28 marzo 2010

E morto Dio… vennero gli dei

Il neopaganesimo di Alain de Benoist si costituisce in antitesi al cristianesimo e non per forma propria e originale. Mentre Caino è esaltato Abele viene disprezzato. Il nuovo paganesimo appare molto vicino a quello nazionalsocialista; per de Benoist, Hitler è “l’ultimo rappresentante della politica classica”. Il fascino cupo e vuoto che promana dalla Nouvelle Droite non ha tratto lezione dal dramma immane che ha insanguinato l’Europa negli anni ’40.
di Massimo Borghesi
«Un più alto spirito mandato dal cielo deve fondare fra noi questa nuova religione, l’ultima e più grande opera dell’umanità» scrivevano i giovani Hegel, Schelling, Hölderlin, in una sorta di programma filosofico-politico steso nel 1796, all’indomani della crisi degli ideali illuministici che il corso della rivoluzione in Francia aveva provocato negli animi di quasi tutta Europa. Essi auspicavano il sorgere di una «nuova mitologia» capace, dopo il declino della fede tradizionale, di accordare nuovamente tra loro intellettuali e popolo. Pochi anni dopo Friedrich Schlegel facendo eco a questo imperativo profetico affermava che una mitologia «siamo prossimi ad averla, o, piuttosto, s’avvicina il momento nel quale dobbiamo seriamente adoprarci a crearne una».
L’epoca dei miti è l’epoca del declino del cristianesimo dalla scena europea. Dagli inizi dell’800 sino a tutto il nostro secolo una schiera di pensatori, di artisti, di poeti viene vagheggiando una nuova fede, che non è semplicemente quella illuministico-rivoluzionaria (e poi marxista) animata dall’idea di progresso e volta verso il futuro di un’umanità redenta, bensì mossa dal desiderio di far rivivere gli dei dopo la «morte di Dio». Dalla mitologia germanica di Wagner (sia pure mitigata da elementi cristiani), al Dioniso di Nietzsche, a «Il mito del XX secolo» di Rosenberg, il filosofo del nazismo, è tutto un proliferare di immagini, di richiami, dal sapere vedico a quello celtico, che hanno un valore «sostitutivo». Quella che possiamo chiamare la variante di destra dell’«epoca della secolarizzazione» non si accontenta infatti della scomparsa del Dio cristiano, che pure combatte; ne vuole superare il vuoto che rimane conservando il senso del «sacro», della sacralità del mondo: di qui la funzione del mito. Esso «sostituisce» la fede cristiana impedendone la rinascita e bloccando al contempo l’esito necessario del processo di secolarizzazione verso il nichilismo. La realizzazione massima della capacità persuasiva ed ottundente del mito la si è avuta senza dubbio nella Germania dei dodici anni nazionalsocialisti. Qui nel suo coniugarsi con la politica, in quella che G. Mosse ha chiamato «l’estetica della politica», il mito si è fatto liturgia — nelle incredibili adunate nello stadio di Norimberga —, culto attorno all’unico Capo. La sconfitta del Reich e la fine della guerra hanno segnato in Europa l’emergenza della variante di sinistra dell’epoca della secolarizzazione, dal neoillumismo al marxismo, una mentalità de-mitizzante che privilegia l’utopia volta al futuro e relativamente povera di immagini. La crisi di questo pensiero nel periodo che segue al ‘68 coincide con una ripresa dell’opera di Nietzsche, quale profeta del «nichilismo», e di Heidegger per il quale il nichilismo occidentale concludendosi lascia ormai intravedere un nuovo spazio per il sacro come tale. E in questo clima, di declino del messianesimo marxista, di crisi del cristianesimo e di esigenza di nuove fedi che si inquadra il fenomeno di rinascita di una «Nouvelle Droite» in Francia. Come ha scritto J.-M. Domenach: «Tutto si svolge come se questi europei, dopo aver riposto le proprie speranze nel cielo (religioni verticali) e poi nella terra (religioni orizzontali), ritornassero alle religioni telluriche, al culto degli eroi morti e delle tradizioni sepolte». Questo avvenimento di cui recentemente, a partire dal 1979, si è occupata anche la stampa francese ed italiana è inquietante per almeno due fattori: per la diversità rappresentata rispetto alla destra tradizionale e classica, per il rapporto con il cristianesimo. Nei riguardi di quest’ultimo è certo che esso, più ancora che le ideologie di sinistra, viene rappresentato come il nemico principale. Già ai tempi della rivista «Europe-Action» (1963-66), uno dei periodici che costituiranno la fucina della nuova destra, gli argomenti anticristiani sono presenti. Questa tendenza si radicalizza con la fondazione del Grece (Groupment de Recherche d’etudes pour la Civilisation Européenne) nel 1969. Così la casa editrice dell’associazione — Copernic — edita opere anticristiane come L. Rougier, Celse contre les chrétiens; Id., Le conflit du christianisme primitif et de la civilisation antique; E. Renan, Judaism et Christianisme. Sulle consuetudini e tradizioni precristiane esce nel 1975 Les Solstices. Histoire et actualité di Jean Mabire e Pierre Vial sulle pratiche solstiziali europee; nel 1983 Alain di Benoist e Pierre Vial pubblicano il volume La mort. Tradition populaires / Histoire et actualité. In Italia d’altra parte la «nuova destra» italiana gli fa eco e la casa editrice AR dedica una collana («Paganitas») ai polemisti anticristiani antichi (Giuliano Imperatore, Celso, Porfirio) unitamente agli scritti di J. Evola sulla romanità tra cui L’imperialismo pagano. Se il filone italiano dipende nella sua critica al cristianesimo proprio da Evola quello francese è più direttamente influenzato da Nietzsche. Qui il vero e proprio organizzatore e ideologo del movimento è sicuramente Alain de Benoist, nato a Parigi nel 1942, collaboratore del «Figaro Magazine», autore di numerose opere tra cui ultimamente Comment peut-on être païen?, Paris 1981 («Come si può essere pagani?», tr. it., Basaia ed., Roma 1984) riguarda direttamente il nostro tema.
