni a Pasternak e corregge alcuni aspetti della vita nei Gulag descritti nel romanzo. Ad un certo punto così riassume la sua esperienza: «Ho dato vent’anni della mia vita al nord, per anni non ho tenuto in mano un libro, un foglio di carta, una matita. Di tutto il resto non voglio neppure parlare. Ma quando ritornavo in me, e questo nonostante tutto capitava, ritornavo ai versi, e ritornavo alla mia segreta visione. E adesso sono felice».
Salamov nei «ricordi» annota anche gli appunti delle conversazioni. Da bambino Pasternak sentiva questa preghiera: «In verità tu sei Cristo, figlio del Dio vivente».
Spiega a Salamov: «Io ripetevo questa frase e come fanno i bambini mettevo una virgola dopo la parola Dio. 'Zivago' (Vivente) risultava essere il misterioso nome di Cristo. Io non pensavo al Dio vivo, ma all’unica cosa che per me era comprensibile, il suo nome 'Zivago'.
Mi ci è voluta tutta la vita per rendere reale questa sensazione infantile, chiamando con questo nome il protagonista del mio romanzo».
Pur non convivendo alcuni aspetti umani del comportamento di Pasternak, Salamov non mette mai in discussione questo debito morale che ha con lo scrittore, che muore troppo presto, un debito che fa riferimento ad una salvezza, quella della possibilità di vita della poesia e in questo nel riferimento ad un’autenticità.
È Salamov a tessere il filo del dialogo, con un Pasternak che diventa poi distratto, e forse troppo impegnato vista l’assegnazione del Premio Nobel. E ha un’idea molto alta della poesia e della letteratura, un’idea morale, che attraversa questo libro, che oggi è andata completamente in disuso, trasformandosi nell’esatto contrario di quanto il grande scrittore potesse intendere. È chiarissimo in questo senso: «Per me i versi non sono mai stati un gioco e un divertimento. Sono stati la conversazione dell’uomo con il mondo in una sorta di terza lingua, ben compresa sia dall’uomo che dal mondo, benché l’uomo e il mondo abbiano lingue madri differenti».
Varlam Salamov – Boris Pasternak, Parole salvate dalle fiamme, Archinto, pp. 200, 16.00
«Avvenire» del 13 febbraio 2010

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