31 maggio 2010

Oltre i miti. Darwin Einstein Freud. Che errori grandiosi

Perché nessuna teoria è un dogma
di Emanuele Severino
Le grandi scoperte della biologia, della fisica e della psicoanalisi sono mosse dalla falsa convinzione che si possa tracciare un percorso con un inizio e una fine, dal nulla al nulla. Eppure, proprio sbagliando, hanno aperto la via alla scienza
Modernità
Le grandi scoperte della biologia, della fisica e della psicoanalisi sono mosse dalla falsa convinzione che si possa tracciare un percorso con un inizio e una fine, dal nulla al nulla. Eppure, proprio sbagliando, hanno aperto la via alla scienza.
Davanti alla filosofia molti scienziati alzano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è loro presente, hanno ragione. Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza sono inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di quello a cui si allude quando ad esempio, per la profondità delle categorie filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M. Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley, 1974). E se il fisico Leonard Susskind, nel suo libro La guerra dei buchi neri (Adelphi), scrive di non essere «molto interessato a quel che dicono i filosofi su come funziona la scienza», tuttavia la sua «guerra», combattuta contro il collega Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la filosofia si è rivolta sin dagli inizi e che sta al fondamento di tutti gli altri. Per Hawking i «buchi neri» presenti nell’universo sono voragini in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Susskind vede in questa tesi la violazione del primo principio della termodinamica, per il quale la quantità totale di energia dell’universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la «costanza» dell’energia è il suo continuare a «essere»; e l’«incostanza» delle sue forme è il loro venire a «essere» e il loro ridiventare «non essere», «nulla». Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’«essere» e del «nulla», ma il primo principio della termodinamica non può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato. All’interno di quest’anima, a cui la filosofia si rivolge sin dall’inizio, cresce la scienza.
Si ritiene che la teoria generale della relatività di Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano incompatibili. Ma si contrappongono mantenendosi entrambe all’interno del senso greco dell’«essere» e del «nulla»: per il «determinismo » di Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile («determinato») e quindi prevedibile; per Heisenberg tale percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non è un caso che egli riconduca il concetto di «onde di probabilità» al concetto aristotelico di dynamis, «potenza» (cioè alla possibilità reale che uno stato del mondo sia seguito da un cert’altro stato). Freud scrisse di Einstein, col quale ebbe peraltro rapporti cordiali: «Capisce di psicologia quanto io capisco di fisica». Eppure si capiscono benissimo sul fondamento ultimo, cioè sulla caducità delle cose del mondo. (Ovviamente, anche le recenti polemiche su Freud e la validità delle sue scoperte, sul «Corriere» a firma di Dario Fertilio, Bernard-Henri Lévy e Michel Onfray, pur guardando altrove, quel fondamento lo danno per scontato. Ma chi fa eccezione?).
La filosofia sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della scienza. Anche al tema dell’incontrovertibilità la filosofia si rivolge da sempre. Per il matematico David Hilbert «il rigore nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno filosofico generale della nostra ragione». E Il più grande spettacolo della terra, di Richard Dawkins (Mondadori), eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: «Le prove a favore dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno e non sono mai state più solide». Esse «dimostrano come la "teoria" dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale incontrovertibile ». Ma quel che rimane oscillante e alla fine oscuro in queste pagine è proprio il concetto di «prova», di «fatto scientifico», di «incontrovertibilità», cioè la loro filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra parte, l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal proprio non essere e vi ritornano, così come accade per le forme incostanti della costante quantità totale dell’energia. E l’evoluzione della vita può essere o «naturale» o «cultura le» come nella produzione tecnica, (di cui si parla in queste ore) di una cellula vivente secondo il metodo di Craig Venter.
L’evoluzione è un fatto «oltre ogni ragionevole dubbio», con la «certezza assoluta che non ci sarà smentita». Come la certezza, intende Dawkins, che il sole è molto più grande della terra e che l’antica Roma è esistita. Il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso dell’«inoppugnabilità» e «incontrovertibilità» di tutte le teorie di questo tipo. Che in loro favore esista una valanga di prove nessuno lo nega. La questione è se tali prove e la loro abbondanza consentano di dire che le teorie così provate godano della «certezza assoluta» che di esse «non ci sarà smentita». A meno che Dawkins non si proponga altro che allineare la teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo e per dare risalto al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico che però, tirate le somme, risulta inoffensivo. (Egli sottoscrive il vecchio principio che «a rigor di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Ma scrive anche: «Nel resto del libro dimostrerò che l’evoluzione è un fatto inconfutabile». Infatti se «solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa», allora il suo libro non matematico non dimostra «davvero» che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste gli possano sembrare considerazioni da «pedanti» e da «sofisti», però è difficile sostenere che non siano «a rigor di logica»).
Ora, che cosa intende Dawkins affermando che il suo libro «dimostra» che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere oggetto di osservazione diretta la quale è inaffidabile. La sua «dimostrazione» vuol essere un’«inferenza» che dalle «tracce» lasciate dal processo evolutivo risale all’esistenza di esso, al suo essere, appunto, un «fatto». Egli sa che anche «l’inferenza si deve basare, in ultima analisi, sull’osservazione». Sostiene però che l’osservazione diretta di un evento come un omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle «conseguenze» di esso: «È più facile che incorra in un errore di identificazione un testimone oculare piuttosto che un sistema di inferenza indiretta come il test del Dna». Sì, posto che sia «più facile», non è però impossibile il contrario. Nemmeno per Dawkins. Ma essere «più facile » non vuol dire essere incontrovertibile, ossia è un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Ma da questa ipotesi dipende, nel suo libro, la validità dell’«inferenza» con cui intende dimostrare che l’evoluzione è un «fatto» incontrovertibile. Ciò significa che anche questa «inferenza» e pertanto l’esistenza dell’evoluzione sono soltanto «ipotesi». (Rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono «troppo lenti» per poter essere osservati da un individuo nell’arco della vita. Ma chi si propone di dimostrare che l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio questo: invece di dimostrare che l’evoluzione è un processo lentissimo, afferma arbitrariamente che non può essere direttamente osservabile perché è un processo lentissimo).
Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una nota ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si mostri che nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta la possibilità che l’evoluzione, come viene intesa dai biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice dunque Russell: «Può anche darsi che abbiamo cominciato tutti ad esistere cinque minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini bucati e capelli incolti». A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni, che preferiscono parlare di calzini bucati piuttosto che della Passione secondo San Matteo di Bach e, questo, per far sapere che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio—a parte cioè il senso che all’esistenza viene conferito dall’intero pensiero occidentale, che la ritiene caduca e preda del nulla (dunque degna di esser cominciata cinque minuti fa) anche quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio—come risponde Dawkins a Russell? Risponde scrivendo che sì, «è possibile, a voler esser pedanti, che strumenti di misurazione e organi di senso che li interpretano siano rimasti vittime di un colossale inganno», cosicché, «se l’evoluzione non fosse un fatto, sarebbe un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui pochissimi teisti sarebbero disposti a dare credito». Risposta deludente. Innanzitutto perché la verità incontrovertibile dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti — ma nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa di scientificamente inaccettabile. In secondo luogo perché dal fatto che i teisti non darebbero alcun credito al «colossale inganno» non segue che tale inganno non possa esser perpetrato e che quindi l’ipotesi di Russell sia da respingere.
Queste osservazioni non hanno l’intento di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione «abbiano ragione». Entrambi gli avversari si muovono nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò che decide dove stia la «verità» non è il costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro incontrovertibilità ma la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti che l’apparato scientifico-tecnologico planetario si propone. Una scienza che si affanni a dimostrare la «verità incontrovertibile » dei propri contenuti combatte una battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle logico-matematiche. L’esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica che la geometria euclidea sia una verità incontrovertibile solo in relazione ai postulati e agli assiomi su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma relativamente incontrovertibile. Da quando nasce, la filosofia pensa la verità come in-contro- vertibilità, ossia come ciò contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la verità e l’inviolabile «principio di non contraddizione» attraversa tutta la storia della cultura. Per Hilbert la questione «più importante » è dimostrare che basandosi sugli assiomi della matematica «non si potrà mai arrivare a dei risultati contraddittori ». Ma Gödel dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere un sistema concettuale contraddittorio e quindi controvertibile. Se lo dimentica Dawkins, quando afferma che «solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Infatti, «dimostrare davvero», cioè incontrovertibilmente, significa essere in grado di escludere quella possibilità.
Il primo grande libro di Darwin è intitolato L’origine delle specie. «Origine», che rinvia al latino orior («provengo da…», «sorgo») corrisponde all’antico greco arché, la parola con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il «principio» da cui tutte le cose provengono e in cui tutte ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all’affermazione dell’esistenza del «principio», ma insieme ha reso estrema la fede che è radicata nell’uomo più antico: la fede che le cose e l’uomo abbiano bisogno di qualcosa d’Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d’Altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori della stirpe, il demonico, il divino e poi, quando la filosofia appare, l’arché, appunto. L’immenso e tremendo sottinteso di questa fede è la convinzione che le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra, di per sé incapaci di «essere» sono preda del «nulla». Cose morte. La morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche la scienza si muove all’interno della fede nell’origine (ormai divenuta fede filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di quell’origine conservano l’essenziale. Così accade per l’arché e l’origine della specie, per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano come origine della coscienza. E ancora: per il lavoro, la storia, il linguaggio, il cervello, come origini della mente e della cultura. In generale, per le «cause» prossime e remote degli eventi. E perfino il nulla è un succedaneo dei vecchi e nuovi dei — il nulla da cui i più oggi pensano, più o meno consapevolmente, che l’esistenza abbia l’origine ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente l’intera sapienza dell’uomo. Ma, proprio perché la fede nell’origine porta sulle proprie spalle un fardello così gravoso, siamo sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo?

