29 marzo 2010

Ecce Homo Cristo nello specchio dall’arte

La Bibbia vietava di raffigurare la Divinità, per timore di cadere nell’idolatria. Ma san Giovanni Damasceno supera l’ostacolo: «Un tempo non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico. Però ora Egli è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, perciò è lecito fare un’icona di quanto è stato visto di Lui: il suo Figlio Gesù di Nazareth»
di Timothy Verdon
Il mondo greco-romano conosceva tre estetiche: quella arcaica, dove rigidità del fisico e fissità dello sguardo parlavano della ricerca di ordine nel caos dell’universo; la classica, che comunicava un controllo sereno, semi-divino, della propria sorte; l’ellenistica, spontanea nelle pose e associata all’indagine psicologica a indicare il dramma dell’esistenza Dato comune era però il fatalismo pessimista, superato invece dall’iconografia cristiana che comunica una nuova libertà e dignità del corpo e dello sguardo Già nell’Antico Testamento molte parole dell’incorporeo Javhé lasciano intravedere l’attenzione per la «carne» Ma il Salvatore divenne poi «l’icona dell’invisibile Dio» soprattutto assumendo in sé tutti i dolori del mondo nella sua volontaria passione e morte Non per nulla i testi scritturistici sul Redentore sofferente hanno generato una quantità di opere pittoriche e scultoree come nessun altro dei temi sacri
A prescindere dalle molte questioni che la Sindone solleva, la sola possibilità dell’esistenza di una simile reliquia è specialmente significativa per l’arte, perché conferma la visibilità e quindi la rappresentabilità dell’uomo che si diceva Figlio dell’invisibile Dio d’Israele. «Un tempo non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico – ricordava san Giovanni Damasceno, evocando il divieto biblico ad ogni raffigurazione della Divinità –. Ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un’immagine di quanto è stato visto di Dio», cioè a dire dell’uomo Gesù.
Non è esagerato affermare che l’idea stessa di persona elaborata dall’Occidente negli ultimi due millenni sia debitrice di questa tradizione iconografica, in cui libertà e dignità umana scaturiscono dal dono del corpo e si comunicano nel pathos dello sguardo. I coefficienti corpo-volto-persona, variamente interpretati nell’arte di civiltà diverse, esprimono diverse visioni dell’uomo. Il mondo greco-romano, su cui il cristianesimo s’innestò, ne conosceva almeno tre: quella arcaica, quella classica e quella ellenistica. Nella prima, la rigidità del corpo e la fissità dello sguardo parlavano della ricerca umana di ordine di contro al caos dell’universo; nella seconda, rilassatezza corporea insieme a interiorità nell’espressione facciale comunicavano un controllo sereno, semi-divino, della propria sorte; nella terza, che è quella culturalmente più vicina all’arte cristiana, spontaneità nelle pose e nei movimenti associata all’indagine psicologica e all’interesse per l’irrazionale sottolineavano il dramma dell’esistenza umana. Comune denominatore dell’equazione variabile antica era però un pessimismo derivante dalla concezione labile del corpo­persona al di là della morte. Questo sottofondo fatalista colora l’esperienza del corpo nel mondo greco-romano e spiega sia l’estetismo sia l’edonismo riflessi nell’arte del periodo confinante con il diffondersi del cristianesimo. Il corpo bello dei personaggi divini e umani di Teocrito e d’Ovidio, il corpo strumento di arbitri sensuali e oggetto di desideri lussuriosi, costituisce infatti lo sfondo su cui dobbiamo leggere la reazione cristiana, come dichiara apertamente Paolo di Tarso quando condanna i suoi contemporanei pagani perché «hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili» (Rm 1,23). Paolo collega a tale perverso scambio quella che egli considera l’immoralità sessuale dei pagani (Rm 1,26­28), e elenca i mali morali, etici e spirituali che secondo lui ne conseguono: ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, invidia, odio omicida, litigiosità, fraudolenza, malignità, diffamazione, maldicenza, ostilità verso Dio, arroganza, superbia, presunzione, ingegnosità nel male, ribellione contro i genitori (Rm 1,29-30); conclude questo fosco ritratto affermando che i pagani sono «insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia» (Rm 1,31). Paolo era cristiano e prima ancora era ebreo, erede di un’immagine dell’uomo non dipinta o scolpita ma articolata nelle scritture e nelle tradizioni del suo popolo. A differenza dei miti pagani, che presentavano gli déi con tutti i difetti degli uomini, la cultura biblica di Paolo e dei primi cristiani riteneva che l’uomo dovesse aspirare alla perfezione di Dio, e soprattutto alla sua misericordia.
«Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso», Gesù aveva detto infatti (Lc 6,36), e questa misericordia caratteristica dell’essere umano aveva una singolare componente corporea. Già nell’Antico Testamento molte parole del Dio incorporeo lasciano intravedere l’importanza del corpo per comprendere le sue leggi: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole», l’Altissimo comanda a Israele, motivando questa norma divina con una ragione molto umana.
