30 maggio 2010

La prima crisi di Facebook

Domani è un giorno chiave per capire quale sarà l’entità del primo vero sciopero che colpisce un sito social
di Sergio Luciano
Ecco perché il ricchissimo mercato della privacy ha messo nei guai il social network più famoso del mondo
Se uno compra un rottweiler, lo fa per dare compagnia ai bambini in casa o per metterlo in giardino a ringhiare ai passanti? E se Facebook ha ingaggiato due anni fa come direttore generale Sheryl Kara Sandberg, cioè l’ex direttore commerciale che ha arricchito Google, l’ha fatto per fare soldi o per far rintracciare più ex compagni di scuola ai propri iscritti?
Il punto è questo: la battaglia che Facebook sta combattendo in questi giorni, in tutto il mondo, contro l’accusa di violare la privacy dei suoi iscritti è una battaglia per la sopravvivenza. Cioè: sul piano commerciale, il vero “atout” di Facebook rispetto a Google è quello di vendere agli inserzionisti i gusti della propria audience. Dunque, “i fatti loro”. E nei ragionamenti un po’ schematici di Mark Zuckerberg, il ventiseienne lentigginoso che ha fondato il social network più celebre e controverso del mondo, chi scrive nel suo “profilo” pubblico su Facebook di essere single non avrebbe poi ragione di dolersi del fatto che sulla sua bacheca compaiano, a ondate, banner su agenzie matrimoniali e su escort che vogliono fare amicizia.
Per Zuckerberg, con i social network il concetto di privacy è “out”. Un po’ come il “comune senso del pudore”, mutevole nello spazio e nel tempo: “Le regole sociali cambiano nel tempo”, sentenziava solo sei mesi fa. “Quando ho iniziato a pensare a Facebook nella mia camera di Harvard, in tanti si chiedevano ‘perché mai dovrei mettere informazioni on line?’. Poi è iniziata l’esplosione dei blog. Le abitudini sociali col tempo mutano”.
Quello che invece secondo lui è bene che non cambi è il tempo giusto per quotarsi in Borsa: il 2011. Sempre che non gli rompano il giocattolo. E cioè che il 31 maggio il “Quitfacebookday” fallisca. Letteralmente, “il giorno della diaspora” da Facebook è una iniziativa omeopatica, cioè una trovata squisitamente internettiana contro un costume tipicamente internettiano: basta con Facebook, che tradisce la nostra privacy, trasferiamoci tutti su Twitter o su altri “social”. Nella home page di “www.quitfacebookday.com” all’alba del 27 maggio campeggiava un modestissimo totale di 23 mila utenti circa che avevano promesso di uscire da Facebook. Niente, rispetto ai 400 e passa milioni di utenti iscritti oggi al network.
Ma ciò che spaventa “Zuck” è, in realtà, che le polemiche sciolgano il collante del successo del suo network, quell’entusiasmo un po’ leggerino per i passatempi gratuiti, lo stesso per il quale tre anni fa pareva che “Second life” ci avrebbe cambiato la vita. Perché ai “naviganti”, Fb o Second Life la vita in realtà non la cambiano (l’ha cambiata Internet nel suo insieme, ma questo è un altro discorso), mentre ai pubblicitari la miniera di dati privati utilizzabili grazie a Facebook la vita gliela cambiano eccome. C’è un’agenzia di pubblicità australiana, la uSocial, che compra amici in blocco: 177 dollari per mille amici, purché ben profilati. E non è la sola: altre ne stanno nascendo in tutto il mondo come funghi. E per incrementare esponenzialmente il suo business, Fb sta lanciando le “inserzioni fai-da-te”: l’utilizzatore confeziona e pubblica il banner con la sua “reclame” profilata per colpire solo il target giusto direttamente on line, e paga solo per i contatti che realmente ottiene. Una pacchia. Perché, come si legge in “Facebook-business, promuovi il tuo brand su Facebook”, un manuale appena scritto da Daniele Ghidoli, “Avere molti amici su Facebook equivale ad avere un gruppo piuttosto omogeneo di persone presso cui promuovere qualsiasi prodotto”.