L’AUTORE: il filosofo Emanuele Severino, nato a Brescia nel 1929, ha insegnato all’Università Cattolica, a Venezia e al San Raffaele di Milano. Fra i suoi libri: «Ritornare a Parmenide», «La struttura originaria», «Essenza del nichilismo», «L’anello del ritorno», «Oltre il linguaggio».
«Corriere della Sera» del 24 maggio 2010

10-6-1940: l’avventura senza ritorno del Belpaese

A parlare esplicitamente di pace nei mesi precedenti fu Pio XII, che chiese speciali preghiere e pellegrinaggi per fermare «il terribile uragano della guerra». E dopo l’invasione della Polonia don Orione e padre Gemelli manifestarono il loro sostegno al popolo polacco
di Antonio Airò
Domenica 9 giugno 1940. All’Arena di Milano si conclude il XXVIII Giro d’Italia. Il vincitore è un giovane corridore ancora poco noto al grande pubblico. «Il coscritto Fausto Coppi», come titola a tutta pagina La Gazzetta dello Sport . Il favorito Gino Bartali ottiene il gran premio della montagna. La settimana prima il campionato di calcio registra il successo della squadra dell’Ambrosiana-Inter. Una calda giornata di festa riempie, in questo giorno, cinema, teatri, alimenta passeggiate, raduni familiari. Da 248 giorni, da quando il 1° settembre 1939 la Germania aveva invaso la Polonia, l’Italia vive una situazione di «non belligeranza», (ma di sostanziale «preguerra») in una altalena continua tra un conflitto sempre ritenuto imminente stando alle dichiarazioni sempre più bellicose di non pochi gerarchi, e una neutralità accettata quasi come una «camicia di forza» della quale solo il Duce, che godeva della fiducia dei cittadini, poteva porre rimedio nel migliore dei modi. La guerra nel resto d’Europa ha infatti non poche conseguenze: minore tenore di vita di moltissime famiglie, aumento di povertà, prodotti, lo zucchero, il caffè (con il ricorso al suo surrogato, il karkadè), il sapone razionati; compaiono le tessere alimentari con il conseguente espandersi del mercato nero; per tre giorni la settimana è proibita nelle macellerie la vendita della carne e scatta il divieto ai ristoranti di servirla ai clienti. Intatto si infittiscono le chiamate alle armi dei giovani di leva e degli appartenenti alle classi più mature, in numerosi Comuni si installano le sirene d’allarme, si tagliano i consumi di carburanti e si proibisce la circolazione nelle ore notturne; entra in vigore l’oscuramento all’esterno delle abitazioni, si moltiplicano i manifesti che invitano i cittadini a contribuire allo sforzo bellico che il Paese dovrà sostenere. Gli 8 milioni di baionette, tanto vantati dalla propaganda del regime, non ci sono. Mussolini sa, come risulta da un rapporto della Difesa, che «non c’è nessuna difesa antiaerea e che l’Italia potrà essere pronta solo dall’ottobre 1942».
A parlare esplicitamente di pace in questi primi mesi del 1940 – e lo fa dall’inizio della guerra – è Pio XII. Chiede insistentemente speciali preghiere, promuove pellegrinaggi nelle diocesi (e molti di questi si svolgono proprio il 9 giugno) perché sia fermato «il terribile uragano della guerra» augurandosi che almeno l’Italia resti fuori da questo flagello. Scrive nel maggio 1940 al cardinale Maglione: «Tutti sanno che noi non abbiamo lasciato nulla di intentato, ma con tutti i mezzi – sia con pubblici documenti e discorsi sia con colloqui – abbiamo esortato al ristabilimento della pace basata sulla giustizia e perfezionata da una vicendevole carità». Ma le parole e i gesti del Papa, come il telegramma di solidarietà ai sovrani di Olanda, Belgio, Lussemburgo occupati dai tedeschi, trovano eco praticamente solo nella stampa cattolica. Incontrano l’ostilità del Duce attraverso la stampa. Addirittura nella Pasqua del 1940, l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede presenta una nota di protesta che il cardinal Maglione rintuzza dichiarando: «Era prevedibile e naturalissimo questo intensissimo desiderio di pace (del Papa ndr ) ora che tutti vedono crescere a dismisura il pericolo di guerra».
Per la gran parte della popolazione la guerra appare ormai una necessità «non gradita». Non mancano le riserve le critiche di non pochi gerarchi (da Ciano a Bottai) e dello stesso Vittorio Emanuele III, sono senza esito gli incontri e lo scambio di lettere con Stati Uniti e Inghilterra. Ma Mussolini ha ormai deciso di mantenere fede al «patto d’acciaio» con la Germania di Hitler («Se l’Italia rimanesse fuori, tutto il mondo direbbe che siamo vili»). Alla fine di maggio, via radio, una nota ufficiosa proclama: «Sono vent’anni che la nostra generazione attende questo confronto. Le armi dell’Italia fascista sono numerose e potenti. Ci precede e ci guida l’inimitabile Duce di tante vittorie e di tanti eventi: Mussolini dal genio lampante e dall’intatta fortuna. Egli saprà cogliere il momento del tutto favorevole».
Il 9 giugno mattina dai prefetti viene inviato ai podestà di tutta Italia un telegramma secco e conciso: «Prego disporre al pomeriggio di oggi che impianti altoparlanti per ascolto collettivo siano pronti in perfetta efficienza». In serata un secondo telegramma precisa: «Per la prossima grande adunata popolazione, non dovranno essere usate le sirene. Adoperate le campane, le trombe et tamburi». Il 10 mattina alle 7,11 una velina invita i direttori dei quotidiani a «tenersi pronti per una edizione straordinaria ma che non esca dalla tipografia prima delle 17». Verso le 12 arriva ai podestà l’ennesimo telegramma: «Oggi, lunedì ore 19, il Duce parlerà al popolo. Pregasi disporre che impianti ascolto collettivo radio diffusioni siano in funzione dalle 17 precise».
La mobilitazione riempie le piazze. Alle 18 Mussolini annuncia da piazza Venezia la guerra. Il discorso, 700 parole, pur con molti applausi non è – e il giudizio è ampiamente condiviso – uno dei migliori del Duce. Al ministro degli Esteri, Ciano, che gli consegna la dichiarazione di guerra, l’ambasciatore inglese, Percy Loraine dice: «Voi credete a una guerra corta e facile. Sarà invece lunga e difficile».
Durissimo il giudizio di Roosevelt: «In questo 10 giugno, la mano che stringeva il pugnale lo ha piantato nella schiena del vicino». Sul suo diario Ciano annota: «La notizia della guerra non sorprende nessuno e non desta eccessivo entusiasmo».
L’entusiasmo invece trasuda nei titolo dei giornali italiani. Ma un settimanale cattolico preferisce dare ampio spazio nella prima pagina all’elenco dei promossi e confina il conflitto in una modesta colonnina. Otto giorni dopo il prefetto ordina la sospensione del giornale. Tornerà nelle edicole dopo sei mesi.
«Avvenire» del 30 maggio 2010

Tobino, autoritratto di un medico scrittore

Martedì a Viareggio, invitati dal Vieusseux, studiosi a confronto su uno dei personaggi più rappresentativi del secondo Novecento
di Paolo Di Stefano
Scoperti cinque taccuini inediti: il laboratorio dell’autore di «Per le antiche scale»

C’era una volta Mario Tobino, medico, scrittore e poeta nato a Viareggio nel 1910. Tra il ‘40 e il ‘41 combatté sul fronte libico e partecipò alla Resistenza in Versilia prima di diventare medico e poi primario nell’ospedale psichiatrico provinciale di Magliano, presso Lucca. Morì a 81 anni. E’ improbabile che il suo nome riesca a evocare qualcosa alle nuove generazioni. Eppure, nonostante il declino editoriale (i suoi libri sono pressoché introvabili), qualche pagina gli viene ancora dedicata nelle storie letterarie e nelle antologie scolastiche (la storia resistenziale è ben più viva nella narrativa che nei manuali: e chissà se Storace andrà a guardarsi anche le antologie...).
Il nome di Tobino figura sotto la voce «realismo toscano», accanto a quelli di Cassola, Benedetti e Petroni. Tutti, in qualche modo, parenti di Tozzi e Bilenchi. Ora però, per iniziativa del Gabinetto Vieusseux, lo psichiatra versiliano torna per qualche giorno alla ribalta, grazie a un convegno in programma il 21 novembre nella sua città natale (vi parteciperanno, tra gli altri, Enzo Siciliano, Cesare Garboli, Eraldo Affinati. Nessuna ricorrenza, ma qualcosa di più. L’archivio dello scrittore (circa 2500 documenti), conservato dal ‘96 nel centro di studi fiorentino, verrà finalmente riordinato (è stato disposto, per l’occasione, il bando di una borsa di studio). Non è un caso che l’esordio di Tobino avvenga sotto il segno della poesia, perché tutta la sua prosa successiva sarà orientata verso una sorta di lirismo testimoniale se non autobiografico. Un lirismo ben temperato dalla precisione «scientifica» del racconto: «Il fatto di non essere umanista di mestiere - scrisse Contini - ha probabilmente agevolato a Tobino il compito di essere "primitivo" nell’esattezza del referto». Questa esattezza, unita a uno spirito vitale e a tratti tumultuoso, gli servirà per narrare le condizioni di vita dei soldati nella guerra di Libia (Il deserto della Libia, una sorta di diario apparso nel 1952), l’ambiente medico ai tempi del fascismo (Bandiera nera, 1950), la sofferenza dei folli e dei «diversi» (Le libere donne di Magliano, 1953 e Per le antiche scale, 1972), l’abbandono istituzionale in cui giacciono i malati di mente (Gli ultimi giorni di Magliano, 1982), i luoghi materni (La brace dei Biassoli, 1956). E soprattutto per rievocare la Resistenza versiliana (Il clandestino, 1962).
Libri sempre diversi l’uno dall’altro, perché la libertà rispetto ai canoni costituiti svincola Tobino dalle solide e solite strutture romanzesche, imponendogli forme più duttili, reinventate volta per volta. Le pagine che pubblichiamo a fianco sono tratte da un bloc notes che Tobino era solito portare con sé per annotare episodi di vita quotidiana e tratteggiare fulminei ritratti di persone incontrate nei suoi viaggi in treno o al porto di Viareggio, dove spesso amava passeggiare (forse la dote migliore di Tobino è proprio nella potente capacità di ritrarre personaggi e comunità umane: le «matte» di Magliano, i medici corrotti, i partigiani, eccetera). I bloc notes, cinque in totale, sono tra le carte conservate nell’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Vieusseux.
_______________________

«Il genio può dialogare anche con l’animo del pazzo»
di Mario Tobino
I brani che pubblichiamo sono tratti dai bloc notes che Mario Tobino era solito portare con sé per annotare episodi di vita quotidiana o tratteggiare brevi ritratti di persone per lo più incontrate nei viaggi in treno o al porto di Viareggio, dove si recava abitualmente. Vi si trovano anche pensieri e riflessioni o abbozzi di poesie. I bloc notes, in totale cinque, appartengono oggi al Fondo Tobino conservato a Firenze, presso l’archivio «Alessandro Bonsanti» del gabinetto Vieusseux.

In treno metto fuori un giornale e uno studente mi guarda meravigliato, ci conosciamo appena, mi dice dopo aver indagato con due occhi divenuti vivissimi sul mio volto, - È tanto che ti occupi di queste cose? - e si mette a parlare a interrogare, mi confessa poi che non credeva, non mi stimava - chissà, vedi, avevo un pregiudizio: che chi si occupa di queste cose debba essere pallido e la disgrazia gli si legga nel volto - e sorridendo mostra le gengive bianche come fossero bagnate dal latte invece che dal sangue. Salgo a Pisa sul diretto Roma Torino mentre scorro il corridoio da uno scompartimento mi chiama allegro un mio vecchio amico che traffica a Roma e cento ne guadagna duegento ne spende, un ragazzone che di tutto si meraviglia e cammina senza pensare. Nello scompartimento c’è anche una bella donna e ci mettiamo a parlare: la signora ha gli occhi neri, la bocca morbida e vogliosa, la carne mora, l’espressione franca e una bellissima voce, infatti poi dice che è una cantante e viene da Malta. Malta! e mentre parla di questa isola le brillano gli occhi e diventa più bella: - quegli isolani sono bambini come una volta alla stazione con i fiori ... e poi feste, sempre primavera, dovevo starci due settimane e sono rimasta quattro mesi, il tempo è passato in un baleno, che bellezza! - e inghiotte la saliva e sorride come per comunicarci la gioia di vivere; sembra una ragazzona che torna da una gita in campagna durante la quale ha dato sfogo a quella che gli insipidi chiamano mattia correndo per i prati, lungo i solchi, si è sdraiata al sole, ha mangiato la frutta avidamente affondando i denti nella polpa. Io non avevo idee sulle cantanti eppure mai avrei immaginato di trovarne una franca e allegrona come questa. Il genio conosce di ogni uomo miserie e allegrie e se l’animo è rachitico o con ali di pappagallo, o grigiamente mediocre, o se tende al divino, oppure se pratico cioè tutto fermo alle cose della terra; conoscendo ogni uomo il genio, se vuole, con tutti può trattare abbassandosi fino a parlare con l’animo del rachitico ed anche può parlare con l’animo del pazzo, uscendo cioè fuori dalle leggi, come mente non esistesse creando un’altra armonia, per così dire, un’armonia infernale. Si camminava oggi sulla sponda di un fiume e ogni tanto ci si fermava per gareggiare nel tiro della piastrella, gioco innocente che consiste nel far saltare sul filo dell’acqua una ghiaia ciatta e levigata; e uno si ricordò della giovinezza e disse che era allegria. Allora un altro disse: - La giovinezza è data dal non aver preoccupazioni. Ci fu anche uno che disse la giovinezza essere il corpo e la mente sani e dunque gioiosa armonia - e un altro che la giovinezza non esisteva ma la vera giovinezza cominciava dalla morte. Ci fu poi anche uno che disse: - La giovinezza è il desiderio di eroismo e l’eroismo stesso - Questa considerazione creò il silenzio e riprendemmo a gareggiare nel tiro della piastrella.

