27 luglio 2010

La Love parade è l’ultimo cerimoniale organizzato dal Grande Fratello

Non un festival, ma un rituale che è illusione di libertà
di Stefano Pistolini
Sulle rotte dei voli e dei treni economici, a uno qualsiasi dei nostri figli sarebbe potuto capitare di finire sotto quel grottesco tunnel della morte nello scalo ferroviario dismesso a Duisburg. Motivazione: andare a dare un’occhiata. Con tutta l’occasionalità, la delimitata casualità con cui ci si avvicina a un evento assurdo e pubblicizzatissimo, di scarsa fama ma dotato di qualche richiamo. Niente a che vedere coi raduni-leggenda del rock. In quel caso spingersi a Woodstock, ma anche solo a Reading o a Glastonbury, è effetto terminale di una sottocultura coltivata più o meno amorevolmente nella vita di tutti i giorni, quella secondo la quale la musica è comunicazione, creatività, aggregazione – in sostanza è espressione e rappresentazione d’una mentalità condivisa. Il festival era, e per certi versi tuttora è, il natale di questo stile di vita, la sua sintesi di alta spettacolarità, il raduno delle emozioni.
La Love parade appartiene a un altro mondo e non è questione di qualità ma, appunto, di mondi separati. Qui ci si dà convegno in città, negli anfratti residuali della struttura metropolitana, perciò, per loro stessa natura, frantumati, altamente imperfetti, se non fatiscenti. Qui non si descrive collettivamente una cultura, ma ci si accoda per accedere a un rituale che fa della ripetitività la sua cadenza. Il tempo è limitatissimo, un pugno di ore, le aspettative esponenziali – bisogna raggiungere l’acme in fretta perché poi tutto si sfalda. Qui non c’è ieri, né domani, non è un atto all’interno d’una complessa rappresentazione, ma solo un cerimoniale organizzato dal Grande Fratello per ribadire il suo patronato perfino sugli stadi aggregativi apparentemente antagonisti, dunque indipendenti, alternativi. La Love parade nasce come rituale della libertà condizionata: quella di darci dentro, sfibrarsi e nel caso stonarsi, in un recinto presidiato dai guardiani.
L’“amore” a cui è impropriamente intitolato l’evento gli è estraneo quanto lo può essere alla marcia verso la pietra nera della Mecca. La partecipazione alla sua messinscena non ha niente della sacralità del rock: difettano sia l’elemento contemplativo, che l’elemento estetico, le attese, i silenzi, l’osservarsi, il riconoscersi. Qui c’è solo un rapido passaggio per fare un’esperienza in più, per il gusto d’interpretare la cellula nella mostruosa nebulosa collettiva – centinaia di migliaia di corpi che hanno solo licenza di strusciare il loro sudore, nel rimbombo assoluto nel quale vengono immersi. Il resto è propaganda di grana volgare, quella che s’appropria di un attestato di liberalità nel permettere che ciò avvenga nei propri confini civili, come ha fatto per anni il governo tedesco – salvo perseguitare i rave spontanei, privi della licenza di massacro instradati dentro a un tunnel dalla pancia assurdamente bassa.
Questa è illusione di libertà, è fanatismo giovanilistico concesso alle mani sbagliate, è pericoloso esibizionismo della capacità di comprendere, irrigimentare, circoscrivere e perfino far detonare l’esplosività dello spirito giovane, del quale sarebbe sempre buona regola avere paura e rispetto. David Zard, sommo organizzatore di concerti, ha detto cose sacrosante sulla tragedia di Duisburg. Ha detto che è criminale chi pensa di gestire una situazione del genere improvvisando, a caccia di popolarità con patina progressista. Ha detto che i movimenti di masse sono una scienza esatta, fatta di geometrie e flussi. Aggiungiamo che la casualità dell’evento stordisce, per come nasca non da un percorso culturale, ma dallo stesso nulla che genera un disastro automobilistico, allorché si prova poi a connetterlo con qualche comportamento generazionale. Atteggiamenti da adulti arroganti e distratti. Che ora si palleggiano le colpe di una storia di cui neppure afferrano la natura. E’ ripugnante che tutto si esaurisca in un sacrificio tanto inutile, che non ha neppure la consolazione di una qualsiasi motivazione da esporre sulla lapide che forse – ma non è detto – lo ricorderà.
«Il Foglio» del 27 luglio 2010

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