Secondo il Dio della Bibbia, un creditore deve rendere il pegno al povero prima di notte «perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?» (Es 22,25-26) – un Dio incorporeo ma sensibile al tremore della pelle del povero! Nello stesso spirito ma fuori da ogni logica legale, Gesù descrive come, nel Giudizio Ultimo, il Figlio dell’uomo premierà quanti avranno avuto cura corporale del prossimo; parlando in prima persona dice: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo mi avete vestito» (Mt 25,35- 36). «Ho avuto fame». Per i credenti in lui, Gesù, Figlio di Dio, è diventato quel povero a cui bisogna rendere il mantello prima di notte: l’affamato, l’assetato, l’escluso, il senza tetto, l’ignudo da coprire. «Verbo» divino – perfetta espressione cioè della misericordia del Padre –, «si fece carne» (Gv 1,14), assumendo in sé tutte le sofferenze corporee e morali degli uomini. Soprattutto nella sua volontaria passione e morte divenne «l’icona dell’invisibile Dio» (Col 1,15) – la sua stessa immagine – secondo un paradossale principio funzionale: «Il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l’abito più acconcio al genere di lavoro», dice un teologo greco del IV secolo, il vescovo san Macario. «Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro, dissodò l’anima arida e incolta, ne strappò via le spine e i rovi degli spiriti malvagi, divise il loglio del male e gettò al fuoco tutta la paglia dei peccati. La lavorò così col legno della croce e piantò in lei il giardino amenissimo dello Spirito. Esso produce ogni genere di frutti soavi e squisiti per Dio, che ne è il padrone». Ecco, l’immagine di Dio contemplata nel corpo sofferente di Gesù implica questa dinamica di purificazione e crescita. Implica anche un processo in cui il soggetto umano scopre e comprende se stesso, come suggerisce un padre della Chiesa, Pietro Crisologo, quando immagina Gesù crocifisso che invita i credenti a riconoscere nel suo corpo sacrificato il senso morale della loro vita.
«Vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, il vostro sangue – dice Gesù –. E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Se rifuggite dal padrone, perché non ricorrete al congiunto?». Sono citazioni utili per riscoprire la concezione di corporeità e di personalità elaborata nei secoli attraverso immagini di Gesù – l’idea del corpo come luogo di una dignità insita nell’essere umano – di una capacità «sacerdotale» di offrirsi –, e del volto come specchio di libertà consapevole. «Muoio, dice il Signore, per vivificare tutti per mezzo mio». Queste
Qparole san Cirillo d’Alessandria sulla bocca di Cristo e prosegue: «Con la mia carne ho redento la carne di tutti. La morte infatti morrà nella mia morte e la natura umana, che era caduta, risorgerà insieme con me.
Per questo infatti sono divenuto simile a voi, uomo cioè della stirpe di Abramo, per essere in tutto simile ai fratelli». Non si trattava di un atto rituale, ma di vera morte preceduta da vera sofferenza, l’una e l’altra evocata nella frase del profeta Isaia, «uomo dei dolori» (Is 53,3). Isaia infatti parla a lungo di un misterioso servo di Dio, «disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire»: uno che «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori»; uno «trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità», ma per le cui «piaghe noi siamo stati guariti».
uesto servo è descritto come il pastore di un gregge sperduto, un uomo che «maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53,3-7); un pastore quindi che accettò di farsi pecora e specificamente pecora d’espiazione, animale sacrificale, agnello che toglie i peccati.
Proprio queste citazioni, proprio questi concetti verranno associati a Gesù negli scritti neotestamentari come poi nella liturgia, e tale associazione costituisce infatti il nucleo centrale del messaggio cristiano, la «buona novella» di un Messia sofferente che «si è addossato i nostri dolori» così che «per le sue piaghe noi siamo stati guariti». I relativi testi scritturistici, solennemente proclamati ogni anno nella settimana che precede la Pasqua cristiana, e i riti altrettanto solenni che accompagnano tale proclamazione, a loro volta hanno generato una quantità d’immagini pittoriche e scultoree come nessun altro dei temi che riguardano Gesù. Sembra che ogni paragrafo, quasi ogni parola del dettagliato racconto della sua passione abbia stimolato l’inventiva degli artisti, così che la stessa gamma di soggetti specifici risulta più articolata che in altre categorie d’iconografia cristiana. Corpo e volto insieme ora, drammaticamente eloquenti, rivelano la personalità dell’uomo che si offre: nell’«Orazione nell’orto» di Simone Peterzano, dove Gesù accetta di bere il calice della sofferenza; nel superbo «Gesù incoronato di spine» di Correggio; nello straordinario «Gesù e il manigoldo» del Giorgione o forse Tiziano; e nel dolcissimo «Gesù portacroce» del Garofalo. E all’epicentro assoluto il crocifisso che Michelangelo Buonarroti realizzò per la Basilica di Santo Spirito a Firenze, opera al contempo spirituale e sensuale: non l’austero «Christus patiens» del Medioevo, ma un giovane dal corpo efebico in cui albeggia già la Pasqua. Sugli eventi che seguono immediatamente la morte di Gesù domina un capolavoro dell’arte cristiana, la «Imbalsamazione di Cristo» di Giovanni Bellini, fatta come cimasa di una grande pala realizzata dal maestro per i francescani di Pesaro. Qui ancora il corpo e la persona di Gesù sono presentati all’interno di una rete di relazioni, la cui tempra umana è leggibile nei volti degli amici intorno al defunto.
Secondo i vangeli cristiani, Gesù non rimase prigioniero della morte ma risuscitò il mattino di Pasqua. Pienezza della fede in Cristo è infatti l’accoglienza della sua risurrezione, l’atto d’adesione intellettuale ed esistenziale al paradosso di un’umiliazione che sfocia in gloria, una morte che si trasmuta in vita. In una grande tela di Rubens si vede, seduto sulla tomba e ancora avvolto nella sindone, un Gesù dalla corporatura iperbolica, immaginato come «forte e potente… in battaglia». In battaglia: per la tradizione iconografica, Gesù risorge con le ferite riportate nella sua lotta ancora visibili sul corpo. Il rapporto particolare con Maria Maddalena emerge in due capolavori: la «Maddalena al sepolcro» del Guercino, dove questa donna da cui Gesù aveva scacciato sette demoni piange sulla sua tomba vuota; e il lussureggiante «Noli me tangere» di Federigo Barocci, dove la prossimità dei due corpi allude a una sponsalità trasfigurata in senso pasquale.
«Avvenire» del 28 marzo 2010

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