23 giugno 2010

«Google, nuovo monopolista rapace? No, crescendo impariamo a cooperare»

D'Asaro Biondo: aggressività peccato giovanile. Ma il mondo non resta immobile, la privacy sta cambiando
di Massimo Gaggi
«Abbiamo certamente fatto degli errori, ma siamo un’azienda giovane, abbiamo una decina d’anni. Crescendo, diventiamo meno aggressivi e più collaborativi». Per la prima volta Google risponde a tutto campo a un giornale italiano difendendo le sue scelte, rivendicando con orgoglio il suo ruolo di motore del cambiamento, il contributo che offre all’economia, ma ammettendo anche di aver creato non pochi problemi. Lo fa col vicepresidente Carlo D’Asaro Biondo, uno dei suoi quattro capi area mondiali (è responsabile per l’Europa meridionale, centrale e orientale, la Russia, il Medio Oriente e l’Africa) che, come dice lui stesso, «essendo arrivato in azienda da soli nove mesi dopo altre esperienze professionali anche nell’editoria, ragiona da manager del gruppo ma vede le cose anche con l’occhio di chi è fuori».
Giudizi esterni che non sono più così entusiastici. L’azienda che ha il «fare del bene» come sua ragione sociale è diventata una straordinaria macchina che cresce e fa profitti, offre tecnologie innovative, ma poi viola la privacy, mette in allarme coi suoi comportamenti monopolistici gli organismi Antitrust di mezzo mondo, gioca a rimpiattino col Fisco.
«I problemi sono tanti. Andiamo con ordine. Premesso che noi siamo un’azienda molto orientata a soddifare il cliente - e i nostri utilizzatori ci sembrano assai soddisfatti di quello che offriamo loro - non ho difficoltà a riconoscere che problemi ce ne sono. Anche noi abbiamo fatto i nostri sbagli. Sicuramente, ad esempio, con le impostazioni iniziali di condivisione dei contatti di Gmail attraverso la rete sociale Buzz o quando abbiamo involontariamente registrato dati privati mentre sviluppavamo, strada per strada, il progetto Street View per Google Maps. Ma guardiamo anche di cosa stiamo parlando: la privacy. Va certamente protetta, ma cos’è? E’ un concetto in piena evoluzione. Per me che ho 44 anni è una cosa importante, per mio padre ancora di più; mia figlia, che di anni ne ha 20, se ne cura molto meno½. - Ci sono le sensibilità individuali e dei gruppi e ci sono i paletti. Non può essere un’azienda a decidere se e quando spostarli: abbiamo norme e processi politici per cambiarle. “Certo, ma le leggi sono molto diverse da un Paese all’altro. La Francia, dove vivo, difende la “privacy” con molto più vigore di altri Paesi europei. L’Europa la difende più degli Usa, ma non è solo questo. In Russia o in Medio Oriente la “privacy” è una cosa totalmente diversa. E anche se mi fermo alla Turchia, trovo governanti che mi chiedono di cancellare da YouTube ogni video che contiene critiche al padre fondatore Ataturk e all’attuale esecutivo. Un’azienda globale come la nostra, in questo contesto, cerca un minimo denominatore comune. E’ inevitabile che in questo processo si creino frizioni”.
E’ vero che ci sono Paesi che utilizzano il concetto di privacy per attuare vere censure, ma non è il caso dell’Europa. E invece nel processo di Milano, risoltosi con la condanna di Google (condanna peraltro mite secondo i parametri del nostri sistema giudiziario) le reazioni sono state furibonde. E’ stata evocata la censura, è sceso in campo l’mbasciatore americano e la sentenza è stata giudicata «merda» dal vosto amministratore delegato, Eric Schmidt.
«Io credo che bisogna lasciare che i tribunali facciano il loro lavoro. Non si può dire c’è un giudice e poi volersi mettere al suo posto. Io non faccio il giudice, faccio l’operatore economico. Poi, se non sono pronto a rispettare i giudici, forse faccio un errore».
E la sortita di Schmidt?
«Non ho visto quella dichiarazione nella sua integrità, non so in quale contesto ha parlato. Comunque noi faremo appello. Non sta a me commentare i processi. Però sulla privacy mi faccia anche dire qualcosa di costruttivo. Negli ultimi 18 mesi noi, sul rispetto della persona, abbiamo fatto passi in avanti enormi: vada su Internet e clicchi sul nostro privacy center nella home page. Ci sono molte opzioni, tutte facili da capire e da usare per proteggere i figli, escludere i propri dati dalla comunicazione pubblicitaria «targettizzata», modellata sul proprio profilo personale. E ogni mese mettiamo nuovi strumenti a disposizione dell’utente. Detto questo, quello della privacy è sicuramente un concetto da ridefinire. Ci sono aggregati di persone che hanno sensibilità e interessi diversi. Per mia figlia i benefici della conoscenza in rete sono molto superiore ai rischi che ne possono derivare».
