26 luglio 2010

Nanda Pivano, un mito esagerato?

di Roberto Mussapi
Esistono fenomeni massmediatici incomprensibili, basati su fondamenta non invisibili, ma francamente incerte. Tra questi il mito di Fernanda Pivano, che è stata in questi giorni ricelebrata, risantificata, riesaltata. Non si capisce il perché di questo mito. Fernanda Pivano è stata una traduttrice brava e appassionata, una donna che ha amato il proprio lavoro e i propri autori con generosità, intelligenza, passione. Non si è limitata a tradurre ma ha anche proposto, quindi si è assunta delle responsabilità, atteggiamento dei generosi. Merita quindi la massima stima. Ma che sia assurta a figura mitica delle letteratura italiana è incomprensibile. Tradusse Addio alle armi di Hemingway, un grandissimo scrittore. Sì, ma il capolavoro era di Hemingway, lei era la traduttrice. Forse qualche merito nella fama di Hemingway in Italia dovrebbe toccare anche ad Arnoldo Mondatori, l’editore che pranzava con lui e lo pubblicò, forse anche alla Martini, che anni fa lo ha celebrato, giustamente, per il suo mitico cocktail. Fernanda Pivano fu promotrice della Beat generation, un fenomeno di costume, non un fatto letterario. Le poesie di Ginsberg, Corso e amici non fanno parte della storia della letteratura, ma della società, e in tal senso sono significative. Come le canzoni di Bob Dylan, che però artisticamente esiste ed è un gigante: le canzoni di Bob Dylan sono opere compiute, le poesie della Beat generation singulti franti. Come se non bastasse, per rimanere nell’ambito della canzone che Fernanda Pivano confondeva troppo con quello della poesia (indice di orecchio non avvezzato, di non iniziazione), si rese celebre rispondendo alla domanda se Fabrizio De André fosse il Bob Dylan italiano con la risposta che «Bob Dylan era il De André americano». Altra prova di sordità, mancanza di fondamentali. Bob Dylan fonde musica e parola in forme memorabili, De André ci rammemora che ha fatto il liceo, e il suo poetese ci offre gemme come «Questa di Marinella è la storia vera / che scivolò nel fiume in una sera». Quale maestra avrebbe accettato due versi così da uno scolaro? Ma il mito De André, cantautore letterario, voce seduttiva alla Julio Iglesias ma con problematiche agli antipodi della grazia naturale di Tenco e Paoli, è inscindibile da quello di Fernanda Pivano. Vorrei fosse chiaro che la signora Pivano, traduttrice, scrittrice e critica, merita rispetto come tutti quelli che hanno amato e onorato il loro lavoro. Come l’umile studiosa Maria Corti, preoccupata di nascondere il suo genio, per timidezza. Come Lalla Romano, lei sì, scrittrice coraggiosa e non conformista. Come Roberto Sanesi, anglista e americanista non accademico: da lui, grazie a lui, la poesia italiana è cambiata, quando eravamo bambini ci fece leggere Eliot, Dylan Thomas, poi Hart Crane. Scrisse saggi memorabili su poesia e visione, forgiò una generazione di poeti internazionali e avventurosi. Fernanda Pivano scrisse delle sue esperienze e di sé, con garbo e simpatia, con umanità e passione. Ma non ha cambiato nulla, a meno che la scoperta del poeta Gianni Milano, la partecipazione a concerti con la P.F.M., non sia un segno di fondazione e rinascita. E il povero grande Sanesi? Lalla Romano? Elsa Morante? Giovanni Arpino? Dove sono, le voci delle nevi passate?
«Avvenire» del 20 luglio 2010

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