«Corriere della Sera» del 18 novembre 2000

Partecipazione e nuovi media interattivi

di Antonella Marrone
Sono decenni che Carlo Infante si occupa di nuove tecnologie, innovazione e comunicazione in campo culturale, politico nel senso più prezioso del termine. Un lavoro, il suo, partito in “solitaria” e che nel corso del tempo, con la fatica e la meticolosità dell’artigiano, è riuscito a trasformare in eventi di (piccola) massa.
Con fatica, perché non è stato facile trovare un modo per spiegare che cosa succede quando si attraversano i territori immateriali delle Reti o si partecipa ad una delle azioni territoriali che realizza, come Performing Media Lab in giro per l’Italia. Azioni come questa nel Castello di Casale Monferrato e a San Sebastiano del Po in un bene confiscato alle mafie.
Non amo il concetto di divulgazione: è verticale, dall’alto verso il basso, basato su quel paternalismo culturale che pensa di educare qualcun altro. La questione va posta in altri termini. E’ per questo che opero attraverso i Performing Media Lab, ambiti di ricerca ed azione per promuovere l’innovazione nel territorio, sia sul fronte della valorizzazione della memoria e del genius loci sia sulla cittadinanza interattiva, per rilanciare il senso di un'appartenenza a partire dalla partecipazione attiva alla cosa pubblica.
C’è un’intelligenza diffusa nella pratica quotidiana delle nuove generazioni attraverso l’uso del web che considero improprio definire “virtuale”. Internet si sta rivelando come un nuovo ambiente di relazione sociale: è un dato di realtà inedita attraverso cui è possibile (ma non scontato) costruire la Società dell’Informazione, quella che sta sostituendo il decrepito sistema industriale. Sta accadendo qualcosa che era stato ampiamente previsto, anche se l’accelerazione della crisi economica, sta schiacciando tutto contro un’evidenza grave. Stanno per essere ridotte drasticamente le risorse per la cultura. E gran parte di un assetto professionale adagiato su sovvenzioni pubbliche rischia di scomparire. Tanta politica culturale inerte ha fatto finta di niente ( e in parte ignorava anche questa emergenza di una nuova cultura più orientata verso la trasformazione che verso la conservazione…). Si poteva in questi ultimi anni creare un ponte tra la cultura dell’innovazione e gli scenari economici del cambiamento, non è stato fatto. Il concetto di economia va rifondato, dato che è saltato il paradigma basilare del sistema produttivo, quello su cui ruotava il patto-conflitto tra capitale e lavoro, incardinato in un sistema industriale oramai alla deriva. Il modello fordista, lineare e meccanicistico, basato sulla catena del valore può e deve essere sostituito da una rete del valore basata sulla capacità di produrre informazione, e non più solo consumarla. La creatività diffusa oggi riguarda in primo luogo una tensione politica e poetica che possa intraprendere una radicale innovazione dei processi sociali attarverso la condivisione di conoscenza. Trovando il modo per entrare nel vivo dei processi di nuova produttività, così come certe linee operative che vanno dall’open source al wikinomics fanno intuire. In questo senso credo veramente che pratiche web 2.0 possano allargare il fronte del pensiero-azione per interpretare le dinamiche del cambiamento e tradurle in risorsa, a partire da quella partecipativa e collaborativa. Come sto facendo con il progetto Urban Experience

La sinistra e le nuove tecnologie non sono mai state buone amiche. Anzi una diffidenza cronica segna questo rapporto sin dai tempi della tv a colori, tanto per dire…
Si, è deprimente assistere a questa inerzia del mondo della sinistra in cui affondano le mie radici. Ricordo ancora il mio intervento amaro pubblicato proprio su Liberazione più di due anni fa dopo l’ennesimo tentativo fallito di condividere una tensione di ricerca sull’uso politico e poetico delle reti. Si tratta d’inventare altro, oltre l’idea stessa della sinistra. E’ un atto d’ottimismo di volontà pensare che questa crisi si possa tradurre in una crescita. Ma ne vale la pena. Prima di tutto è inevitabile scardinare certe logiche stantie che riguardano un sistema-paese oggettivamente inadeguato, impantanato com’è nella logica chiusa di una politica rappresentativa che non sa cogliere lo spirito del tempo.

Fino a poco tempo fa termini come connessione e reti erano lontani dal mondo della politica. Oggi sono termini usati quotidianamente (il nuovo sindacato di base si chiama Usb e lo slogan è “Connetti le tue lotte”). La rete, allora, diventa un mezzo per fare, per organizzare azioni. Come quella con i ragazzi di Libera……………………
Con quei ragazzi negli ultimi sei anni abbiamo creato un performing media lab che ora ha sede a Torino (dove ho vissuto per più di 18 anni) in un bene confiscato alla mafia. Abbiamo coniugato l’idea della politica con le nuove forme ludico-partecipative sollecitate dai nuovi media interattivi. In questi giorni di lavoro nel Monferrato abbiamo definito alcuni di questi format. Se ne parla qui

Social network. Possiamo dire che nonostante tutto sono già un po’ vecchi? Appartengono alla prima ora della comunicazione sociale. Oggi per un'azione politica si può pretendere di più
Una delle prime risposte possibili è nel trovare una relazione tra web e territorio, per non cadere nel giogo solipsistico degli schermi. Un significato politico è nell’estendere l’idea di bene comune alle risorse informative, sperimentando socialità nuova, per fare del web uno spazio pubblico a tutti gli effetti.
Se è vero che il potenziale economico del sistema Paese risiede nella capacità di valorizzare il territorio, dalla sua memoria culturale alle sue risorse eno-gastronomiche, dovrebbe essere evidente quanto sia necessario combinare a questo la potenzialità delle nuove forme di comunicazione. E’ di questo che si parlerà il 29 maggio nel Castello di Casale Monferrato, in occasione della conclusione del Performimng Media Lab per il Monferrato 2.0. inscritto nel Piano Locali Giovani promosso dal Dipartimento della Gioventù e dal Comune di Casale Monferrato in collaborazione con l’Anci.
«Liberazione» del 28 maggio 2010

F. Petrarca, Familiares, XXI 15 (lettera a G. Boccaccio)

Edizione di riferimento: Francesco Petrarca, Opere, Canzoniere - Trionfi - Familiarium rerum Libri - con testo a fronte, Sansoni editore, Firenze 1975, secondo l'edizione curata da Vittorio Rossi e Umberto Bosco, per l'edizione nazionale nazionale delle opere di Francesco Petrarca, Firenze, Sansoni, 1933-1942 con la traduzione inedita di Enrico Bianchi.
di Francesco Petrarca
A Giovanni da Certaldo,
difendendosi da una calunnia mossagli da invidiosi.
Molte cose sono nella tua lettera che non hanno bisogno di risposta, perché già le trattammo poco fa a viva voce. Ma di due non debbo tacere, e su di esse ti dirò il mio pensiero. In primo luogo, tu mi chiedi scusa, e non senza perché, di aver fatto grandi lodi di un nostro concittadino, popolare per quel che riguarda lo stile, ma indubbiamente nobile per il contenuto; e ti scusi in modo, da sembrare ch’io stimi le lodi di lui o di chiunque altro recar danno alla mia gloria; e perciò tu aggiungi che, se ben considero, tutto il bene che dici di lui ridonda a mia gloria. Dici anche chiaramente, a giustificazione dalle tue lodi, che quand’eri giovinetto egli fu prima guida e primo lume ai tuoi studi; sentimento giusto, grato, memore e, per parlar più propriamente, pieno di pietà; che se tutto dobbiamo ai genitori, molto ai benefattori, di che non siamo debitori a chi guidò e formò le nostre menti? Quanto siano da noi più benemeriti quelli che ebbero cura della nostra mente di quelli che curarono il nostro corpo, comprenderà chi sa giustamente apprezzare l’una e l’altro, e dovrà convenire che quella è dono immortale, questo è mortale e caduco. Tu dunque, non col mio per­messo ma con la mia approvazione, esalta e venera, quella face del tuo ingegno, che ti procurò ardore e luce in questa via, nella quale tu procedi a gran passi verso la gloria; face che a lungo agitata e vorrei dire stancata dai ventosi applausi del volgo, tu porterai al cielo con lodi finalmente vere e degne di te e di lui. Di tali lodi io mi compiacqui, poiché egli è degno di un tal banditore e tu, come dici, di questo gli sei debitore; e lodo perciò il tuo carme laudatorio e con lui il tuo vate. Ma dalla tua lettera di scusa nient’altro ricavo se non che io ti sono ancor poco noto, mentre credevo d’esserti notissimo. Così dunque io non mi compiaccio, non mi esalto alle lodi degli uomini illustri? Credimi, nulla è da me più alieno, nulla più ignoto del­l’invidia; anzi - vedi quanto ne sono lontano! - posso assicurarti, e ne chiamo a testimone Iddio che legge nei cuori, che nulla nella vita più mi addolora che vedere a chi se lo merita venir meno la gloria e il premio; non ch’io mi lamenti del mio danno o che dal contrario speri un guadagno, ma perché compiango la pubblica sorte, vedendo che il premio delle arti oneste vien dato alle oscene; sebbene non ignori che, se la gloria dei buoni inciti gli animi a imitarli, tuttavia la vera virtù, come affermano i filosofi, è sprone a se stessa, e stimolo e meta. Or dunque, poiché tu me ne hai offerto un’occasione, che io da me non avrei cercato, io voglio fermarmi un po’ per difendermi davanti a te e per tuo mezzo davanti agli altri da un’opinione che non solo a torto - come dice Quintiliano di sé e di Seneca - ma insidiosamente e malignamente si è divulgata sul giudizio ch’io fo di quel poeta. Poiché chi mi vuol male dice ch’io l’odio e disprezzo, cercando così di suscitarmi contro l’odio di quel volgo al quale egli è graditissimo; nuova specie d’iniquità e arte mirabile di nuocere. A costoro rispon­derà per me la verità.

