28 luglio 2010

Quando Montale rideva del Vate

Torna D’Annunzio con una nuova edizione dell’«Alcione» ed è l’occasione per fare il punto sull’influenza dello scrittore sui poeti italiani del Novecento. Scoprendo magari che alcuni di loro ne hanno fatto talvolta anche la parodia, come Palazzeschi, Folgore e Moretti misurandosi con la «Pioggia nel Pineto»
di Pietro Gibellini
«Alcione» e no: questo era il tito­lo dello scritto di Sergio Solmi nel numero speciale che 'Let­teratura' dedicava a D’Annunzio nel 1939, per il primo anniversario della morte del poe­ta. Solmi stilava un bilancio personale e in­sieme generazionale, dipingendo un quadro chiaroscurato, in cui s’intrecciavano conti­nuità e fratture, adesione e repulsione. E lo riproponeva, poi, nell’edizione dei suoi stu­di, riuniti nel 1963, Scrittori negli anni; nel ti­tolo del saggio e in quello del libro è implici­tamente formulato un metodo critico e sto­riografico ed un discreto e fermo invito a va­gliare la durata della poesia nel tempo.
Che forma prenderebbe, oggi, un discorso su Alcione e noi? Certo, l’approccio novecentesco al linguaggio dannunziano nel suo complesso fu cauto o decisamente impron­tato al diffidente distacco o al gioco ironico che si riservano a un modello lessicale trop­po sussiegoso e autoritario, con le sue dora­ture classicheggianti e déco. Non stupisce perciò che, nel virtuosistico rifacimento ita­liano degli Exercices de style di Raymond Que­neau, Umberto Eco sia ricorso alla pàtina dannunziana (lo dichiarava espressamente) per rendere il registro 'précieux' dell’estro­so transalpino: C’était aux alentours d’un juil­let de midi. Le soleil dans toute sa fleur régnait sur l’horizon aux multiples tétines […] Un au­tobus à la livrée verte et blanche, blasonné d’un énigmatique S, vint recueillir du côté du parc Monceau un petit lot favorisé de candi­dats voyageurs aux moites confins de la dis­solution sudoripare, suonava il modello; ed Eco: «Era il trionfo del demone meridiano. Il sole accarezzava con accecante virilità le o­pime mammelle dell’orizzonte ambrato. […] Carro falcato, cocchio regale, gravido di e­nigmatica e sibilante impresa, l’automotore ruggì a raccoglier messe umana molle di mol­li afrori, dissolta in esangui foschie al parco che tu chiami Monceau, o Ermione».
Come un inconfondibile sigillo, il nome di Ermione richiama la raccolta alcionia, il libro esemplare della poesia dannunziana. La 'du­rata' di quel testo è riscontrabile anche nel­la società televisiva, sia pure attraverso la deformazione parodica: un filo d’aceto pio­ve sulle verdure, mentre una voce suadente parafrasa la Pioggia nel pineto, sostituendo alle ginestre fulgenti e ai mirti divini qualche cetriolino o peperone. Da un verso dell’On­da aveva mutuato il nome uno shampoo, qualche anno fa: « libera e bella, / numerosa e folle, / possente e molle, / creatura viva / che gode / del suo mistero fugace». La noto­rietà del testo, è necessaria al suo uso pub­blicitario e al volgarizzamento musicale: «Vorrei trovare / parole nuove / ma piove pio­ve / sul nostro amor» recita la canzonetta ri­prendendo le «parole più nuove / che parla­no gocciole e foglie / lontane» nella Pioggia nel pineto, nella poesia che si è prestata più d’altre al rimaneggiamento, destinata com’e­ra all’esercizio mnemonico nella scuola d’un tempo e cavallo di battaglia per le recite de­gli aspiranti attori. Il suo controcanto più celebre è La pioggia sul cappello (1922) di Luciano Folgore : «pio­ve sul melo e sul tiglio, / piove sul padre e sul figlio, / piove sui putti lattanti, / sui sandali rutilanti, / su Pègaso bolso, / sull’orïolo da polso, / piove sul tuo vestitino / che m’è co­stato un tesauro». Ma persino Montale, s’in­tende il Montale di Satura, opera sulla lirica dannunziana l’unico suo deciso remake pa­rodico, un Piove del 1969: «Piove / non sulla favola bella / di lontane stagioni, / ma sul­la cartella / esattoriale, / piove sugli ossi di seppia / e sulla greppia nazionale. / Piove / sulla Gazzetta Ufficiale / qui dal balcone a­perto,/ piove sul Parlamento, / piove su via Solferino, / piove senza che il vento / smuo­va le carte. / Piove in assenza di Ermione / se Dio vuole, / piove perché l’assenza / è u­niversale». La parodia, nel suo senso più pieno e ricco (continiano), comprende però una gamma di sfumature e di registri di cui quello comi­co è il più vistoso ed estremo: vi può rientra­re (ma in modo assai meno esplicito che nel­l’imitazione folgoriana) una Fontana mala­ta di Aldo Palazzeschi, la poesia del 1909 che concentra l’evocazione della Pioggia nel pi­neto in una zona più circoscritta, non senza incroci con altre reminiscenze dannunzia­ne: «Tossisce, / tossisce, / un poco / si tace, / di nuovo / tossisce / … / non s’ode / romo­re / di sorta».
Formalmente più tenue, ma tanto più rile­vante, è il rinvio contrastivo alla lirica dan­nunziana esibito fin dall’attacco di A Cesena di Marino Moretti: il poeta visita la sorella sposata da poco tempo, sufficiente però a sciogliere ogni residuo sogno romantico nel­la prosa del quotidiano (più che la sorella, la disillusione tocca il cuore del poeta, il vero in­felice); e la costanza della pioggia è il corri­spettivo musicale della malinconia, rispec­chiata dalla grigia giornata come in un pae­saggio dell’anima: il poeta potrebbe ben di­re, con Verlaine, «Il pleure dans mon coeur / comme il pleut sur la ville». Dice invece: «Pio­ve. È mercoledì. Sono a Cesena / ospite del­la mia sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena»; in questo incipit è già evidente lo scarto dalla fonte, che pure viene richia­mata per lievi ma precisi tocchi (il leit-motiv della pioggia, la presenza di un’interlocutri­ce femminile). Con una tecnica gozzaniana, Moretti trasforma il calendario in versi, dan­do subito le coordinate spaziali e temporali dell’avvenimento: siamo a Cesena, di mer­coledì, e la pioggia sta fuori di casa (o dentro l’anima). Col passaggio dal plein air all’in­terno domestico, viene sconvolto soprattut­to lo statuto noetico della Pioggia dannun­ziana, dove si verificava l’epifania del mito.
È il libro esemplare della poesia dannunziana ed è entrato nella memoria collettiva al punto che un suo verso fu usato per una campagna pubblicitaria
«Avvenire» del 28 luglio 2010

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