Ammesso che sia vero, come ci si può fidare del giudizio di un’azienda che fa soldi offrendo pubblicità mirata, basata sui dati degli individui, i profili personali e che quindi ha un interesse oggettivo a demolire il concetto di “privacy”, più che ad aggiornarlo? Guardi cosa ha combinato Zuckerberg a Facebook. E mi pare che per voi si prepari un’estate piuttosto calda, anche dal punto di vista delle iniziative delle “authority” Usa, sia da questo punto di vista, sia da quello dei controlli antitrust.
«E’ vero. E noi non ci sottrarremo a quest’opera di supervisione. E’ normale che i nostri comportamenti vengano scrutinati. Non entro nel merito di indagini e valutazioni in corso. Dico solo che noi ci comportiamo in modo diverso da Facebook. Ci siamo dati regole e limiti assai più severi».
Non è solo “privacy”, c’è anche il gigante che approfitta della sua forza, di posizioni semimonopolistiche per distruggere intere aree di business. C’è il potere di far sparire, se solo lo volete, un’azienda dal vostro “page rank” condannandola all’oblìo.
«Questione di punti di vista. Per voi della stampa che ci attaccate sempre con tanto puntiglio – e lo capisco, visto che il vostro è uno dei settori che più soffrono per le trasformazioni in atto - il bicchiere è più vuoto che pieno. Secondo me, invece, è pieno per almeno i due terzi. Di certo non è vuoto: Google cresce perché porta valore alle imprese sue clienti, perché consente a milioni di piccole aziende – decine di migliaia solo in Italia – di operare a livello mondiale, anche se le loro dimensioni le costringerebbero a restare a livello di realtà locale. Mettiamo tutti in contatto con tutti, assicuriamo traduzioni automatiche in 40 lingue, creiamo nuovi accessi alla cultura, redistribuiamo ricchezza. Cito un solo dato. Si riferisce al 2008, non ho ancora quello del 2009: su 22 miliardi di fatturato Google, 5,5, cioè un quarto, sono andati a nostri partner produttori di contenuti. E poi collaboriamo coi governi. In Russia – arrivo proprio da lì – stiamo costruendo, con Cisco e altri, la loro Silicon Valley; in Polonia guidiamo il programma per l’innovazione nelle piccole e medie imprese».
Questo è il “santino” di Google, quello del suo vecchio slogan “don’t be evil”. Ma l’azienda simpatica a tutti, il Davide che sfidava il Golia Microsoft, non c’è più. Davide è diventato Golia: un semimonopolio al posto del capitalismo immacolato dell’utopia dei fondatori.
«A costo di farla sorridere le dirò che, da matricola di Google, sono io stesso sorpreso, quando vado nel quartier generale di Mountain View, nel vedere quanto quella filosofia del non fare del male sia stata interiorizzata dalla dirigenza. E’ un patrimonio al quale tutti ancor oggi tengono molto. Attenzione: non dico che tutto quello che facciamo è giusto. Davanti a dubbi o sospetti è giusto indagare. Le autorità fanno il loro lavoro, noi dobbiamo essere sereni. Non mi pare, del resto, che siano emersi comportamenti illeciti di qualche rilievo. E, comunque, adesso abbiamo introdotto un nuovo livello di trasparenza sui contratti con i partner AdSense, quelli che ospitano i nostri annunci pubblicitari. Il «fare del bene», però, non è solo uno slogan. Le dico della mia esperienza: quando chiudo un accordo con un’impresa, la sera, tornando a casa, sento di aver fatto la cosa giusta, una cosa che crea ricchezza. Prima non succedeva. Lo sa perché? Perché qui possono fare i calcoli, per la prima volta ho i numeri. Ho una nuova tecnologia che mi offre questo vantaggio».
Una tecnologia che vi dà una grande forza grazie alla leadership mondiale nel “search” e alla gigantesca raccolta pubblicitaria. Forza che spesso usate per entrare in nuovi business, demolendo ciò che esiste.
«Crescendo, come le dicevo, diventiamo meno aggressivi. Certo, poi le nuove tecnologie consentono di rivoluzionare molti “business model”. E quando c’è una rivoluzione, come sempre, chi soffre di più è l’aristocrazia, chi ha posizioni consolidate. Qui il discorso si fa delicato perché riguarda anche voi, la stampa».
Voi siete sicuramente grandi innovatori, ma non giocate sempre in modo trasparente. Alcuni business li demolite non perché siete pià efficienti ma perché potete permettervi di offrire servizi gratis: il relativo costo lo coprite coi proventi pubblicitari raccolti in altri settori. Chi viene sbattuto fuori perché non ha le stesse vostre possibilità e dimensioni, parla di concorrenza sleale. E poi state cannibalizzando le telecomunicazioni.