Prima di tutto, io non ho nessuna ragione d’odio verso un uomo che non ho mai veduto, se non una volta sola nella mia infanzia. Visse col mio nonno e con mio padre, più giovane del primo, più vecchio del secondo, col quale nel medesimo giorno e da una stessa tempesta civile fu cacciato dalla patria. Spesso tra compagni di sventura nascono grandi amicizie; e questo accadde anche tra loro, che oltre alla fortuna avevano in comune l’ingegno e gli studi, se non che all’esilio, al quale mio padre ad altre cure rivolto e pensoso della famiglia si rassegnò, egli si oppose ed agli studi con maggiore ardore si consacrò, di tutto incurante e sol di gloria desideroso. E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo; poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la povertà, non gli attacchi degli av­versari, non l’amore della moglie e dei figliuoli lo distrassero dal cammino intrapreso; mentre vi sono tanti ingegni grandi, sì ma così sensibili, che un lieve sussurro li distoglie dalla loro intenzione; ciò che avviene più spesso a quelli che scrivono in poesia e che, dovendo badare, oltre che al concetto e alle parole, anche al ritmo, hanno bisogno più di tutti di quiete e di silenzio. Tu comprendi perciò che davvero odioso e ridicolo è quell’odio che alcuni hanno immaginato ch’io porti a questo poeta, poiché, come vedi, non ho alcuna cagione d’odiarlo, ma molte d’amarlo, ovvero la patria comune e la paterna amicizia e l’ingegno e lo stile, ottimo nel suo genere, che lo rendono immune da ogni disprezzo. L’altra calunniosa accusa che mi si fa è che io, che fin da quella prima età in cui avidamente si coltivano gli studi, mi compiacqui tanto di far raccolta di libri, non abbia mai ricercato il libro di costui, e mentre con tanto ardore mi diedi a raccoglier libri quasi introvabili, di quello solo, che era alla mano di tutti, stranamente non mi sia curato. Confesso che è così, ma nego di averlo fatto per le ragioni ch’essi dicono. Io allora, dedito a quel suo stesso genere di poesia, scrivevo in volgare; nulla mi sembrava più elegante, né pensavo di poter aspirare a meta più alta, ma temevo che, se mi fossi dedicato alla lettura degli scritti suoi o di qualcun altro, non mi accadesse, in un’età così pieghevole e proclive all’ammirazione, di diventare volente o nolente un imitatore. Da questo nella baldanza del mio animo giovanile io aborrivo, e tanta era in me la fiducia o meglio l’audacia, da credere di potere col mio ingegno e senza l’aiuto di alcuno crearmi uno stile proprio e ori­ginale; se fu vana credenza, vedano gli altri. Ma questo io affermo che se qualche parola o espressione si trovi nei miei versi che a quelle di quel poeta o di altri sia simile o uguale, ciò avvenne non per furto o per volontà di imitare - due cose che come scogli io cercai sempre di evitare, soprattutto scrivendo in volgare - ma per caso fortuito o, come dice Cicerone, per somiglianza d’ingegno, calcando io senza volerlo le orme altrui. Credi pure che è così, se in qualche cosa mi credi; nulla è più vero. E se questo non feci, come pur si deve credere, per modestia o vergogna, si deve accusarne la giovanile baldanza. Ma oggi io son ben lontano da tali scrupoli, e poiché da quegli studi mi sono del tutto allontanato, e ogni timore è scomparso, accolgo presso di me tutti gli altri poeti, e questo prima di tutti. Io che mi offrivo al giudizio altrui, ora in silenzio giudico gli altri, quale più e quale meno, ma questo in modo da dargli senza esitazione la palma della volgare eloquenza.

Mentiscono dunque quelli che affermano ch’io cerchi di diminuir la sua gloria, mentre forse io solo, meglio di molti di questi insulsi ed esagerati lodatori, so che sia quel non so che di incognito che accarezza loro le orecchie ma, poiché la via dell’ingegno è chiusa, non discende nel loro animo. Sono essi di coloro che Cicerone bolla nella sua Retorica: « Quando », egli dice, « leggono buone orazioni o buone poesie, approvano gli oratori e i poeti, ma non intendono per quale im­pulso li approvino, perché non possono sapere dove sia né che sia né come sia quello che li diletta ». E se questo avviene per Demostene e Cicerone e Omero e Virgilio tra uomini colti e nelle scuole, come non avverrà per questo nostro tra persone volgari nelle taverne e nelle piazze? Per quel che mi riguarda, io l’ammiro e l’amo, non lo disprezzo; e credo di potere sicuramente affermare che se egli fosse vissuto fino a questo tempo, pochi avrebbe avuto più amici di me, se quanto mi piace per l’opera del suo ingegno così mi fosse piaciuto anche per i costumi; e al contrario, che a nessuno sarebbe stato più in odio che a questi sciocchi lodatori, che non sanno mai né perché lodano né perché biasimano, e facendogli la più grave ingiuria che si possa fare ai poeti, sciupano e guastano, recitandoli, i suoi versi; del che io, se non fossi così occupato, farei clamorosa vendetta. Ma non posso fare altro di lamentarmi e disgustarmi che il bel volto della sua poesia venga imbrattato e sputacchiato dalle loro bocche; e qui colgo l’occasione per dire che fu questa non ultima cagione ch’io abbandonassi la poesia volgare a cui da giovane m’ero dedicato; poiché temei che anche ai miei scritti non accadesse quel che vedevo accadere a quelli degli altri e specialmente di quello di cui parlo, non potendo sperare che la lingua o l’animo di questi cotali si mostrassero più inclini o più miti verso le mie cose di quel che s’eran dimostrati verso quelle di coloro, cui il prestigio dell’antichità e il favor generale avevano resi celebri nei teatri e nelle piazze. E i fatti dimostrano che i miei timori non furono vani, poiché quelle stesse poche poesie volgari, che giovanilmente mi ven­nero scritte in quel tempo, sono continuamente malmenate dal volgo, sì che ne provo sdegno, e odio quel che un giorno amai; e ogni volta che, contro voglia e irato con me stesso, mi aggiro per le strade, dappertutto trovo schiere d’ignoranti, tro­vo il mio Dameta, che suole nei trivii

Su stridente zampogna al vento spandere

Miseri carmi.

Ma anche troppo io mi sono indugiato su argomenti di così poco conto, che d’esser trattato seriamente non meritava, dovendo io in altre cure impiegare questo tempo che più non ritorna; ma mi è sembrato che la tua scusa somigliasse un po’ all’accusa di quei tali. Poiché, come ti ho detto, molti mi rinfacciano un odio, altri un disprezzo per questo poeta, di cui oggi a bella posta non fo il nome, perché il volgo, che tutto ascolta e niente capisce, non vada poi dicendo ch’io lo denigro; poiché molti mi accusan d’invidia, e son proprio quelli che invidiano me e il mio nome. Che sebbene io non sia gran che da invidiare, tuttavia gl’invidiosi non mi mancano; ciò che una volta non credevo possibile e di cui tardi mi sono accorto. Eppure or son molti anni, quando poteva scusarmi il bollor della gioventù, non con parole o scritti di poco conto, ma in un carme inviato a un uomo insigne, forte della mia coscienza osai affermare di non provare invidia per nessuno. E sia pure che altri non mi creda degno di fede. Ma, dimmi, come è mai possibile ch’io invidi uno che dedicò tutta la sua vita a quegli studi ai quali io dedicai appena il primo fiore della giovinezza, sì che quella che per lui fu, non so se unica, ma certo arte suprema, fu da me considerata uno scherzo, un sollazzo, un’esercitazione dell’ingegno? Come può esservi qui luogo all’invidia o al sospetto? Quanto a quel che tu dici, ch’egli poteva, se voleva, volgersi ad altro stile, io credo, in fede mia - poiché grande è la stima ch’io fo del suo ingegno - ch’egli avrebbe potuto fare tutto quello che avesse voluto; ma è chiaro che al primo si dedicò. E sia pure che all’altro si dedicasse e pienamente lo raggiungesse; e che perciò? e perché dovrei invidiarlo e non esaltarlo? e a chi porterà invidia chi neppur di Virgilio è invidioso, se pur non si dica ch’io invidi a costui l’applauso e le rauche grida dei tintori, degli osti, dei forzatori di cui mi compiaccio d’esser privo insieme con Virgilio e Omero? Poiché so quanto valga presso i dotti la lode degl’ignoranti; se pure non si creda ch’io abbia più caro un cittadino mantovano che un fiorentino, ciò che, se non altro, sarebbe indegno della nostra comune origine; sebbene io sappia che l’invidia alligna soprattutto tra vicini; ma un tale sospetto, oltre che da altre cause che ho detto, è infirmato anche dalla differenza d’età; poiché, come dice elegantemente quel Cicerone che nulla dice senza eleganza, « i morti sono senza invidia e senz’odio ». Tu mi crederai se ti giuro che mi piace l’ingegno e lo stile di quel poeta, e che di lui io non parlo mai se non con gran lode. Questo solo ho risposto a chi con più insistenza me ne domandava, che egli fu un po’ disuguale, perché è più eccellente negli scritti in volgare che non in quelli in poesia e in prosa latina; e questo neppur tu negherai, né vi sarà alcun critico di buon senso che non veda che ciò gli torna a lode e gloria. Poiché, chi mai, non dirò ora che l’eloquenza è ormai morta e sepolta, ma anche quando più era in fiore, fu sommo in ogni sua parte? Leggi le Declamazioni di Seneca: una tale eccellenza non si concede né a Cicerone, né a Virgilio, né a Sallustio, né a Platone. Chi può aspirare a una lode che è negata a ingegni così grandi? basta distinguersi in un sol genere. E così stando le cose, tacciano coloro che intessono calunnie; e quelli che dei calunniatori si fidarono, leggano, di grazia, questo mio giudizio. Liberato l’animo da ciò che l’opprimeva, vengo all’altra cosa. Quando tu mi ringrazi ch’io mi sia dimostrato così sollecito della tua salute, tu ti mostri cortese al modo delle persone civili, ma non comprendi che fai cosa inutile. Poiché, come si può ringraziare uno perché abbia cura di se stesso e bene amministri il suo? Le tue, o amico, sono le mie cose. Sebbene tra le cose umane nulla sia più santo, più divino, più celeste dell’amicizia, salvo la virtù, tuttavia credo che ci sia differenza tra l’essere il primo ad amare o a essere amato, e che con maggior reli­gione si debbano coltivar le amicizie che contraccambiamo che quelle che da noi stessi furono offerte. Per tacer di altri esempi, nei quali mi dichiaro vinto dal tuo ossequio e dalla tua amicizia, non potrò mai dimenticarmi di quando, viaggiando io in fretta attraverso l’Italia nel cuor dell’inverno, non con gli affetti soli, che son come i passi dell’anima, ma con la persona celermente mi venisti incontro per il desiderio grande di conoscere un uomo non mai visto prima d’allora, facendoti precedere da un carme veramente pregevole; e così, proponendoti d’amarmi, mi mostrasti prima l’aspetto del tuo animo che quello del tuo viso. Era vicina la sera e l’aria si oscurava, quando entrando dopo lunga assenza dentro le mura della patria fui accolto dal tuo affettuoso e immeritato saluto. Tu rinnovasti con me quel poetico incontro del re Arcadio con Anchise, in cui

La mente ardea con giovanile amore

Di chiamarlo per nome e destra a destra

Congiungere.

Che sebbene io non, come quello, avanzassi più alto degli altri, ma più umile, in te tuttavia non meno era ardente l’animo. Tu mi guidasti non « sotto le mura di Fineo », ma nei sacri penetrali della tua amicizia; né io ti donai

Una bella faretra e licii dardi,

ma un affetto perenne e sincero. In molte altre cose a te inferiore, in questa sola non mi sento da meno né di Niso, né di Pitia, né di Lelio. Addio.

