25 aprile 2010

Resistenza: comunisti «contro» cattolici?

Due modi di essere antifascisti si sono incrociati in Italia: i «rossi» volevano allargare la partecipazione popolare, per finire la guerra al più presto; invece i «bianchi» applicavano una rigida selezione agli arruolati e ponevano limiti all’attività ribellistica. I primi si battevano senza esclusione di colpi, secondo spietate regole di guerriglia; i secondi cercavano di umanizzare lo scontro, evitando le violenze non necessarie e limitando le occasioni di rappresaglie sui civili. Chi aveva ragione? Subito dopo la Liberazione gli scontri tra le varie anime della lotta patriottica si giocarono sul persistente ricorso alla vendetta armata. La Chiesa fu inflessibile nel denunciare tutte le esecuzioni sommarie compiute dai comunisti. In compenso, la memoria di tanti cristiani martiri della dittatura nazifascista, compresi molti sacerdoti che si erano impegnati direttamente nelle fila partigiane, si affievolì

di Giorgio Vecchio
Anche senza riprendere la ormai citatissima tripartizione proposta da Claudio Pavone tra guerra patriottica, guerra civile e guerra di classe e ferme restando tutte le inevitabili frizioni provocate dai diversi obiettivi finali («soltanto» la liberazione dell’Italia dai tedeschi o anche e «soprattutto» l’avvio di un processo rivoluzionario per il superamento del sistema socio-economico capitalistico?), va ricordato che i comunisti puntavano ad allargare il più possibile la partecipazione popolare alla lotta patriottica, imprimendole un carattere di inflessibile durezza, allo scopo di finire al più presto la guerra, mentre al contrario i cattolici e in genere i moderati ricercavano una rigida selezione degli effettivi partigiani e ponevano dei limiti all’attività ribellistica. Essi si sentivano inoltre – come gli azionisti e gli autonomi – più vicini alle logiche e alle forme tradizionali dell’esercito che non a quelle di un popolo chiamato alla rivoluzione. Uno dei protagonisti cattolici della repubblica di Montefiorino, Ermanno Gorrieri, ha ben colto queste differenze: «In sostanza, da parte comunista […] si tendeva a condurre la guerra partigiana senza esclusione di colpi, accettando senza esitare il carattere violento e spietato imposto alla lotta dai fascisti e dai nazisti […] Da parte democristiana l’aspirazione invece era quella di 'umanizzare' la lotta, evitando gli spargimenti di sangue che non fossero necessari e limitando le occasioni di rappresaglie e di sofferenze per le popolazioni inermi. Nessun dubbio sulla maggiore efficacia del tipo di lotta sostenuto dai comunisti mentre dal punto di vista del costo umano è certo che esso fu più elevato».
L’impostazione cattolica appariva certamente coerente con la visione della vita e della persona che scaturiva dalla religione, ma – sul piano pratico – si doveva comunque fare i conti con le argomentazioni addotte dai comunisti, anch’esse finalizzate a contenere le perdite umane, seppure seguendo un percorso diretto. A costo di apparire salomonici, si potrebbe dire che entrambe le strade presentavano vantaggi e svantaggi. Ma ciò che conta è che quelle due diverse strade erano divergenti o, meglio, continuamente si incrociavano per poi tornare a dividersi. E che gli incroci ci fossero è fuori dubbio. È bene allora ricordare che i momenti di unità ci furono e che per la prima volta nella storia italiana forze tanto radicalmente contrapposte lavorarono insieme. Ci si conobbe: non più da una parte e dall’altra si pensava a marionette o figure astratte, ma si conoscevano ora dal vivo i volti, la voce, il coraggio o le debolezze del nuovo compagno di avventura. Va aggiunto che anche sulla presenza del prete in mezzo alle formazioni partigiane – pur non mancando episodi di rifiuto o quantomeno di diffidente freddezza – si trovarono forme nuove di intesa. Vari comandanti comunisti richiesero infatti la presenza di cappellani militari e tra questi fu il celebre Moscatelli, che nel luglio 1944 ottenne dal vescovo di Novara il permesso di aggregare alle sue formazioni un ufficiale cappellano, annunciando poi con grande solennità la decisione e componendo, lui ateo, persino una preghiera dei garibaldini, con tanto di «santino» di san Michele. Non vanno sottovalutati questi incontri al momento di riflettere poi sullo spirito e sullo sforzo unitari compiuti da cattolici, comunisti, socialisti e azionisti nel periodo dell’Assemblea Costituente. Come detto, però, le differenze esistevano e talora portavano a duri scontri, anche armati, al momento di prendere decisioni gravi, specialmente nel caso di esecuzioni. Don Rino Cristiani, cappellano garibaldino nella divisione «Aliotta» nell’Oltrepò pavese, tentò invano di impedire la fucilazione di prigionieri fascisti.
