29 marzo 2010

Il genio ribelle che fu redento

di Yves Bonnefoy
Fermiamoci alla sua tomba, quel luogo senza miraggi ove tanti giovani hanno voluto venire, al cimitero di Charleville. Là certo, sotto la pietra segnata da una semplice data, nel l'immobilità della morte, è la materia, è la limitazione a trionfare, quella degradazione dei possibili dell'esistenza contro la quale Rimbaud tanto aveva lottato. E non è neppure stato abbattuto nel modo sacro e veramente felice che un tempo aveva sognato, quando, volendo vivere come «scintilla d'oro della luce-natura», la morte non sarebbe stata che la sua fusione con l'essere: quella tomba da piccolo borghese o da contadino, striminzita, sociale, avara, conferma che una vita è stata strappata alla vita e che un adolescente ha dovuto cedere l'avvenire in cambio del destino, la libertà di «figlio del Sole» in cambio della condizione prostrata del commerciante e del lavoratore.
Tuttavia, sigillando questo destino, essa ne raccoglie le componenti; e il primo Rimbaud, il «Genio» che un cercatore al limite delle invenzioni e delle forze aveva voluto dimenticare per aver abusato di un'impossibile promessa, è di nuovo presente a fianco di colui che per potersene meglio disfare andò fino ai confini del mondo.
Ed è sempre lui, questo genio violento, insensato, che per molti di coloro che si avvicinano è ritto davanti a loro e parla. Si potrebbe dire che fa della pietra la sua paradossale autorità. Nega l'idea dello scacco. Fermiamoci a quest'impressione, irresistibile. Essa contiene forse l'insegnamento più decisivo che l'opera poetica di Arthur Rimbaud ci abbia fatto comprendere. Ma consideriamo che ci sono due modi di pensare, due modi elementari del divenire dello spirito.
Il primo è quello di non concepire la libertà se non come una scelta tra i diversi possibili che la nostra condizione di fatto ci propone. Dato che non si può amare l'idea di una scelta che avvenga per caso, questo pensiero torna a valorizzare una conoscenza oggettiva, e dunque un razionalismo. La libertà, insegna Hegel, è la conoscenza della necessità. Ben presto sarà scagliato l'anatema su chi si rifiuti di comprendere le esigenze o i diritti di questa necessità; o si rifiuti di scegliere. Rimbaud, da questo punto di vista, non fu niente di buono.
Non ha saputo scegliere tra le possibilità che gli venivano praticamente offerte. Né borghese soddisfatto, né riformatore coerente, non ha «conosciuto» la necessità, anzi non l'ha neppure riconosciuta. Sì, da un punto di vista ragionevole la sua poesia è un'erranza che non occorre giustificare.
Anche i rivoluzionari, coloro che contestano un momento, un aspetto della società, della legge, devono lasciarlo alla sua insensatezza. E se accettano la sua critica dell'antica moralità, è solo tatticamente, e senza comprenderla davvero. Se fosse ancora vivo, gli chiederebbero di essere soddisfatto della nuova legge, a rischio di condannarlo se non si rassegnasse a obbedirle. Ma c'è un altro modo d'essere che reclama il nome di libertà: quando il pensiero non si limita più, per distinguere ciò che è meglio, alle possibilità che gli vengono offerte. Esso ha riposto nell'assoluto il suo desiderio, e si riserva di accettare o respingere i suggerimenti del reale, a seconda che esso appaghi o meno questo inalienabile desiderio. E se quest'ultimo apparisse decisamente «impossibile», lo manterrebbe comunque, poiché ai soddisfacimenti relativi preferisce ciò che egli esige. Obbligato a subire la sua condizione, non per questo consentirà l'apologia del dato. E qualche volta, anzi, avrà il coraggio eroico di metterlo sotto accusa.
