30 marzo 2010

Gli scrittori mandano i critici a... lavorare

Santacroce stronca Barilli che aveva stroncato il suo romanzo. Da Mari a Baricco, da Moresco a Parente è l’ultimo capitolo di una saga in cui i narratori si ribellano agli «esperti». Accusati di incompetenza
di Luigi Mascheroni
Forse bisognerebbe fare come Michele Mari. Qualche anno fa, dopo essere stato stroncato da Antonio D’Orrico, si presentò alla sede del Corriere della sera. Si fece annunciare, salì e appena entrato nell’ufficio gli tirò uno schiaffo. Secco. Come una stroncatura. Quattro anni fa, invece, Alessandro Baricco consegnò alla storia del giornalismo culturale un pezzo d’antologia dal titolo «Cari critici, ho diritto a una vera stroncatura». Umiliato da due mandarini della critica che, buttando lì una frasetta velenosa in articoli in cui si parlava di tutt’altro, avevano irriso i suoi due ultimi libri senza averli neppure letti, Baricco - furioso - rivendicò il diritto a una riflessione critica più argomentata e profonda sulla propria produzione letteraria. Ma narciso com’è, non rinunciò a restituire la stoccata. Anzi due, una per ciascuno: «Adesso vi dico cosa avrei dovuto fare, secondo il galateo perverso del mio mondo, invece che scrivere questo articolo. Avrei dovuto stare zitto e lasciar passare un po’ di tempo. Poi un giorno, magari facendo un reportage su, che ne so, il Kansas, staccare lì una frasetta tipo “questi rettilinei nella pianura, interminabili e pallosi come un articolo di Citati”. Poi, un mesetto dopo, che so, andavo a vedere la finale di baseball negli Stati Uniti, e avrei sicuramente trovato il modo di chiosare, in margine, che lì si beve solo birra analcolica, “triste e inutile come una recensione di Ferroni”». Chapeau.
I rapporti tra critici e scrittori scivolano da sempre lungo una china rabbiosa. Ma ultimamente sembrano franati in un baratro di violenza. Gli autori sono sempre più suscettibili e pronti a coprire di insulti, nel migliore dei casi, o a lanciare una fatwa, nel peggiore, chi parla male dei loro libri. I motivi? Ovviamente perché non ci sono più i critici di una volta..., ma forse anche perché gli scrittori sembrano essersi guadagnati mediamente un livello di autorevolezza superiore rispetto a chi li giudica. È vero, nell’ultimo decennio si sono letti ben pochi romanzi-capolavoro. Ma, a memoria, neppure un saggio critico davvero «monumentale». In virtù di cosa - è la domanda degli scrittori - certi critici si ergono in cattedra?
Comunque, la liaison tra scrittori e critici ultimamente è tesissima. Isabella Santacroce, infilzata due sabati fa su Tuttolibri da Renato Barilli, al quale il nuovo Lulù Delacroix non è piaciuto, giovedì ha scritto sul suo blog (www.isabellasantacroce.com) una lettera di fuoco contro il malcapitato critico. Gli dà del venduto, lo diffida gentilmente dall’azzardare qualsivoglia paragone letterario - «E poi, ancora, come si permette di scrivere che in V.M. 18 farei il verso a De Sade, e in Lulù Delacroix a Carroll? Lo faccia lei il verso, che sia nel suono somigliante al ragliare di un asino però» - semina il dubbio, peraltro legittimo in questi casi, che Barilli non abbia letto tutto il libro, e infine lo invita a un fine esercizio di autoanalisi: «Forse dovrebbe iniziare a recensire la sua intelligenza, ovviamente stroncandola». Concludendo: «Mi spiace trattarla così malamente, ma da troppi anni sopporto idiozie e cattiverie a me rivolte: per questo mi è stato donato l’appellativo di Isabella Crocifissa. Ora basta. Da quella croce sono scesa, con in mano un mitra».
Quindici giorni fa sul Riformista Massimiliano Parente, il cui libro su Proust L'evidenza della cosa terribile era stato malamente liquidato sullo stesso foglio da Filippo La Porta, ha risposto con un articolo-cannonata in cui - da scrittore - fa a pezzi il critico e la critica: «Gli scritti più interessanti sugli scrittori vengono dagli scrittori, i critici servono a fraintendere in buona o cattiva fede»; sottolinea l’insufficienza strutturale e metodologica dei “recensori” di oggi; denuncia il giro dei salotti e delle terrazze romane - «Lasciamo perdere gli inviti rivolti dai vari club Verdurin dei critici italiani e da me rifiutati per fare combriccola, o gli sms o le dediche, che conservo con raccapriccio, per farsi recensire l’ultimo libro, o le cenette, appena intraviste, intorno ai salottini di Onofri e Manica e Berardinelli o allegre brigate presso la Gaffi Editore in Roma...», chiudendo alla fine sdegnosamente il «critico superficialotto» e l’«inconsistenza» delle sue argomentazioni... fuori da La Porta.
Più o meno quello che, un anno e mezzo fa, fece al compianto Nico Orengo lo scrittore Antonio Moresco. Il primo fulminò in dieci righe le 728 pagine di Lettere a nessuno - «pagine di ossessione, paranoia, pettegolezzi, dolore, ansia, narcisismo sfrenato» - e il secondo con una lettera aperta lo trascinò per le orecchie dietro la lavagna: «Quello che mi sembra inaccettabile è questa pratica di stroncare un libro senza averlo neppure letto, la presa in giro dei propri lettori, la disinformazione (...) perché dare un’immagine così meschina e fuorviante di un libro di cui si è vista solo la copertina?». A suo tempo lo stesso Moresco si premurò di strigliare addirittura il “maestro” Alfonso Berardinelli, il quale si era permesso di rimanere freddo rispetto al suo romanzo Gli esordi. «Ciò che più mi dispiace della sua lettera non è solo e tanto il giudizio così totalmente e sbrigativamente negativo nei confronti del mio libro - gli scrisse Moresco in una delle sue Lettere - quanto il tono inutilmente arrogante con cui è espresso (...) Traspare solo fastidio, acredine, frustrazione, avversione. Non il minimo dubbio di aver preso una cantonata». E questo rinfacciato a un critico, come Berardinelli, che teorizza da tempo la superiorità della saggistica rispetto alla narrativa. Anche quella dei critici, verrebbe da domandargli?
Insomma, mentre i critici non producono saggi, o non di significativi, e comunque non si contestano mai tra loro e semmai si spalleggiano (lontani i tempi del Pasolini di Descrizioni di Descrizioni...), gli scrittori preferiscono farsi giustizia da soli. In un contesto in cui nessuno più legge le pagine culturali dei giornali ma tutti vanno ai festival letterari, l’autore ha scelto di saltare del tutto i suoi “giudici” e di rivolgersi direttamente ai lettori. Che, a volte, i libri li finiscono persino di leggere.
«Il Giornale» del 30 marzo 2010

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