19 marzo 2010

Ilade del Monti, sublime «tortura» da duecento anni

di Franco Gabici
Duecento anni fa, nel 1810, uscivano i primi due volumi della traduzione dell’«Iliade» di Omero nella versione di Vincenzo Monti, un’opera che il grande grecista Manara Valgimigli definì «originalmente bella, e tra le più compiute e perfette e stupende di tutta la letteratura italiana» . Il terzo volume fu pubblicato l’anno seguente, ma già l’anno successivo uscì una seconda edizione che faceva ammenda dei moltissimi errori contenuti nella prima. Una terza edizione in due volumi venne alla luce a Milano nel 1820 e infine, dopo cinque anni, uscì nel 1825 l’edizione definitiva. L’incipit montiano dell'«Iliade» («Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l’ira funesta che infiniti addusse / lutti agli Achei…» ) è sicuramente uno dei più famosi della nostra letteratura e tiene testa, in fatto di popolarità, all’inizio della «Divina Commedia» . Altri, prima di Monti, si erano cimentati nella traduzione di alcuni canti del testo omerico, da Lorenzo Valla ad Angelo Poliziano, da Scipione Maffei a Ugo Foscolo, ma solamente Melchiorre Cesarotti aveva pubblicato nel 1786 una traduzione completa in prosa.
La traduzione dell’«Iliade», a giudizio del Monti, era considerata difficilissima tant’è che alcuni anni prima, nel 1807, aveva pubblicato un saggio dal titolo «Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade» dove si legge che «tradurre la protasi dell’Iliade, conservare l’economia del testo, eguagliarne la sublime semplicità e contentare la critica, giudico ch’ella sia per poeti italiani opera disperata».
Nello stesso anno anche il Foscolo, che si era cimentato nella traduzione di alcuni canti, pubblicò «Esperimento di traduzione dell’Iliade» e criticò non poco il Monti perché aveva tradotto l’«Iliade» senza conoscere il greco. Il Monti, infatti, che pure con una severa autocritica lamentò spesso questa sua lacuna, aveva tradotto l’«Iliade» basandosi su versioni latine e italiane e questo procedimento non piacque al poeta dei «Sepolcri» che, si dice, apostrofasse il Monti con questo distico: « Questi è Monti poeta e cavaliero/ gran traduttor dei traduttor d’Omero » . Giacomo Leopardi, invece, era del parere che Monti non fosse da considerare un poeta ma « uno squisitissimo traduttore » . La popolarità della traduzione del Monti è dovuta soprattutto alla circostanza che la lettura della sua Iliade finì nei programmi ministeriali della scuola media inferiore e chi ha qualche anno sulle spalle ricorderà l’impatto con questo linguaggio ostico che non trovava alcun riscontro nella parlata di tutti i giorni. Già quel « Pelide » era una parola difficile, ma procedendo nella lettura era tutto un fiorire di parole astruse che andavano da un misterioso « inimicolli » al « feral morbo » , dai « coturnati Achei » a un incomprensibile « accomiatollo » e via via fino alle « divine quadrella » che volarono per nove giorni nel campo acheo e che il professore ci spiegò essere delle frecce. E dal momento che la lettura era pressoché incomprensibile, ai poveri studenti veniva imposto l’esercizio della parafrasi, che detto in altre parole voleva dire riscrivere l’Iliade nel linguaggio corrente vanificando così, a parere degli studenti, tutta la fatica del Monti.
«Avvenire» del 19 marzo 2010

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