Emblematico è il suo colloquio con «Piero» (il comunista reggiano Orfeo Landini), alla fine del novembre 1944, allorché il prete tentò di impedire la fucilazione di 12 fascisti a Cencerate. Secondo don Rino il breve dialogo si svolse così: «Con questo gesto, non salvi l’Italia e rischi di farci perdere tutto. Torna sulle tue decisioni». «Hai fatto la tua parte? – rispose seccato [Piero] – Allora levati di mezzo». Le divergenze portarono anche all’uso delle armi. È questo uno dei capitoli più segreti e dolorosi della storia della Resistenza e sarebbe ormai tempo – recuperando eventuali tanti episodi dimenticati o chiarendo i fatti controversi – di arrivare a una sintesi e a una valutazione complessiva del fenomeno dei partigiani uccisi da altri partigiani. In pratica è entrato nella storia più conosciuta solo l’episodio avvenuto in Friuli a Porzûs il 7 febbraio 1945, allorché un battaglione di garibaldini attaccò e uccise 19 partigiani appartenenti alla Brigata Osoppo. Non si trattò solo di quello. Cito tra i tanti il colonnello Raffaele Menici, catturato in seguito a un accordo tra alcune Fiamme Verdi e i tedeschi, e ucciso per mano partigiana il 17 novembre: sul fatto – ancora controverso – il principale animatore della Resistenza camuna, don Carlo Comensoli, espresse a suo tempo un durissimo giudizio. Per quanto riguarda l’Emilia limitiamoci qui a richiamare solamente tre vittime significative, una per ciascuna delle province centrali della regione, anche perché due di loro sono state recentemente studiate.
Anzitutto clamoroso risulta essere il caso di Dante Castellucci «Facio», già amico e stretto collaboratore dei Cervi, poi comandante del battaglione Guido Picelli sull’Appennino parmense, giustiziato da un plotone d’esecuzione partigiano il 22 luglio 1944, dopo un processo farsa orchestrato dal comunista Antonio Cabrelli. Ma ciò che è più incredibile è il «dopo»: non solo per i falliti tentativi di ottenere giustizia, condotti anche dalla compagna di Facio, Laura Seghettini, ma soprattutto per la falsificazione operata al momento di motivare la concessione della medaglia d’argento alla memoria a Castellucci: la sua morte fu presentata ufficialmente come procurata dal nemico dopo uno strenuo combattimento e il rifiuto della resa. Nel Reggiano, invece, la storia di Mario Simonazzi «Azor» (e poi «Salardi») è emblematica; scomparso il 21 marzo 1945, il suo corpo sarà casualmente ritrovato nell’agosto successivo.
Su «Azor» cadrà malgrado tutto una coltre di silenzio e anche la stampa locale si guarderà bene dal riprenderne il ricordo, fino all’ultimo «insulto» (ci si permetta di chiamarlo così) di inserirlo nelle liste dei caduti della Rsi!