Già: il mito di qualunque pubblicitario. Mai più “sparare nel mucchio” con gli spot. Cominciamo a pubblicizzare francobolli solo ai filatelici e verdure solo ai vegetariani. Abbassiamo il “costo del contatto” e massimizziamo il ritorno commerciale. Trasformiamo la pubblicità (“lo dico a tutti, qualcuno se lo ricorderà”) in direct-marketing (“lo dico a chi lo vuol sentire”). Con il non trascurabile effetto collaterale di ammazzare la pubblicità sui media tradizionali, che diventa improvvisamente troppo cara e dispersiva. “Andiamoci piano – ammonisce però uno che di pubblicità non solo su Internet s’intende, Paolo Dal Pino, già inventore e capo di Kataweb – Il bello di Internet è la libertà, se m’accorgo di essere bersagliato da messaggi pubblicitari non richiesti, m’arrabbio e cambio aria”.
Zuck, il 24 maggio, ha fatto “mea culpa”: “Aggiungeremo strumenti per il controllo delle privacy che saranno molto più facili da usare”, ha promesso: perché in teoria un po’ di filtri esistono già, ma per applicarli ci vuole la laurea. Zuckerberg manterrà l’impegno? Molto dipenderà, come sempre, dal contesto: per esempio da quel che farà il vero “moloch” del Web, il colosso mondiale Google, che – a sua volta spaventato dal boom di Facebook – stava iniziando a emularlo, trasformando insensibilmente il suo servizio di posta elettronica, Gmail, in un social network: Google Buzz. I Garanti per la privacy di dieci paesi se ne sono accorti ed hanno scritto a Mountain View contestandogli l’appropriazione illecita di dati; idem anche contro Street View, le cui automobili rilevatrici, che girando per le vie del mondo con le loro telecamere sul tetto per creare quel geniale stradario fotografico, hanno captato anche i dati delle reti wi-fi delle case e degli uffici che si affacciano su quelle strade schedandoli per fini commerciali… E anche Google, come Zuckerberg, ha promesso di emendarsi. Perché, insomma, la rete è sempre più Grande Sorella, con l’aggravante del sorriso. Ma è anche una Sorella indispensabile. Che finora ha regolato da sola i suoi eccessi.
In Italia Francesco Pizzetti, il Garante della privacy, ha prodotto e pubblicato nella sua home page un opuscolo dal titolo inequivocabile: “Social network: attenzione agli effetti collaterali”. Con dentro, tra molti consigli sensati, l’analisi-chiave: “I social network si finanziano generalmente vendendo pubblicità mirate. Il valore di queste imprese è strettamente legato anche alla loro capacità di analizzare in dettaglio il profilo, le abitudini e gli interessi dei propri utenti, per poi rivendere le informazioni a chi ne ha bisogno”. Sante parole, poco “scaricate” però dai naviganti del sito, peraltro poco frequentato. In rete intanto si moltiplicano i “vademecum” su come “quittarsi” da Facebook. “Difficile come smettere di fumare”, ammoniscono quelli di “Quitfacebookday.com”. Che sottolineano quanto sia importante non solo disattivare il proprio account, ma anche cancellarlo. Pur consapevoli che ormai le informazioni immesse una volta in rete continueranno a circolare fin quasi all’infinito. Seppellite, semmai, dal tempo e dagli strati di informazioni successive. Ma incancellabili!
Ma i più saggi, tra i pionieri del Web, che ne ricordano tutte le ravvicinate e sempre impreviste evoluzioni già vissute, sono più rilassati. Umair Haque, ad esempio, direttore del laboratorio di strategia e innovazione Havas Media Lab, già parla – in un blog pubbicato dal sito della Harward Business Review – di “bolla dei social media”. Inflazione di “finte amicizie”, nessuna amicizia. Bassa qualità del dialogo, alta percentuale d’abbandono. Un po’ come accadde con Second Life, appunto. Un fenomeno effimero, eliminato dal sistema immunitario della rete, che periodicamente si attiva sulle novità che invecchiano. Più che nell’imminente “Quitday”, Mark Zuckerberg la sua partita per il trionfo di Facebook dovrà giocarsela proprio contro questi anticorpi.
«Il Foglio» del 30 maggio 2010

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