Postato il 31 maggio 2010

La Commedia del popolo

di Alberto Asor Rosa
In genere si pensa che la storia della letteratura sia un seguito di grandi uomini e di grandi opere, che ci si deve accontentare di ammirare dal di sotto e da lontano, quasi pargoli indigenti di ogni sapienza. Di certo è anche questo (e anche l'ammirazione da lontano va praticata): ma è anche una moltitudine di minuscoli dati intellettuali e materiali, la cui paziente osservazione porta sovente a scoperte magari semplicissime nella sostanza ma estremamente rivelatrici negli effetti. Questa considerazione mi viene in mente dalla rilettura di una famosa «epistola» di Francesco Petrarca niente di meno che a Giovanni Boccaccio in merito alla produzione letteraria volgare di Dante Alighieri (bella e straordinaria questa adunanza di «spiriti magni», riuniti intorno ad un tavolo ideale, come soggetti e oggetti della conversazione, per discutere della natura e dei compiti della poesia, anzi, della Poesia). In questo testo è in gioco l'apprezzamento, - positivo o negativo, o meno positivo, o un tantino negativo, - di un' opera come la Commedia, pietra fondativa, architrave, dell' intero «sistema letterario» italiano.
E per quanto l'occasione possa apparire limitativa, - in fondo una lettera originariamente privata, sia pure tra due grandi personalità, una «famigliare» fra le tante (XXI, 15), - lì è contenuta l'essenza di una scelta di fondo, che percorre da un capo all'altro l'intera nostra storia letteraria (forse addirittura fino ai giorni nostri, di sicuro fino all'altro ieri), la contrapposizione, cioè, per dirla in termini molto attuali, quasi da tifo calcistico, tra i filo-danteschi e i filo-petrarchisti, tra i seguaci di una nozione della poesia ispirata all' opera e ai precetti teorici di Dante e i seguaci di una nozione della poesia ispirata all' opera e ai precetti teorici di Petrarca. Naturalmente, date le premesse, si potrebbe ragionare all'infinito sulle motivazioni, molteplici e ricche, di ognuna delle due linee. Per l'occasione fermerò l'attenzione su di un solo punto, che però, a guardar bene, potrebbe costituire il presupposto di tutti gli altri.
Boccaccio, com' è noto, è un filiale sostenitore (ovviamente a modo suo) della linea dantesca. Però, ammiratore al tempo stesso di quel suo fratello maggiore che era Petrarca, si sforzava in tutti i modi di persuaderlo delle buone ragioni della sua ammirazione per Dante (della cui Commedia aveva inviato anni prima una preziosa copia a Petrarca stesso). Petrarca, contegnoso e, secondo me, anche un poco ipocrita, gli risponde (siamo in anni tardi, intorno al 1360) che lui apprezza e ama Dante ma non può fare a meno di constatare come il suo innegabile ingegno si sia come sporcato e rovinato a causa... A causa di cosa? A causa del fatto che Dante, nelle modalità della sua poesia, nella scelta delle sue tematiche e (soprattutto) nell'uso di una determinata lingua, ha pensato fosse giusto stabilire un rapporto, - un rapporto stretto e per lui molto fecondo, - fra il proprio ruolo di poeta e un pubblico vasto, nel quale avrebbe inevitabilmente assunto un ruolo, superiore a qualsiasi classica misura, l'elemento popolare. Le parole di Petrarca sono di un'inequivocabile durezza. Egli respinge con sdegno l'insinuazione che potesse «invidiare» Dante per la fama da questi rapidamente acquisita. Come avrebbe potuto invidiarlo, - scrive il poeta classicheggiante e precocemente umanista, - se ad ammirare Dante, con «applauso e strepito sgraziato», si erano distinti in prima fila personaggi come «i tintori», «gli osti», «i lanaioli», ossia i rappresentanti tipici del popolino fiorentino, che fin dalla prima circolazione della Commedia ne avevano imparato i versi a memoria e li salmodiavano o cantavano (testimonianze coeve ce lo confermano) persino in bottega, nell'esercizio delle loro attività artigianali? Non aver scansato in tutti i modi, - come Petrarca dichiara di aver voluto fare accuratamente per sé e per la propria opera, - questa vera e propria contaminazione fra la propria poesia e quel pubblico indegno aveva provocato come altra intollerabile conseguenza negativa che il suo stile, - lo stile di Dante, volentieri piegato dal suo autore a tale contaminazione, - risultasse «insozzato e coperto di sputo dalle balbettanti lingue di costoro». Comincia da qui, con la sorprendente chiarezza di cui solo un intelletto come quello di Francesco Petrarca poteva esser capace, il lungo percorso del padre Dante nella storia della letteratura italiana successiva. Mi rendo conto, naturalmente, di schematizzare oltre misura. E però non sarebbe difficile dimostrare che la fortuna di Dante, e in modo particolare della sua poesia (che per scelta sua fu, non dimentichiamolo, quasi tutta volgare), s'alza o s'abbassa, in taluni momenti fin quasi a scomparire, a seconda che i letterati italiani di questo o quel periodo si siano posti oppure no il problema di venire incontro alle aspettative, non solo dei membri della loro medesima corporazione, ma a quelle dei «tintori», degli «osti» e dei «lanaioli» dei loro tempi (con il che, com'è ovvio, intendo riferirmi a quelle situazioni sociali, professionali e intellettuali, che di volta in volta sfuggissero ai modelli precedenti del «sistema»).
A questo possibile diagramma storico della nostra letteratura, che vede la presenza maggiore o minore di Dante come il visibile segnale d'una condizione più aperta e rinnovatrice della ricerca, andrebbe accompagnata la parallela ricostruzione della fortuna di Dante direttamente presso le classi popolari italiane, fino ad un periodo a noi assai vicino. «Dire» Dante ha sempre significato a quel livello un'affermazione d'identità, che in quelle parole, in quei versi e in quella lingua «si riconosceva» (né può risultare una diminuzione per la Commedia dantesca il fatto che le si affiancassero nella memoria popolare opere come il Guerrin Meschino o la Gerusalemme liberata). È quello che, con la geniale inventività che lo contraddistingue, ha fatto e continua a fare Roberto Benigni, parente stretto di quei popolani toscani che al Petrarca davano tanto fastidio. Mi preme rilevare che tutto ciò è tutt' altro che casuale. L'origine ne va cercata infatti nelle scelte stesse di Dante, anche quelle di maggior rilievo e sofisticazione intellettuale. E si può esser sicuri che Dante, se avesse potuto, non si sarebbe lamentato, come Petrarca, d' esser detto o cantato dalle «lingue balbettanti» degli incolti.
«La Repubblica» del 29 dicembre 2009

Quando i genitori trascurano i figli

di Gianni Riotta
Quando noi figli del baby boom eravamo sui banchi di scuola, due erano le lezioni da imparare, accanto a radici quadrate, il reale razionale di Hegel e i versi di Eschilo. Che i nostri genitori avevano sofferto sotto dittatura e guerra e che mai più l'Apocalisse sarebbe tornata sul vecchio continente, la prima. La seconda che l'Europa sarebbe stata ogni anno più integrata, ricca e pacifica. Democrazia e benessere erano il karma e i cupi titoli dal resto del mondo non scuotevano le certezze europee.
Non le guerre lontane che gli alleati e protettori americani si ostinavano a combattere, non la sorda Guerra Fredda che opponeva Washington a Mosca, non le dittature dal Brasile all'impero russo. La bonaria Europa occidentale riteneva esorcizzata la lunga guerra civile 1914-1945, malgrado il terrorismo che insanguinò Italia, Germania e Gran Bretagna. Fabbriche al lavoro, università impegnate, club vacanze pieni, sicurezza sociale, asili stracolmi, mutua per tutti, pensione in un'età in cui ci si godeva ancora la vita, premi a scrittori e registi corrucciati ai festival, per opere-denuncia sull'alienazione di un continente che viveva invece sereno nel pianeta grande e terribile.
Per anni, pendolare atlantico ho sentito le guardie doganali chiedermi «Si vive meglio in Europa o in America?» e dopo aver provato, invano, a bucare i rispettivi pregiudizi, m'ero munito di risposta standard «Dipende chi si è, se si ha già un certo benessere da difendere, meglio l'Europa. Se invece si hanno speranze e ambizioni di crescere, meglio gli Usa». Contenti tutti, bollo sul passaporto e via.
Il mantra Zen della nostra infanzia è ora rotto. Prima lo capiremo più risparmieremo, a noi, figli e nipoti, frustrazioni e sofferenza. Il dibattito frenetico di cui andate leggendo dopo la crisi greca, la discesa dell'euro, la deplorevole inanità dei leader Ue, le manovre fiscali di cui ogni paese va facendo - tardiva - professione, i titoli xenofobi della stampa popolare tedesca, vedi Bild Zeitung, nascondono una verità semplice ma dura da accettare. Abbiamo vissuto, dal 1945 all'euro, con un tenore e ritmi di vita e lavoro che mondo globale, invecchiamento della popolazione, nuove produzioni, non ci permetteranno più.
L'utopia di un'Europa che poteva crescere senza difendersi (ci pensava tanto il budget Difesa dello Zio Sam, deprecato nei sussiegosi editoriali della domenica, letti intingendo croissant nel caffellatte), non fare bambini perché troppo noiosi durante le settimane bianche, darsi regole nobili senza osservarle però troppo, non soffrire mai, è sfumata: per sempre. Noi europei dobbiamo decidere se rassegnarci al "decennio perduto" 2010-2020. Vogliamo svegliarci Unione europea di anziani malmostosi con pensioni ridotte, giovani precari a vita, populismo e nazionalismo crescenti, mentre la Gran Bretagna si allontana da Bruxelles? Il Sole 24 Ore ha pubblicato un intervento di Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, che parla di noi con insolita schiettezza: il problema europeo numero uno è «la sfida dello sviluppo sostenibile... il pacchetto dei 750 miliardi per difendere l'euro serve a prendere tempo ...ma l'Europa deve tornare a una robusta crescita, senza la quale le manovre fiscali saranno più dolorose e la politica più difficile da gestire». Si possono fare le riforme di struttura in tempi di crisi, argomenta Zoellick, perché «la sfida dello sviluppo sostenibile non parla solo di severa austerità, ma di trovare una strada raziocinante verso il benessere... L'anno scorso, mentre le economie sviluppate si concentravano sulle trasformazioni keynesiane della domanda, quelle dell'Asia Pacifica varavano riforme – soprattutto nei servizi – per attivare la crescita». Se il mondo può crescere fino al 5%, conclude Zoellick, lo si deve alla spinta dei nuovi paesi, ora maestri dell'Europa ex potenza coloniale «perché hanno compreso che la ripresa sostenibile dipende dal rinnovato vigore che si instilla nel settore privato. Le aziende investiranno se il clima politico consentirà loro di guadagnare.. La sfida della crescita non parla solo di severa austerità, ma di strada seria verso il benessere. L'Europa ...non ha soltanto bisogno di rigore fiscale, specie se ottenuto con più tasse. Deve accogliere nuove opportunità, ed evitare di perdere dieci anni. Nel 2008 furono gli Usa a portarci alla crisi. Oggi è l'Europa».
Gli storici diranno di una seconda differenza tra il crollo della finanza Usa e la crisi dell'euro. Nel 2008 Washington, Pechino e Bruxelles reagirono con rapidità, coordinamento e sangue freddo (leggete le memorie del ministro americano Paulson). Nel 2010 l'Europa s'è mossa come una madama aristocratica che non si decide ad agire davanti al futuro, ipnotizzata dal destino delle tovaglie di broccato e dell'argenteria di famiglia. Davanti a un problema duro ma non fatale - l'economia della Grecia vale meno di quella lombarda -, divisi tra spocchia, egoismo e pusillanimità i leader europei hanno blaterato di Fondo monetario europeo, lasciato ad aspettare fuori da Fort Atene il Settimo Cavalleria del Fondo Monetario Internazionale, baloccandosi con una qualche elezione locale tedesca, che poi il governo ha comunque perduto miseramente. Tra l'ipercinetico Sarkozy, gli euroscettici inglesi, gli imbarazzati leader del Sud Europa, toccava alla cancelliera tedesca Merkel il laticlavio di primus inter pares. Ha fallito. Il coraggio del suo mentore Kohl davanti all'unificazione tedesca e all'euro non è purtroppo ereditario. E la Bce, con la sua autonomia intaccata, esita nel bilanciare austerità fiscale e politica monetaria.
È questa, oggi, la crisi dell'Europa, una crisi di anima, di coraggio morale. Nel suo capolavoro, La crisi delle scienze europee, il filosofo Edmund Husserl provò che – tra le due guerre – il vero deficit scientifico del continente fu la crisi dell'«umanità europea», il fallimento nel trovare ragione e compassione comuni. Con l'euro, il successo maggiore degli anni dell'Unione è stato il programma di scambi universitari Erasmus, che ha forgiato la prima generazione davvero "europea". È la generazione che, se ancora ha voglia di Europa, deve saper trovare idee e leader per uscire insieme dalla crisi.
Il resto sarà difficile, ma anche obbligato e non impossibile, a partire dalla manovra dei 24 miliardi in casa nostra. Certo che i tagli occorrono, ma è evidente che non bastano. Certo che il rigore è indispensabile, ma sicuro che è solo il primo, tardivo, passo. Acclarato da tutti gli osservatori equanimi che le riforme di struttura, trascurate negli anni "buoni", vanno ora concordate (e, senza polemica, nella manovra, pur utile e urgente, si intravedono per ora solo germogli, che se non coltivati in fretta rischiano al primo acquazzone d'estate).
Non è tempo per disperare. L'Ocse prevede una situazione «moderatamente incoraggiante». E parecchi fondamentali italiani – risparmio, banche, famiglie, manifattura specie con l'euro meno agli steroidi – sono solidi. Ma l'Europa deve avere coraggio, e l'Italia molto coraggio e grande solidarietà civile e politica: non le solite liti, i soliti slogan, la solita frusta mancanza di responsabilità. Domani tocca al governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, leader del Financial Stability Board e autorevole candidato alla Bce, dare il proprio giudizio. A stare al suo recente pensiero, chiederà al governo Berlusconi di fare di più nella direzione di rigore e innovazione, richiamerà a urgenti riforme, preoccupato per la produttività e la lentezza dei processi di innovazione. Andrà ascoltato.
L'Europa felice dei nostri banchi di scuola non esiste più. Ha bisogno di ideali, leader e capacità di essere di nuovo ottimista e solidale (bravo il cardinal Bagnasco a parlare di nascite!), di rimboccarsi le maniche, consapevole che i privilegi del passato son perduti. Il conto alla rovescia per evitare di perdere dieci anni è cominciato, e non si fermerà. La scommessa è semplice: le generazioni europee da qui al 2050 avranno la nostra fortuna e il nostro benessere? Ai ritmi di oggi no. Non si tratta di un arcano algoritmo sul Pil, ma del destino dei nostri figli.
«Il Sole 24 Ore» del 30 maggio 2010