«Le ho detto, nelle rivoluzioni c’è sempre chi soffre. Quanto alle telecomunicazioni, le ha messe in crisi la tecnologia delle telefonate su protocollo Internet. Skype assai prima di Google. Certo, noi adesso siamo arrivati col nostro sistema operativo, Android. Che, a differenza di quelli della Apple, è un sistema aperto: quindi le società telefoniche, che ormai devono guadagnare col traffico dati, non certo con la voce, possono utilizzarlo per offrire ai loro clienti nuovi servizi. Si lamentano perchè devono investire in reti sulle quali, poi, transitano anche i nostri dati? Anche noi investiamo molto in hardware, server e “cloud computing” che non va a nostro esclusivo beneficio«.
E veniamo alla stampa. La schiacciate con la logica del “tutto gratis” e anche atomizzando l’informazione col conseguente indebolimento dell’attenzione per il prodotto giornale. Vi presentate come partner, ma poi guadagnate sulle informazioni prodotte da altri. E’ da quando sono stato la prima volta a Mountain View, cinque anni fa, che cerco di capire cosa siete: una semplice “pipeline” che trasporta contenuti altrui? Una piattaforma? Una “media company” di fatto? A seconda di chi è il tuo interlocutore ricevi risposte diverse.
«Non so se ci sia stata confusione in passato. Ora la risposta è chiara. Siamo una piattaforma. Google News non è una nave pirata: chi è a bordo ha scelto di starci. E noi, ormai, offriamo loro un bel ventaglio di opzioni: notizie gratis per tutti, accessi limitati ad alcuni articoli o solo alle prime righe, rinvio a sistemi di pagamento flessibili. Certo, l’arrivo di Internet vi ha creato problemi, le difficoltà per la stampa sono iniziate assai prima della nascita di Google. Le ho detto, l’aristocrazia soffre...»
Mi sembrava che nel processo di maturazione di Google ci fosse anche questo: riconoscere il valore di una stampa professionale ben funzionante per mantenere in salute la democrazia. Da Barack Obama a Steve Jobs, molti ormai dicono di non voler vivere in un mondo che dipende, per l’informazione, dai blog. Anche Schmidt mi sembrava ormai orientato in questo senso. Alla fine, però, trattate la stampa come qualunque altro erogatore di servizi.
«No, no. Il futuro della stampa ci interessa, eccome. E non solo a me che vengo dal mondo dell’editoria (D’Asaro è stato capo del gruppo Lagardere-Hachette, ndr). Noi stiamo facendo molto per aiutarvi a migliorare la raccolta pubblicitaria, a trovare nuove, redditizie nicchie. Certo, dovete capire anche voi che il futuro è quello della pubblicità “targettizzata”. E’ anche nel vostro interesse. Così come noi abbiamo capito era un errore imporre la logica del “tutto gratis”. E’ vero, la pubblicità non basta a sostenere il costo di un sistema editoriale complesso. E ora noi siamo pronti a fornire anche servizi in questo campo, piattaforme di pagamento. Certo, l’editoria dove convincersi che in prospettiva non è sostenibile un modello di business nel quale il 50-70 per cento dei costi è assorbito dalla produzione e distribuzione del prodotto fisico di carta, mentre alla produzione giornalistica dei contenuti va il 15, massimo 20 per cento delle risorse. Rispetto a quando sono arrivato, nell’autunno scorso, mi pare che questa consapevolezza si stia diffondendo rapidamente».
Merito dell’iPad del vostro avversario Jobs?
«Arriveranno molte altre piattaforme tecnologiche. E’ questo il futuro. Per un po’ soffrirete, ma l’informazione professionale troverà la sua strada: la pubblicità crescerà in modo esponenziale e i costi caleranno man mano che ridurrete la dipendenza dalla carta».
Di nuovo Google “buona” che aiuta e apre la strada. Io vedo, però, anche la multinazionale spietata che ha l’interesse oggettivo a che ogni utente si soffermi su una pagina il meno possibile, non approfondisca troppo, perché fatturato e profitti dipendendo dalla frequenza con la quale ognuno usa il suo click. Una società che predica il bene, ma poi si rifugia in Irlanda per non pagare le tasse…
«Sui click mi fa una bella domanda. Rispondere implica un’analisi dei comportamenti sociali molto complessa. Mi limito a farle notare che in alcune situazioni, ad esempio nella diffusione dei libri, abbiamo dimostrato si saper prescindere dal vincolo dei click, dalla logica del profitto a ogni costo. Quanto alle tasse, noi ci limitiamo ad applicare le leggi esistenti. Se la Ue ha deciso di concedere benefici in campo agricolo, industriale o fiscale a certe aree, noi, come molte altre imprese, ci comportiamo di conseguenze. Se la Ue decide che il valore aggiunto va tassato tenendo conto in modo diverso del luogo di produzione e distribuzione, noi siamo pronti ad adeguarci. Basta deciderlo. Faccio solo notare che, a differenza di aziende anche pubbliche di vari Paesi con sede a Lussemburgo, dove hanno solo una casella postale, noi eroghiamo i servizi dall’Irlanda dove abbiamo migliaia di dipendenti: dieci volte quelli che abbiamo qui, in Francia». Parole efficaci. Quelle di una multinazionale apolide, non di un benefattore dell’umanità.
«Corriere della Sera» del 23 giugno 2010

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