Infine non va dimenticato, nel Modenese, l’analogo caso di Giovanni Rossi, il capo partigiano ucciso dai comunisti a Monterotondo, perché non intendeva adeguarsi alle direttive del Pci e rivendicava piena libertà d’azione. Subito dopo la Liberazione incontri e scontri tra le varie anime della Resistenza si giocarono anzitutto sul persistente ricorso alla violenza. Da parte cattolica la denuncia delle esecuzioni sommarie fu serrata, a partire dai vescovi per arrivare ai parroci che in varie circostanze tentarono di impedire le esecuzioni e, quando ciò non risultava possibile, almeno di assicurare i conforti religiosi ai condannati. Ma ci si incontrò e scontrò anche in relazione al giudizio da dare sul «trasformismo». La politica comunista, di aprire le porte del partito anche agli ex­fascisti, i quali – come spesso succede – si mostrarono presto più rigidi e fanatici di chi già da tempo era antifascista, non fu condivisa da tutti. L’amarezza di molti partigiani autentici si manifestò anche al momento delle celebrazioni ufficiali della Liberazione, quando essi si accorsero del consistente numero di arruolati dell’ultima ora, capaci magari di arrivare a porsi in prima fila. Don Aurelio Giussani, che era stato uno degli animatori dell’Oscar, rete di soccorso per ebrei e ricercati, e che poi era dovuto fuggire da Milano sull’Appennino parmense divenendo cappellano partigiano, descrisse con queste parole la sfilata del 6 maggio 1945 a Milano: «A dire la verità, fra tante divise, bandiere, decorazioni, mi trovo come sperso; mi pare di trovarmi trascinato in una carnevalata organizzata in tutta fretta a gara di velocità dai vari partiti che si contendono la gloria dell’eroismo e della libertà conquistata. Tra tanto esibizionismo resto quasi stomacato; tra tutta quella gente che all’ultimo momento ha saputo cambiare casacca non mi trovo affatto. Tutte le volte che, braccato, con la polizia alle calcagna, sono sceso a Milano, non ho avuto la sensazione di avere tanti amici e collaboratori nella guerra; al contrario si era troppo pochi ed isolati fra tante spie, fra tanti paurosi e tra gente abile solo nel doppio gioco. In testa a tutti in questa corsa è il Partito Comunista».
Trarre da queste citazioni la conclusione che solo il Pci imbarcò ex fascisti e convertiti dell’ultima ora sarebbe falso e ingiusto, così come sarebbe forzata una riduzione della politica di «conciliazione», voluta da Togliatti e culminata nell’amnistia del giugno 1946, a operazione puramente strumentale.
Tutte le forze politiche, in misura maggiore o minore furono toccate dal fenomeno del trasformismo, che del resto è purtroppo usuale in ogni momento di transizione politica e di cambiamento del potere. Semmai il vero problema era di stabilire in base a quale criterio attribuire la qualifica di «vero» o di «falso» partigiano. E qui si torna ai nodi centrali sopra ricordati, sui modi di conduzione della lotta e sui criteri di selezione dei combattenti e poi degli iscritti ai partiti democratici, oltre che alle vivaci e pluridecennali polemiche sul cosiddetto «attendismo». Anche la partecipazione di centinaia e centinaia di preti alla Resistenza si giocò infatti in tante forme diverse, dall’aiuto a ebrei e perseguitati all’incitamento ai giovani ad andare in montagna, dal sostegno alla lotta armata stando nelle retrovie alla diretta presenza nelle bande armate e persino in alcuni casi capeggiando militarmente le bande stesse o ponendosi a capo dei Cln locali. Questo fatto indiscutibile non può però essere assunto in modo totalizzante, quasi che tutta la Chiesa e tutto il clero si siano comportati così: tra i preti italiani non mancarono – qui sì – attendismi, paure, vigliaccherie e seppure in modo nettamente minoritario anche adesioni alla Rsi. Va peraltro osservato che nel successivo clima della guerra fredda il ricordo di questa Resistenza dei preti si affievolì e venne – sembra di poter dire – volutamente attenuato. La memoria dei preti partigiani fu fatta rapidamente svanire e fin qui si può