29 maggio 2010

L’eugenetica scelta del sesso in vitro

Per il bioeticista Wilkinson “l’Inghilterra non è l’India”. Ma manca poco
di Nicoletta Tiliacos
Il bioeticista inglese Stephen Wilkinson, docente all’Università di Keele, ha scritto ieri nel suo “punto di vista” sul sito della Bbc che è arrivata l’ora di consentire alle coppie britanniche di scegliere il sesso dei nascituri attraverso la fecondazione in vitro per ragioni “sociali”. La legge che consente quella scelta solo in caso di malattie genetiche in grado di colpire maggiormente o esclusivamente uno dei due sessi, secondo Wilkinson è del tutto insufficiente a dare risposta a chi vuole legittimamente costruire il proprio gruppo familiare in modo meno sbilanciato e casuale. Mai più genitori disperati alla notizia dell’arrivo della terza femmina. O magari del terzo maschio, perché Wilkinson è fiducioso nella capacità degli inglesi di distribuire equamente i loro desideri genitoriali (non come quegli esagerati degli indiani e dei cinesi, che fanno fuori solo le femmine).
Dopo l’amena sortita dei due veterinari australiani della Murdoch University di Perth, che una settimana fa hanno preconizzato, nel giro di una decina d’anni, il ricorso esclusivo alla fecondazione artificiale per far nascere bambini, mentre una sessualità definitivamente sterile sarà per sempre separata dal problema della riproduzione, la rivendicazione del professor Wilkinson segna un ulteriore passo nell’inveramento del Brave New World di Aldous Huxley, utopia totalitaria ed eugenetica che ha bisogno, prima di tutto, di scardinare il modo di venire al mondo.
Josephine Quintavalle, fondatrice del Comment on Reproductive Ethics, dice al Foglio che “Wilkinson non è nuovo a uscite di questo genere. Il suo gruppo di lavoro è noto per il radicalismo e per la volontà di spostare verso confini sempre più estremi il dibattito bioetico. Ma bisogna anche dire che questi argomenti stanno prendendo piede, a partire da un fatto: se nella fecondazione artificiale si producono molti più embrioni di quelli destinati all’impianto, e se quegli embrioni fuori dall’utero appaiono come ‘cose’, perché non approfittarne anche per scegliere un maschio o una femmina? Un ragionamento terribile, perché conferma la riduzione a prodotto – di cui scegliere le caratteristiche, per esempio il sesso – del figlio”. Wilkinson se la cava con l’obiezione che il desiderio di avere un figlio di un certo sesso è antico quanto il mondo. Un tempo si usavano pozioni o scongiuri per ottenere l’ambito maschio, oggi la tecnica ci mette a disposizione l’analisi preimpianto, così infallibile e così pratica, o la selezione dei gameti. E poi, scrive, se “il divieto di selezione del sesso può essere giustificato in nazioni come Cina e India, dove la predominanza della preferenza per il maschio ha già portato a una forte penuria di femmine”, come dubitare che, nella civilizzata Europa occidentale, “il numero dei genitori che preferiscono i maschi è più o meno uguale al numero di coloro che preferiscono le femmine”? Nel 2002, e sembra già un secolo fa, l’allora presidente della Hfea (autorità britannica per la fecondazione umana e l’embriologia), la laica e liberale Mary Warnock, scriveva che “permettere ai genitori di stabilire che i figli siano di un certo tipo sarebbe un disastro”.
Otto anni dopo, le obiezioni di Wilkinson rovesciano senza complimenti la questione: i figli non sono “doni”, ha detto, comunque non più di altre cose positive della vita. E se non ci viene in mente di condannare “chi cerca di plasmare una carriera, o una casa, o un partner”, perché giudicare chi vuole un bambino a propria misura, visto che si può? “Un ragionamento assurdo – dice ancora Josephine Quintavalle – che fa sempre più della Gran Bretagna il luogo dell’arroganza bioetica: noi siamo quelli bravi a regolamentare le cose, si dice, ma la selezione sociale del sesso rimane un arbitrio”.
«Il Foglio» del 29 maggio 2010

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