24 aprile 2010

Solovki, laboratorio del Gulag

di Antonio Giuliano
«Ho provato a immaginare» è il titolo di una lettera che Vasilij Grossman, scrisse nel 1950 alla madre assassinata nove anni prima in pieno regime staliniano. Lo scrittore che non aveva assistito al massacro provava così a immaginare il volto della donna negli ultimi momenti di vita e quello dei suoi esecutori.
Lo stesso ha cercato di fare in questo singolare libro Maurizio Ciampa a proposito delle vittime e dei carnefici del primo gulag sovietico: le isole Solovki. Un racconto in cui le testimonianze dei sopravvissuti si mescolano a narrazioni verosimili per tentare di colmare il vissuto di un luogo in cui la realtà del male ha superato ogni immaginazione. Del resto che cosa provarono almeno un milione di prigionieri, uomini e donne di oltre 40 nazionalità che da quel posto non fecero più ritorno è finalmente non solo documentato, ma purtroppo anche facilmente intuibile.
Quelle strisce di terra ghiacciata al largo del Mar Bianco, a 160 chilometri dal Circolo polare artico e 1200 chilometri da Mosca, già dopo la Rivoluzione russa con Lenin si trasformarono in siti di isolamento e lavori forzati per tutti gli oppositori del nuovo potere bolscevico.
Fu però con lo stalinismo che qui si affermò il primo laboratorio del Gulag. Nel 1923 il complesso di monasteri del posto diventò un mattatoio. I religiosi vennero brutalmente cacciati e gli affreschi sulle pareti furono ricoperte dal nuovo verbo: «Signore del mondo sarà il lavoro».
La paura degli internati e il sadismo dei carcerieri, così ben ricostruiti nel testo, risaltano in uno scenario disarmante, in cui i vivi appaiono fantasmi e non si distinguono più dai morti. L’esistenza alle Solovki veniva falciata per le malattie, per un capriccio delle guardie o per torture insospettabili come i corpi dei prigionieri esposti alle fameliche zanzare del luogo. E le morti erano così numerose che per nasconderle non venivano nemmeno registrate.
Era nato il sistema sovietico di rieducazione basato sul lavoro coatto: nei gulag dell’Urss moriranno dai 18 ai 20 milioni di persone tra il 1929 e il 1953, anno della morte di Stalin. Per anni la propaganda comunista è riuscita a presentarli come «sani luoghi di isolamento e di detenzione». E almeno fino alla caduta del Muro la loro esistenza in Occidente è stata incomprensibilmente taciuta da parte di intellettuali e libri scolastici. Nonostante quei labirinti infernali fossero stati denunciati da scrittori come Salamov o Solzenicyn che detenuto per otto anni alle isole Solovki ne raccontò gli orrori nel suo Arcipelago gulag. Chi invece in quelle lande di ghiaccio terminò la sua corsa fu Pavel Florenskij, filosofo, matematico e teologo ortodosso, fucilato nel 1937.
L’apertura degli archivi del Kgb ha rivelato di recente l’incredibile forza d’animo di un uomo che anche nel buio della persecuzione era illuminato da una luce più grande. Nelle lettere che scrisse durante la prigionia la sua sofferenza viene sempre in secondo piano rispetto all’amore per i suoi cari. Così scrive ai suoi figli: «L’unica cosa che desidero sul serio è che voi e la mamma siate felici, che godiate della vita e abbiate coscienza della sua pienezza e del suo valore». Fino alla raccomandazione finale: «Quando proverete tristezza nel vostro animo guardate le stelle oppure il cielo di giorno. Quando siete tristi, offesi, sconsolati o sconvolti per un tormento dell’anima, uscite all’aria aperta e fermatevi in solitudine immersi nel cielo. Allora la vostra anima troverà quiete».
Maurizio Ciampa, L’EPOCA TREMENDA. Voci dal Gulag delle Solovki, Morcelliana, pp. 232, € 16
«Avvenire» del 24 aprile 2010

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