«Per chi considera con Nietzsche che la cristianizzazione dell’Europa [...] fu uno degli avvenimenti più disastrosi di tutta la storia fino ai nostri giorni — una catastrofe nel senso proprio del termine — che può significare oggi la parola “paganesimo”?» (p. 11). Questa domanda costituisce come la premessa all’intero scritto. Questo, che nell’insieme sta sotto la manifesta influenza di Nietzsche citato copiosamente, si prefigge di chiarire il senso di un paganesimo dopo il cristianesimo, di un paganesimo cioè che al di là di ogni intenzione non può più ripresentarsi nella sua immediatezza ma deve giocoforza assumere una nuova veste. Come avverte l’Autore poiché il «ritorno all’anteriore» è «impraticabile» ne consegue che «un nuovo paganesimo deve essere veramente nuovo» (p. 192). Per de Benoist ormai «non v’è bisogno di “credere” in Giove o in Wotan — [...] — per essere pagani. Il paganesimo oggi non consiste nell’innalzare altari ad Apollo o nel resuscitare il culto di Odino. Implica, invece il ricercare dietro la religione» l’«universo interiore cui essa rinvia». In «breve, implica il considerare gli dei come “centri di valori”», gli «dei e le credenze passano, ma i valori permangono» (pp. 23-24). La fede pagana ê allora una fede in divinità ridotte a simboli, una fede che richiama quella di tipo ellenistico cui il testo non a caso rinvia come possibile modello (pp. 193-195).
Qual è l’essenza di questo paganesimo per il quale gli dei, post-cristianamente, non possono più essere reali? Per de Benoist essa consiste nella sacralizzazione del mondo mediante i miti. Il paganesimo cioè, nei confronti del cristianesimo accusato di aver desacralizzato e demitizzato il mondo, si presenta come un’«altra spiritualità» più forte e più intensa: per essa il mondo non è separato da Dio ma è esso stesso divino. Qui sta secondo l’ideologo francese il vero punto di separazione tra paganesimo e cristianesimo, nel «dualismo» che caratterizza la posizione cristiana circa i rapporti Dio-mondo, per la differenza qualitativa che frappone tra uomo e Dio, differenza che viene invece a togliersi nella mitologia pagana per la quale il divino non è altro che la proiezione sublimata dell’umano. Il mondo paganamente inteso, come ciò che in se stesso è divino, è allora eterno, non ha né inizio né fine, è l’assoluta presenza dell’essere parmenideo. Questa sacralità del mondo non è però intesa da de Benoist alla maniera ad es. di Goethe o di Hölderlin, come splendore che promana dall’essere, bensì, dopo Nietzsche, come opera mitologizzante da parte dell’uomo, come creazione-trasfigurazione della volontà di potenza. La realtà infatti in sé non è che vuoto caos di fronte a cui si erge, sartrianamente e nietzschianamente, la libertà come assoluto creatore di forme, come energia che plasma il mondo secondo la misura del proprio volere. L’idea di un «cosmo», di un ordine in senso classico che la ragione e chiamata a «riconoscere», è qui definitivamente perduta.