Meno stato più società

di Piero Ostellino
Necessaria, tempestiva, utile. Si sprecano i giudizi positivi dell’Europa, del Fondo monetario, della Confindustria — «i medici pietosi» — sulla manovra del governo. Anche sufficiente? Sì, ad arrestare la febbre, che minacciava di salire. No, a curare la malattia, che è cronica. Sì, a farci «passare la nottata». No, a metterci al riparo da quelle che verranno.
La dilatazione della sfera pubblica — che ormai assorbe il cinquanta per cento della ricchezza prodotta — provoca due distorsioni. Prima: una spesa — cresciuta di 90 miliardi negli ultimi cinque anni— nelle pieghe della quale si annidano sprechi, distrazione di risorse a uso clientelare, corruzione, assistenzialismo, distribuzione a geometria variabile della ricchezza agli interessi corporativi più forti con pregiudizio del principio di equità. Il Paese si impoverisce progressivamente. Seconda: una contrazione dei margini di autonomia della Società civile e delle libertà individuali, che aumenta i costi delle transazioni private, mortifica lo spirito imprenditoriale, penalizza meritocrazia e ricerca. Il Paese ne è progressivamente sfiancato.
Il malato— lo Stato sociale— è inguaribile perché il medico (la politica) non sa curare se stesso. I governi — quale ne sia il colore, e che ne ricavano una «rendita politica» — rimediano alla prima distorsione, con manovre congiunturali, «tampone», ignorando sistematicamente la seconda. Le riforme cosiddette strutturali, che darebbero alla sfera pubblica ciò che è della sfera pubblica, riducendone le dimensioni, e alla Società civile ciò che è della Società civile, riconoscendole maggiori spazi di autonomia, non si fanno perché non convengono a nessuno. Non alla politica, non alla Pubblica amministrazione, che sono per lo status quo, non alle corporazioni e agli interessi organizzati, non all'area del parassitismo pubblico e a quella delle clientele private, che ci guadagnano. La manovra è la radiografia dello stato dei rapporti fra politica e Società civile; fra una politica— fondata sui sondaggi, e su una leadership a forte carica populista, che promette le riforme e poi non le fa per accontentare tutti— e una Società civile che, per la parte che conta, non le vuole.
La solitudine del ministro dell'Economia — assediato, in Consiglio dei ministri, dalle richieste di spesa dei suoi stessi colleghi — è paradigmatica di una sovrastruttura (la cultura) ideologica, anti-empirica e poco pragmatica, nonché anti-individualistica e anti-meritocratica, e di una struttura (la società) corporativa, chiusa, che, nei secoli, hanno prodotto, culturalmente, «il genio» isolato e, politicamente, demagoghi e populisti di successo, mai una «scuola di pensiero» organica, senza la quale il gattopardismo, il trasformismo, in definiva, la Reazione al cambiamento, diventano prassi. Lo Stato non è lo strumento a difesa dei diritti individuali del cittadino — come vuole il costituzionalismo liberale— ma, degradato a puro statalismo, pretende siano i cittadini a essere al suo servizio, secondo l'imperativo razionalista e totalitario della «volontà generale» nella quale si fondono e si annullano le autonomie e le singole libertà individuali.
«Corriere della Sera» del 30 maggio 2010

Quelle ragazze arrabbiate schiave della sigaretta

Giornata mondiale senza tabacco
di Donatella Barus *
Una su cinque fuma regolarmente, anche da sola, per stress o rabbia. L’Oms avverte: il marketing dei produttori di tabacco cerca «carne fresca»
MILANO – Fumano perché lo fanno gli amici uscendo da scuola, ma anche da sole, per stress e per rabbia. Sono le baby-fumatrici che paiono affezionarsi alla sigaretta come e più dei loro coetanei maschi e che, avverte l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), insieme alle loro madri sono «uno dei target principali dell’industria del tabacco, che necessita di reclutare nuovi consumatori, per rimpiazzare la quasi metà di quelli attuali che morirà prematuramente a causa di malattie correlate al fumo». E proprio a donne e mercato dei prodotti da fumo è dedicata l’edizione 2010 della Giornata mondiale senza tabacco del prossimo 31 maggio.

MARKETING «ROSA» - Attualmente nel mondo sono donne 20 fumatori su cento (200 milioni circa), ma in diversi Paesi il tabagismo femminile è in crescita (in Italia la prevalenza di fumatrici è triplicata dagli anni ’50 ad oggi, che si assesta intorno al 20 per cento). Inoltre, secondo il recente rapporto Oms « Women and health: today's evidence, tomorrow's agenda » le pubblicità di sigarette puntano sempre più alle ragazze, che anche in Italia rischiano di «abboccare» in massa.

LA SIGARETTA? UN’ABITUDINE PER UNA SU 5 - Se un ragazzo su tre afferma di fumare e uno su cinque si definisce un fumatore regolare, fra le ragazze proprio la regolarità sembra più diffusa (22,3 per cento) e aumenta con l’età passando dal 9,3 per cento dei 14enni fino al 33,3 per cento dei 18enni. Questo evidenzia una ricerca condotta dall’Istituto AstraRicerche sui ragazzi delle scuole superiori milanesi e promossa dalla Fondazione Veronesi e dall’Assessorato alla Salute del Comune di Milano. Proprio al capoluogo lombardo spetta il deludente primato di città con il più alto numero di giovani fumatrici tra i 15 e i 19 anni.

SI FUMA ANCHE PER RABBIA - Le sigarette fumate sono in media otto al giorno, soprattutto con gli amici al termine delle lezioni (77,2 per cento), ma anche da soli (52,2 per cento). Ma se il 68,4 per cento dei giovani afferma di avere iniziato per la compagnia, il 59,9 per cento indica anche lo stress e il 57,3 per cento la rabbia.

FUMATRICI, IDENTIKIT DIFFICILE - «Probabilmente le donne, adulte e ragazze, stanno entrando oggi in una fase di abitudine al fumo che gli uomini hanno toccato anni fa» ipotizza Laura Carrozzi, pneumologa dell'Ambulatorio per la Cessazione del Fumo dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana che, con il collega Francesco Pistelli e con la psichiatra Fiammetta Cosci, risponde alle domande degli utenti sul forum Stop al fumo. Ma esiste un identikit della dipendenza femminile dal tabacco? «Si sa ancora poco, si parla di una maggiore fragilità delle donne legata a caratteristiche genetiche e ormonali. Sono dati interessanti, ma mancano conferme – risponde Laura Carrozzi -. E non è che le donne smettano più facilmente degli uomini di fumare. Certamente, dal punto di vista sociale e psicologico, le donne hanno più responsabilità, si sentono un esempio per i figli, e per loro possono più facilmente pensare di abbandonare la sigaretta. Anche se resta un dato grave che il 10 per cento delle fumatrici in attesa di un bimbo non smette».

