25 aprile 2010

Essere credente e prete: quale legame con il 25 aprile

di Luisito Bianchi
Esagero se dico che le date della mia vita, partendo da quel 1945, potrebbero avere accanto l’anno di scadenza dell’anniversario della Liberazione? Ad esempio: nella terza parte del romanzo La messa dell’uomo disarmato che parte dallo stesso anno, i principali avvenimenti della narrazione sono datati addirittura con l’anno dell’anniversario: il decimo anniversario, per esempio, che era per me più significativo che non il corrispondente millesimo 1955. Tanto per cominciare, divenni prete nel quinto anniversario della Liberazione.
Sono convinto, se il ricordo, diventato ormai Memoria, non mi addolcisce i contorni, di avere dato prova, in quel 4 giugno 1950, di che cosa fosse per me il 25 aprile di 5 anni prima. C’erano già state, è vero, le prime brinate e gelate sui teneri germogli della speranza del mondo nuovo, di cui non si tenne conto subito (figuriamoci oggi), con un 18 aprile 1948 che aveva spaccato, se ce ne fosse stato bisogno ancora, l’Italia in due blocchi.
Penso che quel 18 aprile concorse a suscitare in me la necessità d’una Resistenza nella visione del mondo nuovo cui aveva spalancato il 25 aprile di tre anni prima. Intendo dire che non aspettai il decimo anniversario per celebrare la Liberazione. E sempre più ostinatamente man mano che pesanti spegnitoi sembravano impazzire nella caccia alle fiammelle di speranza che avevano cominciato a riaccendersi qua e là, stimolate dal grande falò del Concilio. Fu un falò che durò poco.
Scrivevo nel diario che tenni nei tre anni di fabbrica come operaio chimico turnista, il 25 aprile 1970 (25° anniversario!): «È un giorno che sento in modo particolare. Venticinque anni fa le speranze di un ragazzo, le sue illusioni, i suoi desideri erano al colmo. Un’epoca nuova si doveva aprire, di pace, d’amore fraterno, di uguaglianza. I canti partigiani, i fazzoletti rossi, azzurri e verdi attorno al collo, mi indicavano una strada piena di promesse. E ogni anno, come questo, l’appuntamento è segnato sul mio calendario per rinnovare queste illusioni, con l’ostinazione di credere alla possibilità di realizzarle. Ma anche questo giorno passa, ricordato da una minoranza, di festa perché non è lavorativo, eccetto che per i turnisti.
Farò il turno di notte e mi ritroverò con tutti i morti per questo giorno, con tutti i vivi che l’hanno tradito, con me stesso che non so se sono vivo o morto. Sto anch’io giocando a una Resistenza clandestina. Il 25 aprile non può essere una data da commemorare; è, deve essere, il giorno che si vive dopo un altro giorno, lo stato di tensione d’ogni persona che si interroga sul fatto d’essere uomo e, aggiungo per me credente, di essere cristiano».
E l’anno prima, ancora dalla fabbrica, scrivevo la mattina del 26 aprile: «Ho notato, con molto rammarico, che la giornata di ieri è passata senza un significato. Il 25 aprile, per i miei amici, non ha detto nulla; per i più giovani è una giornata di paga doppia ed anche per i più anziani, eccetto qualche ricordo in più che non ha nessuna incidenza sulla vita. Ho cercato di parlare sul 25 aprile con quanti incontravo; ho fatto un po’ il tonto cantando all’uno e all’altro le canzoni partigiane. Ma ho raccolto ben poco, qualche sorriso indulgente e un po’ d’attenzione. Alla mensa ho detto a Nicola: 'Almeno per oggi, taci!'. E lui: 'Sono nato fascista e morirò fascista', tra i sorrisi di tutti. Che tristezza!
D’altra parte che pretendere? Tutti gli ideali sono stati traditi e le spese le hanno fatte proprio gli operai...».
Potrei continuare col 50° e via di seguito. Ma che vale, se ormai queste date fanno parte integrante della mia vita?
«Avvenire» del 25 aprile 2010

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