25 marzo 2010

«La memoria non è una sola»

Foibe, affetti, politica: alcune pagine del diario di Boris Pahor, che domani apre «Libri Come» a Roma
di Boris Pahor
Lo scrittore critica la legge sul Ricordo: «È antieuropea, dimentica le atrocità fasciste»
Oggi dopo due settimane posso continuare il diario interrotto dalle partenze per le città dove sono stato invitato a parlare. Soprattutto dai presidi dei licei. Il diario che mi sono messo a comporre il marzo scorso quando con tre successive ospitalizzazioni il cuore di Rada tentava di differire l'immediato congedo. Stavo da lei in sanatorio la mattinata e il tardo pomeriggio, il tempo che mi restava dopo il solitario pasto e la breve passeggiata, c'era la solita abitudine di fedeltà alla macchina da scrivere. Ma quel diario era una novità, quasi il seguito del dialogo con Rada, anche se qua e là, c'entravano importanti fatti del giorno. Era un modo di parlare di lei con la consapevolezza che la stavo perdendo ma a un tempo cercavo di avere l'impressione che quel mio distacco pomeridiano da lei fosse la continuazione di quello di tutti i giorni che durava fino alla prime ore serali. Un diario, un metodo a cui non sono mai stato capace di sottomettermi. Prima ci fu il mio curriculum che non l' ammetteva, dopo ho dovuto da autodidatta pensare alla mia formazione nella cultura storia e letteraria slovena.
Ieri sono stato a Lubiana alla presentazione del libro della professoressa Marta Verginella Il confine degli altri. La questione giuliana e la minoranza slovena pubblicato dall'editore Donzelli di Roma e tradotto in sloveno. Un importante volumetto sul fascismo e l' antifascismo nella Venezia Giulia scritto in stile moderno con citazioni di personaggi e di opere letterarie in modo da dare rilievo all' accadere storico. Partecipavo come testimone del fascismo subito di cui si cerca di mitigare o addirittura di insabbiare le malefatte.
A proposito del fascismo uno studente di Roma mi chiese come commentavo la Giornata del Ricordo. Risposi che risponderò come avevo scritto per il quotidiano «Il Piccolo» di Trieste e per «Il Sole 24 Ore». È giusto ricordarsi dell'esilio istriano e delle foibe ma è ingiusto il non raccontare prima il genocidio culturale degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, dire dei 120.000 esuli, del mezzo migliaio di carcerati, del Tribunale speciale e dei 9 fucilati, dei generali criminali di guerra nella cosiddetta provincia di Lubiana, annessa al Regno d'Italia, dei 30 mila deportati nei campi di concentramento fascisti di Rab (Arbe), Gonars, Chiesanuova, Monigo, Grumello, Visco, Renicci e altri, di 13 mila morti, di cui 7.000 in campi di concentramento, delle 12.773 case distrutte, ecc. Direi anche che una commissione storico-culturale italo-slovena istituita dai due governi ha esaminato per sette anni i «Rapporti italo-sloveni dal 1880 al 1956», compilando una relazione in italiano e in sloveno, che dovrebbe avere valore ufficiale ma è finita in un cassetto. La legge del ricordo risulta quindi nella sua essenza antieuropea, perché i giovani che si recano in pellegrinaggio alla foiba sanno solo dei «sanguinari slavi», come si lesse nel comunicato del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, mentre non sono al corrente dei sanguinari fascisti che hanno preceduto di una quindicina d' anni quelli slavi. Non si crea quindi una relazione di equità e di amicizia tra vicini.
Rada era molto bella, se n'è andata a 87 anni senza una ruga al viso. E glielo dissi alcuni giorni prima del commiato, perché mai abbiamo accennato al distacco. Era una donna fiera, molto, tanto che bisognava trovare il tempo e il modo per vezzeggiarla. All'amica trevisana Ligi confessò che data la mia sovente assenza si sentiva un passero solitario e che le spiaceva di non saper trovare l'occasione per suscitare le desiderate carezze. Era fiera come suo fratello, l'eroe del movimento di liberazione nazionale su cui era stata posta la taglia di 50 mila lire. Di lui, dopo infinite mie insistenze, scrisse la biografia sulla rivista «Zaliv» che mi aiutava a pubblicare dal 1966 al 1990. Non voleva rivivere l'incendio della casa, la prigione a Gorizia, l'internamento della famiglia in Piemonte, a Omegna, l'uccisione della sorella da parte di un cetnico in fuga alla fine dell' aprile 1945. Non si dava pace, il tipo ce l'aveva con lei, sua sorella era uscita in vece sua, perché si voleva la maestra e maestre erano tutt' e due. Infine si decise a permettere la traduzione del suo libro in italiano e in sanatorio la pregai di firmarmi l'autorizzazione scritta in modo da farle sentire che lasciava di sé un testamento di valore culturale e storico.