LA SIGARETTA SI PAGA, ECCOME - E quelle teenager con la sigaretta fra le dita alle 7.30 di mattina fuori del liceo? «Le ragazze, e gli adolescenti in genere, sono una tipologia di fumatori complessa. A loro va ricordato quello che mettono sul piatto della bilancia: si perde l’autonomia, dato che la dipendenza dal fumo di sigaretta è una schiavitù come quella da altre droghe, calano le prestazioni fisiche, si rovinano la pelle e i denti, si compromette anche la futura possibilità di procreare: tutte le cose meravigliose della loro età e degli anni a venire».
* Fondazione Veronesi
«Corriere della Sera» del 31 maggio 2010

30 maggio 2010

Adesso anche i russi sapranno dello sterminio (ma ci sono ancora segreti)

Verso la pacificazione delle memorie
di Giovanni Belardelli
Le carte I documenti, tra i quali la lettera di Berija a Stalin del 5 marzo 1940, furono consegnati ai polacchi nel 1992 da Eltsin
L'importanza della messa in rete dei documenti relativi alla responsabilità sovietica del massacro di Katyn non sta principalmente nel contenuto di ciò che viene diffuso. Quei documenti, infatti, sono già stati consegnati ai polacchi nel 1992 dall' allora presidente russo Eltsin; e dunque, ad esempio, la lettera «segretissima» di Berija a Stalin del 5 marzo 1940 ora messa in rete si poteva leggere dal 1998, in traduzione italiana, nel volume di uno storico recentemente scomparso, Victor Zaslavsky. L'importanza della decisione russa è soprattutto simbolica. Sta nella volontà di pacificazione delle opposte memorie russo-polacche che lascia trasparire, anche sull' onda della commozione per la tragedia aerea dello scorso 10 aprile. Già quest' anno del resto era accaduto, e si trattava della prima volta, che Putin partecipasse alla commemorazione del 70° anniversario del massacro. Naturalmente, non è per nulla indifferente che documenti noti sì, ma solo agli studiosi o a un numero ristretto di lettori, siano ora alla portata dell'enorme pubblico di Internet, soprattutto di milioni di russi. Se la decisione presa dal presidente Medvedev avesse anche, come mi pare possibile, una motivazione interna, se cioè fosse anche rivolta a favorire nell'opinione pubblica russa una maggiore consapevolezza di ciò che è stato il regime comunista, sarebbe questo un ulteriore motivo per valutare positivamente la messa in rete dei documenti. È da tempo infatti che una parte della popolazione russa guarda all' epoca di Stalin con un atteggiamento non negativo, spesso non esente da qualche nostalgia. Per molti russi Stalin è anzitutto il vincitore della guerra contro Hitler. Ebbene, proprio il massacro di Katyn obbliga a ricordare anche come il vincitore della «guerra antifascista» fosse stato per quasi due anni - dalla stipulazione del patto Ribbentrop-Molotov all'attacco tedesco all'Urss - il principale alleato del dittatore nazista. L'importanza del massacro di Katyn, la sua centralità nella storia di un secolo che ha visto stragi e genocidi ben superiori come numero di vittime rispetto agli oltre 25 mila polacchi fatti uccidere da Stalin, sta appunto in questo: quel massacro derivava direttamente ed era reso possibile dall' alleanza tra i due dittatori dell' agosto 1939. Non solo: nella spietata modalità di attuazione, nei fini di dominio che aveva (sterminare i componenti dell' élite polacca per avere mano libera nella metà del loro Paese che nella spartizione era toccata a Stalin), l'eccidio di Katyn rivelava quell'affinità tra le due dittature che una parte della cultura occidentale ha faticato per anni a riconoscere come tale. Se la vicenda di Katyn invita a guardare in modo diverso al complesso della Seconda guerra mondiale, getta anche un'ombra sul processo di Norimberga. Come si sa, in quel processo gli assassini di Katyn non sedevano tra gli imputati ma avevano i loro rappresentanti tra i membri della corte giudicante. Stalin era così consapevole delle implicazioni legate alla responsabilità del massacro che cercò in ogni modo, benché senza successo, di far accreditare la strage come nazista dal tribunale di Norimberga, arrivando al punto di far uccidere uno dei giudici russi che non voleva avallare la sua manovra. Ciò che dà un particolare rilievo al massacro di Katyn è, infine, proprio l'impegno che i vertici sovietici misero, durante e dopo l'epoca di Stalin, nel compiere un'opera di falsificazione che forse non ha l'eguale nella storia contemporanea. Un'opera di falsificazione in cui venne inizialmente coinvolto lo stesso Gorbaciov: benché fosse l'inventore della glasnost (in russo, «trasparenza»), sul finire degli anni '80 dichiarò che i documenti su Katyn negli archivi sovietici non si riusciva proprio a trovarli. Scomparsa l'Urss, è potuto accadere che ancora nel 2004 la procura militare della Federazione russa (il cui presidente era Vladimir Putin) ponesse il segreto di Stato su una parte dei documenti relativi al massacro di Katyn. Gli stessi che anche oggi continuano a restare segreti. Questo riduce forse l'importanza della decisione presa dal presidente Medvedev, ma non la annulla affatto.

______________________
La strage: nell'aprile 1940 oltre 22 mila ufficiali polacchi sono massacrati da agenti dell'Nkvd, la polizia segreta sovietica, a Katyn, Mednoye, Kharkov, nei pressi di Kiev e in Bielorussia. Mosca ha sempre accusato del crimine i nazisti, finché Mikhail Gorbaciov nel 1990 ha riconosciuto le responsabilità sovietiche 2004.
«Corriere della Sera» del 29 aprile 2010

Se la severità rischia di far tornare il 6 politico

Maturità
di Giovanni Belardelli
La nuova norma che subordina l'ammissione all'esame di maturità al conseguimento almeno del sei in ogni materia rappresenta quel che si dice una svolta? Va davvero - come alcuni auspicano e altri invece temono - nel senso di una maggiore severità della scuola, e anche di una sua effettiva capacità di riconoscere e promuovere il merito degli studenti? Va davvero - come alcuni auspicano ed altri invece temono - nel senso di una maggiore severità della scuola, di una sua effettiva capacità di riconoscere e promuovere il merito? A parte ciò che riguarda i privatisti (che fino all'anno scorso potevano essere ammessi alla maturità senza bisogno di un giudizio di ammissione da parte dei consigli di classe della scuola dove intendevano sostenere l'esame), per tutti gli altri studenti e studentesse non credo che le cose cambieranno in modo radicale. È sostanzialmente impossibile, infatti, che per un solo cinque non si venga ammessi, come pure la legge che è ora applicata per la prima volta richiederebbe. Ed è difficile che possa essere escluso dall'esame di Stato chi ha magari due insufficienze, ma non su materie fondamentali. È probabile insomma che gli studenti con insufficienze limitate e non gravi verranno ammessi all'esame finale da una valutazione d'insieme, e non soltanto aritmetica, del consiglio di classe, come avveniva prima. Semmai adesso la nuova norma indurrà in molti casi i docenti ad attribuire una sufficienza per opportunità, una sorta di sei politico. E questa forse non è una novità positiva. In ogni caso, mi pare difficile che sia da qui, dalle norme per l'ammissione alla maturità, che può passare davvero l'introduzione di un maggior riconoscimento del merito in una scuola come la nostra, che ha da tempo seri problemi ad applicare criteri omogenei di valutazione. Una difficoltà che è testimoniata ogni anno dalle grandissime disparità nei voti conseguiti nelle diverse aree della penisola e tra i diversi istituti di una stessa città (con concentrazioni di 100 e lode che a volte non possono che apparire sospette). E questo rimanda alla cultura di una parte degli insegnanti (e dietro di essi alla cultura del Paese in cui vivono), al fatto per esempio che non sono rari i casi di professori che durante la maturità arrivano al punto di fornire essi stessi ai loro alunni il proverbiale e italianissimo «aiutino».
«Corriere della Sera» del 29 maggio 2010

Basta con Sputtanopoli, inchieste-portineria, giornalismi-origliatori

di Giuliano Ferrara
I grandi giornali di informazione conducono la battaglia contro la legge di regolamentazione delle intercettazioni, nel contesto di una generale chiamata alle armi in difesa della libertà di stampa, con questo slogan, che campeggia in particolare nelle pagine di Repubblica in testa a ogni pezzo di giudiziaria & scandalistica: “Non avremmo potuto scrivere questo articolo se fosse in vigore la legge bavaglio”. E chi vi dice, cari colleghi, che l’eliminazione di quegli articoli sia un danno alla libertà e al giornalismo libero? La cosa, infatti, va dimostrata. Non basta dire: Berlusconi, intercettato e messo in grave imbarazzo mille volte, si vendica e fa approvare una legge che ci impedisce di colpirlo in prima pagina con gli strumenti delle indagini preliminari. Non basta aggiungere: anche Fassino, D’Alema e molti altri esponenti della nomenclatura politica di sinistra sono stati travolti da scandalismi derivati dalle intercettazioni, e per questa ragione non fanno abbastanza per impedire l’approvazione della legge bavaglio che impedisce di origliare troppo facilmente e di pubblicare baldanzosamente i risultati delle spiate digitali, anche i più estranei all’interesse pubblico delle notizie. E’ encomiabile che ormai tutti siano scesi o stiano scendendo in campo, da Carlo De Benedetti al direttore di Repubblica Ezio Mauro; è interessante che l’establishment editoriale si dia da fare allestendo tribune, e magari potenziali patiboli, e trasformando in tricoteuses la gran massa dei lettori dei suoi giornali. Ma ci vorrebbe qualche argomento solido. L’unico che vedo è che, per quanto auspicabile l’eliminazione di quel giornalismo tarato, sarebbe meglio non avvenisse per legge dello stato.
Sarebbe gradita una risposta, per esempio, a un semplice quesito. Chiunque legga una decina di giornali quotidiani o di settimanali stranieri, in lingua francese, tedesca e inglese, non è mai, si dica mai, mai nella vita, incappato nelle lenzuolate delle intercettazioni di cui si parla, che sono l’oggetto della contesa, che sono il succo dei pezzi e delle paginate pubblicate in italiano dai nostri giornali, e poi sceneggiate con doppiatori, nel modo più suggestivo e drammatico possibile, nelle trasmissioni televisive più sporcificanti del mondo. Mai. E perché? Perché altrove non si intercetta? Perché altrove non si delinque o non si indaga? No. Semplicemente per questo: perché altrove, anche dove esistono mafie e criminalità organizzate, anche dove accadono fenomeni di lobbying e di corruzione politica, non si usa pubblicare lenzuolate di intercettazioni come materiale per l’intorbidimento delle acque, per la grande sputtanopoli che tutto confonde in un generico e demagogico disprezzo per la vita privata delle persone pubbliche.
Un giorno Scalfari, Mauro, ma perfino i pistaroli e i cronisti in buona fede e i talk show host, si diranno allo specchio, presi da improvviso pentimento: ma abbiamo combattuto una battaglia postborbonica, ci siamo messi in girotondo per obiettivi pieni di malizia, indegni di una società civile adulta, credevamo di lottare per la verità e invece lottavamo per la più malsana delle curiosità, per il pettegolezzo calunnioso, per l’origliamento di stato, roba da piccola inquisizione spagnola.
Io sono scettico sul destino della legge che regola e limita le intercettazioni e il diritto di pubblicare testi appartenenti alla privacy personale dei cittadini, anche di quelli indagati. Non c’è in Italia una ovvia caratura culturale di rispetto dei diritti della persona, sbattiamo la gente in galera per farla confessare, abbiamo le prigioni piene di piccola gente in attesa di giudizio e ne siamo fieri, abbiamo liquidato in modo truffaldino una classe dirigente che aveva fatto la Costituzione e la Repubblica, e ora ci ritroviamo con il solito andazzo corruttivo e una pletora di magistrati politicizzati con la fregola del potere. Siamo un paese impazzito. E non è lontano il giorno in cui questa legge contro le inchieste-portineria e il giornalismo-origliatore sarà stravolta al punto da consentire che tutto prosegua come prima. Ma se avessi fiducia nella possibilità di ottenere che i giornali non pubblichino più quelle trascrizioni orrende, che le notizie di reato siano configurate, salvo casi eccezionali come il solito esemplare Watergate, come notizie serie e non come aggressioni e character assassination, bè, allora scenderei in piazza, firmerei appelli, farei la buona battaglia: ma dall’altra parte, cari colleghi di Repubblica.
«Il Foglio» del 24 maggio 2010

