21 maggio 2010

Ritorno ai campi

La domenica? Ora si zappa Un milione di agricoltori per hobby
di Antonio Giorgi
Vangare e seminare in proprio costa fatica e tempo da investire ma sempre più italiani si dedicano alle attività agricole per avere ortaggi e frutta fatti crescere con le proprie mani e davvero a chilometri zero E c’è chi non disdegna l’allevamento di animali come polli, conigli e maiali
Nel 1979 per i tipi di Mondadori com­parve un libro che ebbe un qualche successo. Si intitolava Robinson ’80. Manuale per una probabile salvezza e consentiva al suo autore – il giornalista e divulgatore fiorentino Francesco Casatello – di proporre la strategia del ritorno alla ter­ra, cioè all’agricoltura, come occasione «per reimpiegare utilmente il patrimonio di co­noscenze e di valori che la civiltà cittadina ci ha dato». Trent’anni dopo, complice da un lato l’insopportabilità della vita nelle metropoli e dall’altra la crisi economica che obbliga a ripensare i valori e i modi dell’e­sistenza quotidiana, il ritorno (parziale) al­la campagna coinvolge almeno un milione di italiani che in precedenza avevano fatto scelte opposte: l’abbandono dei campi, l’ur­banizzazione, il rifiuto di sporcarsi le ma­ni, di sudare, di chinare la schiena verso la terra che per sua natura 'è bassa'.
Sempre più italiani si scoprono così agri­coltori per hobby, agricoltori della dome­nica o del weekend . Li chiamano anche hobby farmers, ma la musica è sempre la stessa: impiegati, professionisti, operai, di­rigenti, autonomi, pensionati si mettono a coltivare un pezzetto di terreno. Un po’ per pura e semplice passione, un po’ per di­strarsi, ritemprarsi e fare esercizio fisico, un po’ (anzi, fondamentalmente) per ottene­re prodotti sani e davvero a chilometro ze­ro da destinare all’autoconsumo familiare, motivazione prevalente due volte su tre.
Intendiamoci: qui non stiamo parlando della massaia che coltiva qualche pianta di pomodoro o un po’ di prezzemolo in una vaschetta sul balcone, e nemmeno della realtà dei piccoli orticelli domestici che or­mai spuntano come funghi. Parliamo di a­gricoltura vera anche se praticata su terre­ni di limitata estensione, compresa in ge­nere tra l’ettaro e l’ettaro e mezzo, cioè die­cimila – quindicimila metri quadri. Un’a­gricoltura comunque ben distinta da quel­la pur sempre professionale effettuata da soggetti che hanno un’altra attività preva­lente e dedicano ai campi meno del 50% del proprio impegno lavorativo, condizio­ne che in Italia riguarda il 70% dei condut­tori.
Un recente rapporto di Nomisma eviden­zia la vastità del fenomeno degli hobby farmers, agricoltori amatoriali che nell’iden­tikit emerso dalla ricerca si caratterizzano per la disponibilità di un piccolo terreno da mettere a frutto nel tempo libero senza fi­nalità speculative o commerciali. Molti il terreno lo hanno ricevuto in eredità (39,4% dei casi), altri lo hanno acquistato (36%), i rimanenti ne dispongono a titolo di affida­mento o di locazione. Se a livello interna­zionale la tendenza a questa tipologia di ri­torno alla terra è in crescita, a livello italia­no – sottolineano gli autori della ricerca – essa rappresenta «una realtà consolidata», non quantificabile con esattezza in quan­to estranea alla rilevazione censuaria. Par­lare di un milione o un milione e 200mila soggetti coinvolti significa pertanto pro­porre solo delle stime, mentre la crisi eco­nomica che porta a riscoprire la conve­nienza di determinati generi alimentari prodotti in proprio non potrà che incenti­vare la diffusione del fenomeno.
Cosa coltivano questi hobbisti? Ortaggi, in quasi il 90% dei casi. Frutta, nel 65%. Tre su dieci si dedicano anche alle vite, altrettan­ti all’ulivo. Quasi un metà di loro alleva pol­li o conigli, qualcuno il maiale. Interessan­te è poi notare che nella stragrande mag­gioranza (7 su 10) si professano consape­voli di svolgere un’azione a tutela dell’am­biente e del territorio, con ricadute positi­ve per chi fa vita di città. La motivazione e­conomica pura (la voglia di lucro, insom­ma) sembra essere del tutto assente. Non si coltiva per vendere, anche se nulla vieta di regalare il surplus agli amici o ai colleghi d’ufficio. Si vanga e si zappa, si semina e si raccoglie per l’autoconsumo familiare (61,9%), per stare all’aria aperta (61%), per risparmiare (24,9%).
Il quadro complessivo di questa agricoltu­ra della domenica, sempre più gratifican­te, sempre più diffusa e in espansione an­che qualitativa, amica dell’ambiente, pro­tesa alla salvaguardia di certe colture di nic­chia o a rischio di estinzione, fa da contral­tare alla condizione critica in cui versa nel nostro Paese l’agricoltura professionale af­flitta da mali endemici come la bassa pro­duttività o la dimensione media delle im­prese, 7,6 ettari contro i 54 del Regno Uni­to, i 52 della Francia, i 46 della Germania, i 24 della Spagna. Certo, nessun Paese euro­peo si è avvicinato alle estensioni ipotizza­te dal piano Mansholt del 1968 (Sicco Man­sholt, olandese, era all’epoca vicepresidente della Commissione) che prevedeva azien­de di 80-120 ettari, con uno, massimo due addetti. Il piano è rimasto lettera morta, le proposte così ambiziose sono state in toto disattese e ritirate, ma l’agricoltura UE da­gli albori della Pac ad oggi ha saputo cam­minare con le proprie gambe pur tra mille difficoltà. Solo l’Italia è rimasta al palo, tanto che il reddito reale per addetto è sceso tra il 2005 e il 2007 del 12,1 per cento mentre in Eu­ropa è cresciuto del 7,7. Intanto tra il 2000 e il 2009 i prezzi interni dei mezzi di produzione si sono impennati di qua­si il 27%.
Un settore che la politica aveva sempre con­siderato alla stregua di comparto da sov­venzionare per tutelare l’occupazione e rag­granellare consensi elettorali più che come ambito strategico dell’economia naziona­le, sta forse per arrivare al punto di non ri­torno. La concorrenza estera sempre più agguerrita farà il resto. Domani, chissà?, po­tremo gustare un frutto o una insalata au­tenticamente made in Italy solo se qualche agricoltore della domenica, uno di questi Robinson del 2000, ce ne farà graziosa­mente dono. A proposito, quel fazzoletto di terra che era dello zio... Sarà meglio anda­re a vedere.
«Avvenire» del 20 maggio 2010

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