Riguardo al crocifisso nelle aule. Un redattore del «Gazzettino» mi chiese (ci incontriamo in autobus) che ne pensavo. Dissi che non sapevo se l'autorità europea aveva il diritto, il potere di imporre checchessia in materia. Per ciò che mi riguarda, se dipendesse da me, invece del crocifisso metterei dei bei quadri con Gesù a colloquio con i suoi discepoli sulle rive del lago, mentre a scuola farei raccontare la sua dottrina sull'amore e sulla sorte dei ricchi. Perché presentare Gesù sempre come uno sconfitto?
In un canto di Rimbaud sulla guerra c'è anche questo verso: «O millions de Christs aux yeux sombres et doux» (O milioni di Cristi dagli occhi scuri e dolci). Verso che ho messo come motto a uno scritto sui campi dei deportati politici. Tutti, anche loro, quegli appartenenti ai diversi Paesi d'Europa, figli di Dio, che hanno dato la vita dopo aver combattuto per la libertà senz'armi, Cristi, di cui non sono rimaste nemmeno le ceneri. Quasi 4 milioni, sconfitti anche loro? Voglio sperare di no. Vicino al campo di concentramento di Struthof-Natzweiler nei Vosgi a 800 metri d'altezza la Francia ha infatti costruito una palazzina alla quale ha dato il nome di Centre européen du résistant déporté (Centro europeo del resistente deportato). Una valutazione della rivolta. Sta a noi quindi essere gelosi della libertà conquistata a così alto prezzo.
Anni fa a Parigi lessi un saggio di Umberto Eco tradotto in cui il fascismo veniva definito come un regime fuzzy, cioè contraddittorio, incoerente. Ne rimasi male e mi ripromisi di trovare l'originale. Che invece ha il titolo Fascismo eterno. E non ho nulla da ridire sulle diverse attitudini che portano al fascismo se non che il fascismo nella Venezia Giulia non fu affatto fuzzy, ma totalitario e razzista in tutti i sensi riguardo alle due comunità, la slovena e la croata. Mi sarei quindi aspettato, vista la qualità dell' eccezione, un accenno, ciò tanto più che lo stesso Umberto Eco nel suo saggio dice che non bisogna reprimere il passato perché la repressione provoca la nevrosi. Non lo so, forse Eco tratta il problema in qualche altro suo scritto, in questo caso sarebbe in ogni modo molto utile se venisse citato, perché nella vita dell' Unione Europea il sorgere di una nevrosi politica sarebbe saggio fosse evitato.
Mi si comunica che il presidente dell'Austria Hans Fischer mi ha concesso la Grande croce d'onore per le scienze e l'arte. Credo che l'abbia meritata per il mio libro Piazza Oberdan, presentazione letteraria della dittatura fascista a Trieste e libro pubblicato in traduzione a Klagenfurt/Celovec, recensito su una pagina intera del giornale «Die Zeit» dallo scrittore Karl Marcus Gauss e scelto come miglior libro pubblicato nel febbraio 2008 dalla Bestenliste in Germania. Da quando Rada non c'è e l'abitazione senza di lei è ostentatamente vuota, mi trovo spesso a rimproverarmi il bisogno di solitudine e di libertà che contraddistingue il decorso della mia vita postconcentrazionaria. È del 1950 nello scritto di Jean Cayrol Lazare parmi nous (Lazzaro tra noi) la presentazione psicologica del reduce dai campi. Egli scopre, dice Cayrol, la meravigliosa libertà che gli ha lasciato la morte, l'indipendenza di fronte alla sua fine. A questa libertà si aggiunge il bisogno di solitudine. Questi due stati li avevo provati già nel sanatorio francese, quando comunicavo per iscritto con i familiari ma non sentivo il desiderio di tornare a casa. Uno stato d'animo che poi giustificavo con la rivelazione dell'amore. Quando con Rada decidemmo di vivere insieme, le proposi come un dato di fatto i due traumi. La solitudine consisteva nell' appartarsi costantemente con la fedele Remington, ciò che era anche una terapia. E Rada, seppur ciò le toglieva molte occasioni di dialogo, lo accettò. Ma non fu certamente facile accettare il periodo in cui nonostante la vita in comune prevalse l'impulso di libertà. Era disillusa. E me lo dichiarò. Ma per fortuna aspettò che la mia libertà divenisse più rispettosa. E le ero infinitamente grato. E lo scrissi. Rada era in gamba, tutta d'un pezzo, mentre in me, dall' infanzia in poi, si sono sovrapposti nel mio mondo interiore le impronte degli stadi successivi che era difficile armonizzare.

Nato a Trieste nel 1913, lo scrittore Boris Pahor appartiene alla minoranza slovena della Venezia Giulia, oppressa dal fascismo.
Durante la guerra partecipa alla lotta di Liberazione e viene internato in un lager tedesco. Negli anni 70 entra in polemica con il regime comunista jugoslavo. Tra le sue opere: «Necropoli» (Fazi), «Il rogo del porto» (Zandonai), «Tre volte no» (Rizzoli)
«Corriere della Sera» del 24 marzo 2010

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