29 luglio 2010

Il monastero della tortura

Dopo la rivoluzione russa molti edifici sacri furono adibiti a carceri e centri di repressione politica Una studiosa narra la storia del complesso di Santa Caterina, presso Mosca
di Marta Dell'Asta
Pubblichiamo un brano tratto da «La dacia delle torture» di Marta Dell’Asta, articolo che compare sull’ultimo numero della rivista «La Nuova Europa», edita da Russia Cristiana Edizioni 'La Casa di Matriona' di Seriate. Tra gli altri contributi del bimestrale: «Il cuore del dissenso nelle Lettere di Havel» di Sante Maletta, «Stalin e la carta stampata» di Aleksandr Posadskov, «L’arte è più potente della politica» di Ljudmila Saraskina, «Gli anni meravigliosi di Reiner Kunze» di Thomas Brose, «Iosif Germanovic, che celebrava nei lager» di Rostislav Kolupaev, «Margherita Karikas, prigioniera di due regimi» di Monia Lippi, «Pellegrini nel mirino» di Angelo Bonaguro.
Un’aberrante logica ha fatto sì che dopo la rivoluzione russa molti edifici sacri, soprattut­to monasteri, siano tornati utili agli scopi della repressione con le loro mura, le celle, i sotterranei… Il prototipo di questa mostruosa me­tamorfosi è il tante volte ricordato monastero delle isole Solovki, diven­tato il lager scuola di tutto il futuro Arcipelago. Ma non è il solo esempio, ce ne sono anche di più terribili per le violenze che vi si perpetravano, co­me il monastero di Santa Caterina, presso Mosca, trasformato nel 1938 in un carcere specializzato in torture, la famigerata e misteriosa «dacia delle torture», o prigione di Suchanovka. Misteriosa perché sembrava che non esistessero testimoni sopravvissuti, la si conosceva solo attraverso voci incontrollate e leggende; la voce po­polare collegava insistentemente la prigione al nome di Berija.
Lidija Golovkova, grande esperta di nuovi martiri del periodo sovietico, e conseguentemente dei luoghi della loro morte, carceri e fosse comuni, nei primi anni ’90 l’ha fortunosa­mente identificata e letteralmente ri­portata alla luce, con tutto il carico di storie atroci che vi sono collegate. Ed ha pubblicato un libro perché tutto questo pesante fardello di memorie trovasse un senso, e non corresse il rischio di scomparire nuovamente. [...] L’eremo maschile di Santa Caterina e­ra stato fondato a metà del XVII se­colo nei pressi del villaggio di Ra­storguevo, accanto alla tenuta dei principi Volkonskij chiamata Sucha­novo. Dopo la rivoluzione di ottobre i monaci si erano trasferiti altrove per fare spazio a un gruppo di monache sfollate dalla Polonia durante la guer­ra; l’eremo era così diventato da ma­schile, femminile. Ben presto la nuo­va amministrazione bolscevica ave­va imposto di trasformare il mona­stero in una cooperativa agricola, che le suore erano riuscite a far funzio­nare così egregiamente che, in anni di fame, potevano dar da mangiare all’intero villaggio di Rastorguevo. Poi, secondo un sistema ormai classico, le autorità civili, alla fine degli anni ’20, avevano imposto nuovi coinquilini, i delinquenti minorili di un riforma­torio, ospitato in alcuni edifici del mo­nastero riadattati a prigione. Ma già nell’ottobre del 1930 l’amministra­zione del carcere aveva chiesto mag­gior spazio, e l’autorità locale si era affrettata a compiacerla: «Anche se le monache erano preparate al peggio, quello che accadde le sconvolse per la sua crudele insensatezza. Ai primi del 1931 arrivò da Mosca un foglio: liberare gli edifici entro ventiquat­tr’ore. Si narra che le suore, racco­gliendo in fretta i loro fagottelli, si di­ressero alla stazione ferroviaria di Ra­storguevo, dove restarono tutto il giorno sedute a piangere. Molte non avevano dove andare perché erano cresciute in un orfanotrofio, e per di più in Polonia. Alcuni abitanti ebbe­ro compassione delle povere donne, portavano di nascosto alla stazione patate bollite, ma soprattutto si pre­sero le monache in casa».
Ciononostante, molte sarebbe­ro state arrestate entro breve. Subito dopo la chiusura del monastero era incominciato il sac­cheggio a man bassa, anche se fortu­natamente i vasi sacri e le icone mi­racolose erano già state messe in sal­vo di nascosto da alcuni fedeli del luo­go. A quel punto accanto al riforma­torio si era creata una prigione per delinquenti comuni con condanne sotto i tre anni. Per una incongruen­za inspiegabile, fino al 1934 aveva però continuato a funzionare una delle chiese, e alcune monache lavo­ravano come cuoche nella cucina della prigione. Ma nel ’34 tutte le in­congruenze erano state eliminate: la chiesa era stata chiusa, il sacerdote che vi officiava deportato, un diaco­no del monastero arrestato (morirà in un lager dell’Asia centrale nel ’37), un altro sacerdote fucilato.
