26 luglio 2010

Nel ciclismo malato d’oscuro saltano catene e fair play, ma di più le regole

Tra cronache d'imprese storte al Tour de France e rimbalzi di casi di Ital-doping
di Massimiliano Castellani
L'altro giorno al Tour de France tutti gli occhi u­mani e gli zoom mediati­ci, si sono fissati sulla catena del leader della Grande Boucle, Andy Schleck, che scintillante sotto il sole, saltava, lassù in salita, a un passo dalla cima del Balès. Il suo rivale, Alberto Contador, a quel punto, con passo fel­pato, gli passava davanti e senza curarsene continua­va la corsa trionfale, fino a strappargli la maglia gial­la. «Un sorpasso eticamente scorretto», ha sentenzia­to la giuria del Barsport che ha scatenato parte della corte del processo alla tappa con colpevolisti schie­rati contro lo spagnolo e a difesa del povero lussem­burghese. Ma fin qui, che piaccia o no, siamo ancora all’interno degli steccati del regolamento: Contador ha approfittato dell’errore tecnico e del­l’incidente di Schleck per conquistare il primato. Fatti i debiti distinguo, è come quando nel calcio il difensore scivola a terra e non è più in grado di fermare la corsa dell’attaccante che indisturbato va in rete. Il gol è valido, il gesto profittatore no. Ma a volte, raramente, c’è anche gente di buon senso, come l’ex allenato­re dell’Ascoli Bepi Pillon che ordina ai suoi giocatori di “restituire” subito la rete non etica agli avversari (della Reggina) facendoli segnare senza ostacolarli. Poi, l’Ascoli perde la partita e Pillon per i tifosi della sua squadra diventa il capro e­spiatorio, perché il rispetto degli avversari nello sport è una legge sì, ma non scritta, quindi mai insegnata né studiata dal popolo degli stadi. Uscendo dallo sta­dio e tornando sulle strade del Tour, la violazione della legge non scritta sul rispetto dell’avversario di­venta carta velina al cospetto dei faldoni giudiziari dell’inchiesta della procura di Padova che punta il di­to contro Alessandro Petacchi, indagato per «utilizzo di sostanze e pratiche vietate». Tre lettere, Pfc, avvele­nano la corsa e il futuro di uno dei massimi velocisti.
Dall’Epo malefico dell’era Pantani, siamo passati al micidiale Pfc (Perfluorocarburo), una potente so­stanza chimica – derivata dal petrolio – che Petacchi potrebbe avere assunto come aiutino o aiutone, per sprintare prima di tutti al traguardo. Il 28 luglio l’ex maglia verde del Tour (l’ha appena persa) dovrà comparire a Padova davanti al giudice Benedetto Roberti per rispondere come persona informata sui fatti. Avrebbe dovuto farlo prima, ma era “legittima­to” da impedimento per impegni di lavoro, cioè vin­cere al Tour – a questo punto con i soliti sospetti – le tappe di Bruxelles e Reims. Il suo mestiere è quello di correre e di farlo in maniera pulita (discorso che dovrebbe valere per tutti i ciclisti, anche amatoriali), ma già nel 2007 l’antidoping lo beccò positivo al Gi­ro d’Italia, alla tappa di Pinerolo. A 36 anni un pro­fessionista come Petacchi dovrebbe essere maturo al punto da non ricadere negli stessi diabolici errori, mentre invece, il dubbio di una recidiva c’è tutto in questa ennesima torbida vicenda di cui Avvenire si era occupato (con Pier Augusto Stagi) in aprile, ma che evidentemente torna uti­le rilanciare nei giorni in cui la kermes­se del Tour calamita le attenzioni plane­tarie. Il rischio di un’informazione, an­ch’essa sospetta dopata, ora è quello di mettere sullo stesso piano la catena di Schleck e lo “sgarbo” di Contador, con la drammatica realtà del ciclismo che è perennemente ostaggio della speri­mentazione medica e dell’abuso di far­maci. Se ci fermiamo a fissare la catena di Schleck e il “legittimo” opportunismo di tappa di Contador, ri­schiamo di non veder passare, in fuga, il vero “can­cro” del ciclismo e dell’intero sport professionistico (nessuna disciplina esclusa): il doping. Elisir neces­sario per essere al passo con un “sistema dopato” che per ragioni di business chiede il costante supe­ramento dei limiti umani, anche a costo di infrange­re irreparabilmente le regole scritte e civilmente condivise. Questo è il male oscuro, troppo spesso o­scurato, del ciclismo e dello sport. Una malattia so­ciale che quando emerge distrugge l’immagine eroi­ca del campione e la credibilità di un intero movi­mento, condannato a rimettere catene che una vol­ta rimontate saltano subito, un metro più in là.
Spesso per sempre.
L’uso di sostanze proibite e le mosse sbagliate non vanno messe sullo stesso piano
«Avvenire» del 21 luglio 2010

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