Assumendo su di sé, in questo caso, in nome di una testimonianza assoluta, tutte le frustrazioni, tutte le miserie, giungendo persino ad accentuarle. Questa testimonianza, ai suoi occhi, è lontana dall'essere assurda. È l'onore del l'umano. E forse è ancora convinto di riuscire ad aprirsi un varco. Poiché il pensiero che ora sto evocando, e che non è né la disperazione né lo stoicismo, persuade che la realtà possa sia metamorfosarsi per miracolo, sia migliorarsi tramite la ragione. Facendo del suo grande rifiuto il tradimento stesso dell'essere, vuole trasmutare il rapporto tra la coscienza e la natura nella cui eternità il pensiero «oggettivo» cerca sempre di rinchiuderci. La vera morte, ad esempio, non consiste forse nel «sapere assoluto»? E non c'è al contrario una nuova libertà, un'eternità praticabile, per uno sguardo dissigillato dal rifiuto di considerare adattabili e accettabili la limitazione e la morte? Definendo questo secondo pensiero, credo di avere riassunto la ricerca di Arthur Rimbaud.
Egli ebbe l'intuizione di una partecipazione auspicabile a una «vera vita» oggi «assente», e il desiderio di una vitalità e di una fiducia cui ha dato il nome di amore e che ha identificato nella fede. E ha constatato il rifiuto, oggi, di questa esistenza piena, dato che il pensiero del bene e del male ha legittimato soltanto una parte delle virtualità naturali per imporla a spese di tutte le altre. Dissociazione fatale, ha pensato Rimbaud.
Questa parte separata e valorizzata della vita – tutto il nostro avvenire di oggi – eccola nel divenire della storia come un'astrazione, come un fatto compiuto in anticipo. I suoi momenti e i suoi atti illividiscono nella fissità della morte. E l'altro possibile, quello condannato, appare al di là come una luce. Nonostante ogni esistenza sia votata alla frustrazione. Ogni ricchezza sensibile, al tempo stesso vicina e impraticabile, diventa «amara». Ogni coscienza di sé, che scopra all'uomo, alla donna, la loro impotenza, li costringe al disprezzo di sé.
Ogni cuore, dunque, è «infermo». Ogni comunione è distrutta, poiché l'altro, come noi, è il prigioniero della sua speranza. E la sessualità presidia le contraddizioni più opprimenti. Poiché essa rimane, qui, il primo slancio di un'esistenza salutare, ma, mancando il suo vero oggetto, che è una vita, e non un corpo, non sarà mai altro che una virtualità soffocata dalle pratiche imperfette e dai pensieri malati. Quello che avrebbe potuto essere il ritmo stesso della partecipazione al reale, qui, sotto il segno dell'interdetto, può rinchiudere Rimbaud in quello che egli chiama il suo vizio.
Un «inferno», dice Rimbaud; unico avvenire della legge. Ma invece di tentare di sfuggirvi, con l'oblio, con la gestione delle soddisfazioni che malgrado tutto ci rimangono, lui, il più radicale dei poeti, ha deciso di assumerne tutta la miseria, per operarne la trasmutazione. Già una volta, come oggi nell'orizzonte di una legge, non gli è stato detto che un «Figlio dell'Uomo» aveva fatto la stessa cosa, offrendo all'umanità la liberazione con un «nuovo amore»? L'insegnamento di questo salvatore è divenuto a sua volta una legalità imperiosa, il Cristo è ora il «ladro di energie», ma il suo gesto primo è ancora da meditare.
Come il Cristo, il poeta a venire deve porre fine alla stagione in inferno dell'anima, dicendo di no alla legge.


Testimone la sorella
Il testo pubblicato è tratto dal libro di Yves Bonnefoy, Rimbaud. Speranza e lucidità, a cura di Fabio Scotto, in uscita da Donzelli questa settimana (pagg. 318, € 30,00). Le pagine di Bonnefoy possono essere lette come quelle di un diario che racconta la storia di un lunghissimo amore mai sopito: l'amore per i versi di Rimbaud che, in ultima analisi, sembra coincidere quello per la stessa poesia.
Dalla ricostruzione minuziosa del contesto provinciale d'origine, che attinge alla corrispondenza familiare, al rapporto controverso con Madame Rimbaud, sua madre, e con i suoi fratelli, fino alla relazione con Verlaine e all'attraversamento della «Stagione in inferno», il saggio di Bonnefoy ricolloca Rimbaud al centro del dibattito poetico.

La piccola casa editrice di Pistoia, Via del vento, invece ha appena pubblicato L'ultimo viaggio di mio fratello Arthur della sorella Isabelle (pagg. 36, € 4,00).
«Il Sole 24 Ore» del 28 marzo 2010

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