In effetti il paganesimo di de Benoist è molto più la ripetizione del neopaganesimo nietzschiano che non quella del mondo precristiano, è un paganesimo cioè che si costituisce dialetticamente, mediante l’antitesi al cristianesimo e non già per forma propria ed originale. In ciò d’altra parte risiede la caratteristica propria del mito in senso moderno, nella sua volontà di superamento del cristianesimo senza però poter esser creduto nella sua verità: il mito nell’epoca post-cristiana è inevitabilmente ideologia. «Il paganesimo dell’avvenire — annunciato dal leader della “Nouvelle Droite” — sarà un paganesimo faustiano» (p. 192). Faust e, molto prima di lui, Caino, sono i prototipi di questa nuova umanità che trova il suo fondamento nella «volontà della volontà», nella volontà che vuole solo se stessa e che si afferma al di là di ogni norma, al di là del bene e del male. Il cuore del paganesimo starebbe infatti, Secondo l’Autore, nel senso della innocenza del mondo, nell’ignoranza felice di una colpa originaria, nel rifiuto della distinzione morale bene-male a favore di quella per cui è bene ciò che accresce la potenza e male ciò che la diminuisce. Nel campo della politica ciò significa, in accordo all’«ideologia del paganesimo indo-europeo» la fine dell’«antagonismo biblico tra la morale o il diritto e la sovranità politica» (p. 161). Qui le relazioni che dominano la scena sono «organiche» all’interno dello Stato e, come vuole Carl Schmitt, basate sul rapporto amico-nemico all’esterno. Nel campo della potenza la conflittualità è la norma. Le torbide immagini nietzschiane sull’uomo guerriero ed eraclitee sulla guerra madre di tutte le cose tornano enfaticamente in de Benoist. Di contro al «monoteismo giudeo-cristiano» il quale esige «l’estinzione dei conflitti, senza rendersi conto che la struttura conflittuale è quella stessa del vivente e che la sua estinzione implica l’entropia e la morte, il paganesimo europeo poggia su di un pluralismo antagonista di valori» (p. 164). Il paganesimo sacralizzerebbe così la lotta poiché «la contraddizione è il motore stesso della vita, il desiderio di farla sparire è un desiderio di morte» (p. 163). In questa concezione agonale che fa della lotta l’essenza stessa della vita risiede anche il tragico. Questi non muove però alla compassione o allo scoramento: «Il tragico implica una volontà di misurarsi col tempo, ben sapendo che questo alla fine vincerà, senza mai trovare nella certezza della caduta finale — la morte — il minimo pretesto per rinunciare» (p. 179). Questo «pessimismo della forza», che caratterizza la destra europea dopo Nietzsche, non è casuale ma emerge in rapporto al problema dell’ateismo. Mentre il pensiero pessimistico precedente a Nietzsche (Leopardi, Schopenhauer), apre in una qualche misura ad una prospettiva religiosa, la volontà nietzschiana di trarre ogni possibile conseguenza dall’opzione atea, impedisce, coniugando assieme pessimismo ed attivismo, un simile sbocco.
Quest’uomo, «esserci-per-la-morte» in senso heideggeriano, pura misura di se stesso, non ha un’«essenza» universale. Il paganesimo come politeismo diventa nella sua forma concettuale moderna sinonimo di nominalismo. La «svolta nominalista», cui era dedicato il numero dell’agosto ‘79 di «Nouvelle Ecole», la rivista teorica del gruppo, rappresenta anch’essa una logica conseguenza della posizione nietzschiana. Se non esiste più una verità obiettiva ma fondamento di tutto è la volontà di potenza, allora i concetti non sono che vuoti nomi con cui plasmiamo a piacere il mondo, essi non decifrano più nulla poiché nulla v’è da decifrare (con ciò la «NouveIle Droite» si separa anche dalla destra tradizionale, dallo stesso Evola, nella misura in cui questa conserva l’idea di una verità eterna). Lo stesso termine «uomo» non rimanderà più a nulla, non esiste più l’uomo come «immagine di Dio», ma solo una molteplicità di atomi in perenne lotta tra di loro. Viene meno così l’idea di universali diritti dell’uomo, cui l’Autore ha dedicato un saggio critico (A. de Benoist - G. Faye, La religion des droits de l’homme, in «Elements», gennaio-marzo 1981), nonché l’idea di uguaglianza, fondata sul presupposto che tutti gli uomini siano eguali di fronte a Dio. L’apologia della diversità e della differenza copre qui l’esaltazione dei più dotati, intellettualmente e fisicamente, di una «aristocrazia» che coincide perfettamente con l’ideale del superuomo nietzschiano. L’uomo — si afferma in Come si può essere pagani? — deve ambire «a diventare come gli dei», l’uomo «non deve soltanto essere se stesso, essere conforme alla propria “natura”, deve anche cercare di darsi una “supernatura”, di acquistare una sovrumanità» (p. 203). L’interesse per le scienze, coltivato dalla «Nouvelle Droite», dalla genetica, alla biologia (J. Monod), sociobiologia (E.O. Wilson), etologia (K. Lorenz), è finalizzato proprio, mediante la dimostrazione delle diversità innate e costitutive degli individui, a fondare questa «elite» antropologica. Il nuovo paganesimo appare così molto vicino a quello passato, nazionalsocialista, il cui capo non a caso viene esaltato da de Benoist come «l’ultimo rappresentante della grande politica classica». Il fascino vuoto e cupo che da esso promana non ha tratto lezione dal dramma immane che ha insanguinato l’Europa e il mondo negli anni ‘40. Il nuovo «mito del XX secolo» riemerge inquietante all’insegna del disprezzo di Abele e dell’esaltazione di Caino come una delle due fedi secolari, affatto estinta, dello spirito europeo nell’epoca della secolarizzazione.
«30Giorni», anno II, n. 7, luglio 1984, pp. 20-23

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