anche comprendere in un certo qual modo l’imbarazzo di esaltare persone che – pur consacrate – avevano comandato formazioni armate, diretto operazioni militari, magari portato personalmente le armi, come nei casi del bergamasco don Antonio Milesi «Dami» e del bresciano don Vittorio Bonomelli «Platone». Caddero però nell’oblio anche quei preti che non avevano direttamente partecipato alle azioni militari, ma che ugualmente si erano «compromessi» con la Resistenza o avevano dovuto prendere la via della deportazione e del Lager. La Chiesa cattolica italiana ha smarrito la memoria di tutti questi uomini che, per di più, tendevano a rifuggire dalle celebrazioni e in più di un caso si «riconvertirono» ad azioni di tipo sociale o di volontariato di frontiera. È sintomatico dunque il fatto che il «Martirologio del clero italiano» metta insieme alla rinfusa tutti i preti morti nel periodo della guerra e dell’immediato dopoguerra, senza distinguere tra quanti furono uccisi da tedeschi e fascisti e chi cadde per mano partigiana; anzi, a loro vengono mescolati i cappellani militari caduti al fronte, le vittime dei bombardamenti aerei e pure coloro che avevano perso la vita in seguito a incidenti più o meno banali. Qualcosa di analogo è avvenuto pure a Reggio Emilia, dove il vescovo Socche e la Chiesa locale elencarono insieme, senza distinzioni, i preti uccisi per motivi e per mani diverse. L’intento di tutto ciò è abbastanza evidente: da un lato si puntava a ridurre la portata della collaborazione – pur problematica – attuatasi nel 1943-1945 tra preti, cattolici e comunisti; dall’altro si voleva sottolineare l’identità tra la violenza «nera» e quella «rossa», quest’ultima semmai giudicata ben più attuale e pericolosa. Una pur sommaria sintesi storica deve invece distinguere tra loro i diversi episodi, ferma restando ovviamente la netta condanna di tutti gli omicidi, a prescindere dalle motivazioni e dagli esecutori o dai mandanti. In un primo gruppo vanno considerati ovviamente quanti furono uccisi dai nazifascisti: anzitutto don Pasquino Borghi, fucilato a Reggio Emilia il 30 gennaio 1944, e poi don Battista Pigozzi, parroco di Cervarolo, fucilato dai tedeschi con 23 parrocchiani il 20 marzo 1944 e don Giuseppe Donadelli, parroco di Vallisnera, ammazzato dai fascisti con due parrocchiani il 2 luglio 1944. In un secondo gruppo compaiono quei preti morti per mano partigiana e a causa delle proprie vere o presunte compromissioni con Salò: don Luigi Manfredi, parroco di Budrio di Correggio, ucciso perché ingiustamente ritenuto responsabile di aver favorito proprio la cattura di don Pasquino Borghi (14 dicembre 1944), don Dante Mattioli, parroco di Cogruzzo, sospetto collaborazionista (11 aprile 1945) e don Carlo Terenziani, parroco a Ca’ de’ Caroli, prelevato a Reggio Emilia e ucciso poco dopo (29 aprile 1945). In quest’ultimo caso siamo di fronte al caso politicamente più evidente, visto il passato della vittima come cappellano della Milizia fascista. Vi è infine il gruppo di preti sul cui comportamento durante la Resistenza nulla si poteva obiettare, ma che vennero uccisi per mano comunista in quanto non era gradita la loro netta presa di distanze dalle violenze più estreme e ingiustificate compiute da taluni esponenti della Resistenza.
Ricorrono qui i nomi noti di don Giuseppe Iemmi, curato di Felina, ucciso il 19 aprile 1945 e di don Umberto Pessina, parroco di San Martino in Piccolo di Correggio, ucciso il 18 giugno 1946. Mi sembra rimangano ancora nella penombra i reali motivi dell’uccisione di don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo presso Castelnuovo ne’ Monti (19 agosto 1944), don Sperindio Bolognesi, parroco di Nismozza, morto a causa di un ordigno (25 ottobre 1944), don Aldemiro Corsi, parroco di Grassano (22 novembre 1944). A questi uomini viene solitamente affiancato il seminarista quattordicenne Rolando Rivi, ucciso il 13 aprile 1945 alle Piane di Monchio, per il quale è stato di recente avviato il processo canonico di beatificazione.