La prima crisi di Facebook

Domani è un giorno chiave per capire quale sarà l’entità del primo vero sciopero che colpisce un sito social
di Sergio Luciano
Ecco perché il ricchissimo mercato della privacy ha messo nei guai il social network più famoso del mondo
Se uno compra un rottweiler, lo fa per dare compagnia ai bambini in casa o per metterlo in giardino a ringhiare ai passanti? E se Facebook ha ingaggiato due anni fa come direttore generale Sheryl Kara Sandberg, cioè l’ex direttore commerciale che ha arricchito Google, l’ha fatto per fare soldi o per far rintracciare più ex compagni di scuola ai propri iscritti?
Il punto è questo: la battaglia che Facebook sta combattendo in questi giorni, in tutto il mondo, contro l’accusa di violare la privacy dei suoi iscritti è una battaglia per la sopravvivenza. Cioè: sul piano commerciale, il vero “atout” di Facebook rispetto a Google è quello di vendere agli inserzionisti i gusti della propria audience. Dunque, “i fatti loro”. E nei ragionamenti un po’ schematici di Mark Zuckerberg, il ventiseienne lentigginoso che ha fondato il social network più celebre e controverso del mondo, chi scrive nel suo “profilo” pubblico su Facebook di essere single non avrebbe poi ragione di dolersi del fatto che sulla sua bacheca compaiano, a ondate, banner su agenzie matrimoniali e su escort che vogliono fare amicizia.
Per Zuckerberg, con i social network il concetto di privacy è “out”. Un po’ come il “comune senso del pudore”, mutevole nello spazio e nel tempo: “Le regole sociali cambiano nel tempo”, sentenziava solo sei mesi fa. “Quando ho iniziato a pensare a Facebook nella mia camera di Harvard, in tanti si chiedevano ‘perché mai dovrei mettere informazioni on line?’. Poi è iniziata l’esplosione dei blog. Le abitudini sociali col tempo mutano”.
Quello che invece secondo lui è bene che non cambi è il tempo giusto per quotarsi in Borsa: il 2011. Sempre che non gli rompano il giocattolo. E cioè che il 31 maggio il “Quitfacebookday” fallisca. Letteralmente, “il giorno della diaspora” da Facebook è una iniziativa omeopatica, cioè una trovata squisitamente internettiana contro un costume tipicamente internettiano: basta con Facebook, che tradisce la nostra privacy, trasferiamoci tutti su Twitter o su altri “social”. Nella home page di “www.quitfacebookday.com” all’alba del 27 maggio campeggiava un modestissimo totale di 23 mila utenti circa che avevano promesso di uscire da Facebook. Niente, rispetto ai 400 e passa milioni di utenti iscritti oggi al network.
Ma ciò che spaventa “Zuck” è, in realtà, che le polemiche sciolgano il collante del successo del suo network, quell’entusiasmo un po’ leggerino per i passatempi gratuiti, lo stesso per il quale tre anni fa pareva che “Second life” ci avrebbe cambiato la vita. Perché ai “naviganti”, Fb o Second Life la vita in realtà non la cambiano (l’ha cambiata Internet nel suo insieme, ma questo è un altro discorso), mentre ai pubblicitari la miniera di dati privati utilizzabili grazie a Facebook la vita gliela cambiano eccome. C’è un’agenzia di pubblicità australiana, la uSocial, che compra amici in blocco: 177 dollari per mille amici, purché ben profilati. E non è la sola: altre ne stanno nascendo in tutto il mondo come funghi. E per incrementare esponenzialmente il suo business, Fb sta lanciando le “inserzioni fai-da-te”: l’utilizzatore confeziona e pubblica il banner con la sua “reclame” profilata per colpire solo il target giusto direttamente on line, e paga solo per i contatti che realmente ottiene. Una pacchia. Perché, come si legge in “Facebook-business, promuovi il tuo brand su Facebook”, un manuale appena scritto da Daniele Ghidoli, “Avere molti amici su Facebook equivale ad avere un gruppo piuttosto omogeneo di persone presso cui promuovere qualsiasi prodotto”.
Già: il mito di qualunque pubblicitario. Mai più “sparare nel mucchio” con gli spot. Cominciamo a pubblicizzare francobolli solo ai filatelici e verdure solo ai vegetariani. Abbassiamo il “costo del contatto” e massimizziamo il ritorno commerciale. Trasformiamo la pubblicità (“lo dico a tutti, qualcuno se lo ricorderà”) in direct-marketing (“lo dico a chi lo vuol sentire”). Con il non trascurabile effetto collaterale di ammazzare la pubblicità sui media tradizionali, che diventa improvvisamente troppo cara e dispersiva. “Andiamoci piano – ammonisce però uno che di pubblicità non solo su Internet s’intende, Paolo Dal Pino, già inventore e capo di Kataweb – Il bello di Internet è la libertà, se m’accorgo di essere bersagliato da messaggi pubblicitari non richiesti, m’arrabbio e cambio aria”.
Zuck, il 24 maggio, ha fatto “mea culpa”: “Aggiungeremo strumenti per il controllo delle privacy che saranno molto più facili da usare”, ha promesso: perché in teoria un po’ di filtri esistono già, ma per applicarli ci vuole la laurea. Zuckerberg manterrà l’impegno? Molto dipenderà, come sempre, dal contesto: per esempio da quel che farà il vero “moloch” del Web, il colosso mondiale Google, che – a sua volta spaventato dal boom di Facebook – stava iniziando a emularlo, trasformando insensibilmente il suo servizio di posta elettronica, Gmail, in un social network: Google Buzz. I Garanti per la privacy di dieci paesi se ne sono accorti ed hanno scritto a Mountain View contestandogli l’appropriazione illecita di dati; idem anche contro Street View, le cui automobili rilevatrici, che girando per le vie del mondo con le loro telecamere sul tetto per creare quel geniale stradario fotografico, hanno captato anche i dati delle reti wi-fi delle case e degli uffici che si affacciano su quelle strade schedandoli per fini commerciali… E anche Google, come Zuckerberg, ha promesso di emendarsi. Perché, insomma, la rete è sempre più Grande Sorella, con l’aggravante del sorriso. Ma è anche una Sorella indispensabile. Che finora ha regolato da sola i suoi eccessi.
In Italia Francesco Pizzetti, il Garante della privacy, ha prodotto e pubblicato nella sua home page un opuscolo dal titolo inequivocabile: “Social network: attenzione agli effetti collaterali”. Con dentro, tra molti consigli sensati, l’analisi-chiave: “I social network si finanziano generalmente vendendo pubblicità mirate. Il valore di queste imprese è strettamente legato anche alla loro capacità di analizzare in dettaglio il profilo, le abitudini e gli interessi dei propri utenti, per poi rivendere le informazioni a chi ne ha bisogno”. Sante parole, poco “scaricate” però dai naviganti del sito, peraltro poco frequentato. In rete intanto si moltiplicano i “vademecum” su come “quittarsi” da Facebook. “Difficile come smettere di fumare”, ammoniscono quelli di “Quitfacebookday.com”. Che sottolineano quanto sia importante non solo disattivare il proprio account, ma anche cancellarlo. Pur consapevoli che ormai le informazioni immesse una volta in rete continueranno a circolare fin quasi all’infinito. Seppellite, semmai, dal tempo e dagli strati di informazioni successive. Ma incancellabili!
Ma i più saggi, tra i pionieri del Web, che ne ricordano tutte le ravvicinate e sempre impreviste evoluzioni già vissute, sono più rilassati. Umair Haque, ad esempio, direttore del laboratorio di strategia e innovazione Havas Media Lab, già parla – in un blog pubbicato dal sito della Harward Business Review – di “bolla dei social media”. Inflazione di “finte amicizie”, nessuna amicizia. Bassa qualità del dialogo, alta percentuale d’abbandono. Un po’ come accadde con Second Life, appunto. Un fenomeno effimero, eliminato dal sistema immunitario della rete, che periodicamente si attiva sulle novità che invecchiano. Più che nell’imminente “Quitday”, Mark Zuckerberg la sua partita per il trionfo di Facebook dovrà giocarsela proprio contro questi anticorpi.
«Il Foglio» del 30 maggio 2010

L’osservatorio che libererà le Pupe da loro stesse, e imporrà a tutte il golf a collo alto

La Grande Sorella
di Annalena Benini
Il Parlamento ha approvato l’emendamento per l’istituzione di un osservatorio sulla rappresentazione femminile nel servizio pubblico radiotelevisivo, “finalizzato anche al superamento di stucchevoli stereotipi che ormai ingolfano i media italiani”, ha scritto Giovanna Melandri, deputato del Pd in commissione di Vigilanza. Un posto dove si controllano gli spacchi delle gonne e i balletti Rai delle ragazze, una stanza dove giorno e notte osservatori monitorano le labbra a canotto, determinano la quantità massima di tette esponibili e la grandezza minima dei costumi indossati dalle concorrenti dell’Isola dei famosi.
Secondo Giovanna Melandri “è iniziata una rivoluzione”, una battaglia di civiltà e di libertà, in nome di una rinascita culturale ed educativa. Le intenzioni sono salvifiche: liberare le donne dall’inzoccolimento estetico, rispondere agli appelli delle filosofe contro la mercificazione del corpo femminile, la riduzione a oggetto desiderabile, la discriminazione ideale fra pupe e secchioni. A parte che nessuna Alba Parietti, per citare il capo carismatico (il più pudico) del genere televisivo protagonista dei documentari sul corpo delle donne, vorrebbe essere salvata, anzi sarebbe pronta a uccidere appena le venisse spiegato che l’evanescenza di quelle mutande arresta il cammino della dignità femminile. Ma un osservatorio cosa fa, osserva e basta e redige schede con bocciature morali o infligge punizioni, multe, maglioni a collo alto?
Come nel 1959, quando Jula de Palma cantò a Sanremo: “Tua, tra le braccia tue solamente tua, così tua, finalmente tua”, e la censurarono, dissero che quel vestito sembrava una camicia da notte, che lei cantava come se fosse in camera da letto e che tutto l’insieme era scandaloso. O come quando Ettore Bernabei levò le gonne alle gemelle Kessler ma le coprì con calze spesse otto centimetri per non turbare troppo i mariti a casa. Molta strada è stata fatta da allora, in nome della libertà, tanto che adesso Michela Marzano e le altre pensatrici incitano alla rivolta reazionaria. L’osservatorio dovrebbe vietare i film di Totò, avanspettacolo puro, dovrebbe chiedere a Monica Setta di coprirsi prima di andare in onda, dovrebbe infilarsi nell’opinionismo e nei décolleté della domenica pomeriggio, dovrebbe proibire il botulino oltre certe drammatiche soglie che omologano le donne e le rendono indistinguibili le une dalle altre, dovrebbe entrare anche nel salotto di Bruno Vespa e chiedere alle signore di sottrarsi a “certi stucchevoli stereotipi”, tipo parlare di silicone.
Dovrebbe insomma impedire alle donne di fare come vogliono, anche di copiare dalle incredibili Pupe della televisione commerciale (a una Pupa seminuda è stata mostrata una foto di Massimo D’Alema: “Chi è?”, “Veltroni”, e una di Antonio Di Pietro: “Chi è?”, “Ha fatto i Cesaroni?”`, “Come si chiama il maschio della pecora?”, “Pecorino!”). Un osservatorio così potrebbe ottenere grandi risultati e ottime censure, ma tutte le Pupe del paese sono già pronte ad appellarsi al primo emendamento.
«Il Foglio» del 30 maggio 2010