Dal 1938 le cose nel monastero cam­biano in modo radicale e repentino: alla fine di novembre nel giro di po­chi giorni tutti i nuovi inquilini del monastero vengono sfrattati e inizia­no grossi lavori di rifacimento.
All’origine di tanta fretta c’è il Decre­to del 16 novembre che pone fine al terrore di massa. In base alla logica normale questo dovrebbe annuncia­re un periodo di respiro nelle perse­cuzioni, invece la logica dell’ideolo­gia esige nuovi arresti e repressioni, perché bisogna trovare un colpevole cui addossare la responsabilità degli eccessi precedenti. Il colpevole in questo caso è il commissario gene­rale della Sicurezza, l’inflessibile Nikolaj Ežov, che viene destituito e subito rimpiazzato da Lavrentij Be­rija. Il nuovo capo della Sicurezza ha già in mente un lungo elenco di alti papaveri da arrestare (sono il suo pre­decessore e tutto il suo apparato, si­no ai gradi inferiori), e quindi ha l’e­sigenza di una nuova prigione di si­curezza lontana da Mosca ma non troppo. Due giorni prima di arresta­re Ežov, Berija scrive una lettera uffi­ciale a Molotov, presidente del Con­siglio dei ministri: «In relazione alle insorgenti necessità di creare una pri­gione di isolamento a destinazione speciale, proponiamo a questo sco­po l’utilizzo del territorioe degli edi­fici del monastero di Suchanovo». Dall’errore di Berija sul nome del mo­nastero di Santa Caterina è derivato poi l’uso di chiamare la prigione co­me la tenuta dei principi Volkonskij. [...] Le dimensioni soffocanti delle celle hanno uno scopo preciso: chiusi lì dentro con la luce costantemente ac­cesa, controllati ogni paio di minuti dalla sentinella, si perde il senso del tempo e dello spazio, i nervi cedono. Questa è la prima tortura cui è sotto­posto il prigioniero: «Lo spioncino si apriva quasi ogni minuto, bastava fa­re il minimo movimento che il chia­vistello scattava e il secondino entra­va a controllare il detenuto e la cella. Il guardiano non toglieva gli occhi di dosso alla persona sotto inchiesta, so­prattutto per impedirgli di assopirsi dopo le notti passate sotto interroga­torio. Alcuni detenuti non li lasciava­no dormire per molti giorni e notti, e bastava questo per farli uscire di te­sta », racconta il sopravvissuto Evge­nij Gnedin (ex primo segretario d’am­basciata).
Durante la giornata la vita si svolge secondo un ritmo nor­male: sveglia alle 6 e visita al­la latrina, poi la colazione fatta di mi­nestra e 300 o 400 grammi di pane. Per un certo periodo, quando anco­ra le cucine non esistono, portano il rancio dalla vicina Casa di riposo per architetti, ma le normali porzioni vengono divise per dodici. Nel carce­re di Suchanovka, diversamente da tutte le altre prigioni compresa la Lubjanka, non è prevista l’ora d’aria, non si ricevono posta né pacchi; al detenuto non danno neppure il sa­pone per lavarsi però, ogni tanto, la sera lo accompagnano alla doccia. Solo che l’acqua sulle ferite aperte è un’ulteriore tortura.
La vera attività del carcere incomin­cia di notte, quando arriva in auto Lavrentij Berija. I giudici iniziano al­lora gli interrogatori e i pestaggi nei loro uffici, e incomincia il coro di ge­miti e urla. Del resto, l’ordine supe­riore dice che un’inchiesta non deve durare oltre le due settimane, per cui è necessario ricorrere a mezzi estre­mi per ottenere le confessioni. L’ex detenuto Aleksandr Dolgan ha elen­cato 52 tipi diversi di tortura. Secon­do le affermazioni di un funzionario del Ministero della Sicurezza, Ja. Se­rov, che ha lavorato a Suchanovka per oltre dodici anni, fra il 1939 e il 1952 dal carcere sarebbero passati alme­no 35 mila detenuti, tutti mandati qui per decisione esclusiva dei vertici, ossia dal ministro della Sicurezza o dal suo vice.
«Sembrava che non ci fossero testimoni. Ma la voce popolare collegava la prigione al nome di Berija»
«Avvenire» del 29 luglio 2010

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