21 aprile 2010

Tutte le censure di Google

In realtà la trasparenza del colosso di Mountain View non è così trasparente
di Marco Pedersini
Google ha attivato uno strumento che rende pubbliche le richieste di rimozione di contenuti che riceve dai tribunali di tutto il mondo. Scorrendo il planisfero si può facilmente valutare il grado di censura governativa che i dati dell’azienda di Mountain View hanno subito da luglio a dicembre scorso nei cento paesi in cui è presente. La lista, ampiamente dettagliata, è dominata dal Brasile, con 3663 richieste (di cui 291 approvate), seguito da Stati Uniti (3580) e Regno Unito (1166). L’Italia è settima per quanto riguarda le richieste approvate (57 su 550 domande), ma la roccaforte europea della censura sembrerebbe essere la Germania, dove le rimozioni sono state ben 188. La mappa verrà aggiornata su base semestrale, in linea con i proclami per la libertà della rete espressi dal Global Network Initiative.
Il colosso di Mountain View ha abbracciato l’iniziativa con entusiasmo, e ha scomodato addirittura la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo, citata all’inizio del comunicato ufficiale. Un’enfasi che andrebbe ridimensionata, se solo si valutasse il peso reale del nuovo strumento: la lista delle rimozioni, che spesso hanno come bersaglio dei filmati di YouTube, non contempla le richieste legate alla pedopornografia, ai diritti d’autore e le segnalazioni di diffamazione da parte utenti. Lacune che vanno a sbilanciare una lettura già forzatamente approssimativa. Buona parte delle richieste tedesche, ad esempio, non sono mosse da chissà quali velleità autoritarie, ma da leggi comprensibilmente sensibili all’apologia del nazismo. Se poi ci si spinge a cliccare sulla Cina, si ottiene una risposta semplice quanto velatamente ipocrita: “La Cina considera le richieste di censura un segreto di stato, quindi non possiamo rivelare le informazioni relative”.
In questi giorni Google era stato accusato di gestire in maniera dubbia i dati dei propri utenti, in particolare del social network Buzz. Ieri è stato reso noto che il motore di ricerca americano ha speso 1.38 milioni di dollari dall’inizio dell’anno (il 57 per cento in più dello stesso periodo nel 2009) per attività di lobbying. Con trenta dipendenti dedicati, Google investe cifre significative in una rete di contatti che vanno da alcune agenzie governative a Camera e Senato, dal Dipartimento del Commercio alla Commissione Federale per il Commercio. Senza contare i finanziamenti per la campagna elettorale presidenziale e le pressioni sull’Esecutivo in materia di libertà del web e controlli alle esportazioni. Sono coincidenze quantomeno curiose, che, senza eccedere in dietrologie, rimandano Google dall’Olimpo dei libertari ai canoni di una grossa azienda editoriale, che a fine mese deve pur sempre pagare le bollette.
«Il Foglio» del 21 aprile 2010

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