24 marzo 2010

DDR, poesie «di stato» 20 anni dopo

di Vito Punzi
La recente pubblicazione in Germania degli atti della Stasi su Günter Grass, oltre a far tornare alla memoria il bel film di von Donnersmark, «Le vite degli altri», ha riacceso il dibattito sul rapporto tra scrittori e potere politico nella Ddr. Nei giorni scorsi è stato lo stesso Grass ha accusare Hermann Kant, a suo tempo presidente dell’Associazione degli Scrittori tedesco orientali, di aver contribuito «allo sfascio così miserevole» nel quale finì la Germania dell’est, facendo così il gioco dell’«altra parte», come la chiama Grass, cioè degli avversari del socialismo. Il tema del rapporto scrittori-Ddr in realtà è vivo anche in Italia, in particolare grazie alla raccolta «100 poesie dalla Ddr» (edizione italiana a cura di Sara Sedehi, ISBN Edizioni). Viene subito da chiedersi il perché del titolo, visto che la Repubblica Democratica Tedesca, in quanto Stato, è scomparsa vent’anni fa.
Prima ancora che denunciare la nostalgia che trasuda dal libro per un sistema che non c’è più e che, è bene ricordarlo, aveva tutti i tratti caratteristici della dittatura, va sottolineata la discutibile idea del poetare propria dei curatori tedeschi, Christoph Buchwald e Klaus Wagenbach, cui s’aggiunge quella altrettanto discutibile dei prefatori italiani, Edoardo Sanguineti e Andrea Tarquini.
Un’idea che riconosce le ragioni della poesia solo se in relazione con il contesto sociale, con lo Stato perfino, in cui essa viene prodotta, in cui il suo autore vive, suddito o cittadino privilegiato che sia. Per quale altro motivo, se non per nostalgia di quel regime, si dovrebbero proporre al lettore questi componimenti di 58 autori diversi, accomunati solo dal fatto d’aver fatto esperienza più o meno lunga della Ddr? L’ha capito perfino Edoardo Sanguineti, che in poche righe di prefazione, oltre che se stesso in quanto «intellettuale», riesce a celebrare, autocitandosi, quel Muro che non c’è più, perché con esso di una città se ne erano fatte due… Dunque, non sarebbe stato più sensato presentare una raccolta che mettesse a confronto poeti di lingua tedesca «indipendentemente» dal contesto sociale e dallo stato d’appartenenza? Troppo complesso. Meglio sparare affermazioni gratuite del tipo «i poeti dell’Est (rispetto a quelli dell’Ovest, ndr.) maneggiavano il mestiere con maggiore precisione, con maggiore conoscenza della tradizione lirica» (così i curatori).
Massimalismo di vecchia data. E perché poi sarebbero stati così bravi? Ovvio, perché nella Ddr «i lettori li prendevano sul serio, lo Stato li prendeva sul serio».
Neppure una poesia è stata tratta da un’altra antologia di autori tedesco-orientali, pubblicata nella Repubblica Federale nel 1985, prima del collasso comunista. Ripulsa, solo perché uno dei curatori, Sasha Anderson, si scoprì poi essere stato uno spione della Stasi? Alto senso di moralità? Può essere, ma sempre in ossequio alla superiorità del regime, visto che in questa raccolta non mancano poeti ufficiali di Stato come sono stati Johannes R. Becher e Kurt Bechel (Kuba). Di significative poesie scritte nel dopoguerra a Dresda dai vari Czernowski e Mickel, infine, con a tema la tragedia dei bombardamenti, non c’è traccia. Piuttosto si è preferito fare spazio al solo B.K. Tragelehn, poeta mediocre nei cui versi c’è tutta la fallimentare utopica pretesa della Ddr di poter costruire qualcosa di nuovo distruggendo: «osservavo con sollievo / La città in fiamme. A otto anni / Per la prima volta mi feci un’idea. Mi piaceva. / Perché qualcosa sorga, qualcosa deve sparire».
«Avvenire» del 24 marzo 2010

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