24 marzo 2010

«I soldi? Non c’entrano. A vincere è la paura»

Carenza di servizi, precarietà, ma soprattutto assenza di valori: così per il sociologo l’incertezza del futuro paralizza le coppie italiane
di Stefano Andrini
Gli italiani fanno sem­pre meno figli a cau­sa di una crescente debolezza psicologica e cul­turale. Secondo il rapporto Cisf, infatti, i motivi perso­nali e culturali che hanno ri­stretto la natalità nel nostro Paese sono quasi il 58%. Più della somma delle altre mo­tivazioni: mancanza di sol­di, difficoltà a conciliare il tempo di cura e di lavoro, u­na casa troppo piccola, l’as­senza o la carenza dei servi­zi, la precarietà del lavoro. «Le famiglie italiane – spie­ga il sociologo Pierpaolo Do­nati – hanno sempre più paura a generare. Perché ci sono responsabilità che au­mentano, perché c’è l’incertezza del futuro, perché non sanno più come educare i fi­gli, perché si è persa la tra­smissione culturale tra le generazioni ».
La spiegazione materialista, non ci sono abbastanza ri­sorse, dunque non regge…
Un dato conferma questa tesi. Le italiane hanno in media 1,33 figli, mentre le immigrate arrivano a 2,2. E sappiamo bene come gli ex­tracomunitari abbiano pro­blemi economici, di allog­gio, se non addirittura di po­vertà. Eppure questo non in­cide sul loro contributo al­l’incremento demografico.
Il dato rilevato dal rappor­to manda in soffitta le tra­dizionali politiche familiari?
Agire sul versante del dena­ro è necessario perché le fa­miglie investono molto per i figli (35-40% del budget fa­miliare). Ci troviamo di fronte a famiglie che spen­dono tutto quello che pos­sono sul minimo dei figli. C’è l’idea che il bambino debba avere tutto e non so­lo l’essenziale; che è rap­presentato invece dal con­tatto umano, da una buona educazione. C’è quasi un’ossessione che pretende di dare ai figli un benessere pieno di gadget e di giochi.
Ma tutto questo non sem­bra più sufficiente…
Agire con interventi che ri­guardano solo la fiscalità, i bonus, i prestiti ha un certo valore ma deve essere ac­compagnato da un cambio di prospettiva culturale. Il che significa soprattutto at­tuare un welfare relazionale caratterizzato da servizi, non del tutto statali, ma messi in campo da reti di fa­miglie, della scuola, della so­cietà civile, perché i bambi­ni hanno bisogno di un am­biente relazionalmente va­lido e non tanto del super­fluo.
In questa prospettiva il bambino allora non può più essere visto come un bene di consumo?
Certamente. L’insistenza a monetizzare il costo dei figli contribuisce a mercificarli. In questo modo il figlio è sempre più un bene di con­sumo alternativo ad altri be­ni di consumo: una vacanza all’estero, l’automobile, l’ap­partamento. Ovvero si ten­de a far coincidere il costo del figlio con il suo prezzo. Mentre noi sappiamo che i bambini non hanno un prezzo.
Come deve avvenire, dal punto di vista del welfare il passaggio dal bambino be­ne di consumo a bene rela­zionale?
Con una rivoluzione coper­nicana. Non più solo trasfe­rimenti di denaro ma servi­zi. E soprattutto una capa­cità di investire sulla cultu­ra dei servizi orientati alla fa­miglia che oggi, come acca­de per i consultori, languo­no. Il futuro è quello di un welfare per figli. Non per i bambini genericamente in­tesi, come appartenenti ad una categoria astratta, ma un welfare dei bambini in quanto figli di una certa fa­miglia.
Perché questa opzione?
Il bambino è una ricchezza relazionale perché crea re­lazioni e attraverso queste relazioni le persone impara­no a fare i conti con gli altri ed è lì che si annidano le virtù sociali della famiglia. Dove i bambini imparano a superare le piccole gelosie e le piccole invidie perché hanno a che fare con molte relazioni. Questo porta un valore aggiunto alla comu­nità che oggi è invece carat­terizzata dai figli unici e da ragazzi che privi di relazio­ni si rifugiano nell’isola­mento. Per realizzare il pro­getto si possono anche im­maginare dei servizi a costo zero.
La popolazione italiana, commenta il Rapporto, so­pravvive decentemente perché rinuncia ad avere dei figli.
Questo significa che dagli anni ’80 in poi la politica ha rinunciato ad investire sulle nuove generazioni. Stiamo consumando il patrimonio accumulato senza reinve­stirlo sui figli. Cioè sul no­stro futuro.
«Avvenire» del 24 marzo 2010

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