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La dolorosa vicenda di don Pessina fu alle origini di un importante scritto di don Primo Mazzolari, su sollecitazione di don Emanuele Rabitti, parroco proprio di San Martino Piccolo di Correggio, nell’ambito di un più vasto progetto finalizzato a onorare don Pessina e con lui tutti i preti uccisi tra guerra e dopoguerra. Nacque così «I preti sanno morire. La Via Crucis continua», un testo con il quale don Mazzolari riuscì a spostarsi su un piano di meditazione spirituale e a sottrarsi di conseguenza ai rischi di nuove strumentalizzazioni polemiche. Si potrebbe aggiungere che sul piano degli studi andrebbe colmato il divario che tuttora resiste tra quanti si sono dedicati al compito di tutelare la memoria di questi preti e gli storici di professione, al punto che il ricordo di queste vittime rimane affidato a una lunga serie di studi locali, di volumetti o opuscoli dalle più diverse finalità. Per tanti e vari motivi, dunque, la storia della Resistenza è ancora ben lungi dall’essere scritta in modo definitivo e convincente. Applicarsi a questo tipo di ricerche con grande libertà di spirito e ampi orizzonti nella ricerca di fonti e testimonianze significa oggi compiere non solo un’attività scientificamente necessaria, ma anche un’operazione di evidente rilievo culturale e civile, convinti che quella stagione, pur tra errori, complicità e deformazioni di ogni genere abbia comunque rappresentato uno dei momenti più alti della nostra storia nazionale.
E convinti che mettere in evidenza il «male» della Resistenza sia il modo migliore per farne risaltare il «bene» di fronte a ogni interessata demolizione.
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Le vicende del 25 aprile sono ancora lungi dall’essere scritte in modo definitivo e convincente, ad esempio sui rapporti tra i vari «colori» delle parti in gioco. In questo, un ruolo particolare rivestono le storie dei tanti preti uccisi dai partigiani, da don Pessina a Rolando Rivi, da don Iemmi a don Manfredi.
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Sarebbe ormai il tempo adatto, recuperando episodi dimenticati o chiarendo i fatti controversi, di arrivare a una sintesi e a una valutazione complessiva del fenomeno dei partigiani uccisi da altri partigiani. Nella storia più nota è entrato solo l’episodio di Porzûs, allorché nel febbraio 1945 un battaglione di garibaldini attaccò e uccise 19 appartenenti alla Brigata Osoppo. Ma non si trattò solo di quello.
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Due tattiche diverse e anche divergenti. Ma i momenti di unità ci furono, anzi per la prima volta nella storia d’Italia forze tanto contrapposte lavorarono insieme Ci si conobbe: da una parte e dall’altra non si parlava più solo di figure astratte. Si vedevano ora dal vivo i volti, la voce, il coraggio o le debolezze del nuovo compagno. Persino sulla presenza del prete nelle bande si trovarono forme di intesa.
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Morelli «Il Solitario», l’eroe della «Penna»
Giorgio Morelli (nella foto) non aveva paura: quando subì, nel gennaio 1946, l’attentato che l’avrebbe portato alla morte un anno e mezzo dopo, girava spavaldo per Reggio Emilia con l’impermeabile bucato dalle pallottole che i comunisti gli avevano sparato. Del resto «Il Solitario» era stato partigiano. Nato nel 1926 in una famiglia molto cattolica, subito dopo l’8 settembre 1943 comincia a collaborare con un giornaletto studentesco clandestino e dall’estate successiva si unisce alle «Fiamme Verdi» fondate e comandate da don Domenico Orlandini. La sua arma però è la penna; insieme all’amico Eugenio Corezzola e col sostegno di Giuseppe Dossetti, nell’aprile 1945 diffonde il primo numero del ciclostilato «La Penna»: titolo che non si riferisce allo strumento di scrittura, bensì al nome di una cima dell’Appennino. Il settimanale «di guerra» fa solo 4 uscite: il 24 aprile, infatti, Morelli è tra i primi partigiani che entrano in Reggio libera. Subito dopo però arrivano le disillusioni e i tradimenti, per reagire ai quali «Il Solitario» e Corezzola decidono di riprendere l’esperienza giornalistica con «La Nuova Penna», il cui primo numero è del 23 settembre 1945.
Seguono molte battaglie per la verità.
Giorgio Morelli morirà l’8 agosto 1947 in un sanatorio del Trentino per i postumi dell’attentato subìto nel 1946.
«Avvenire» del 25 aprile 2010

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