26 luglio 2010

A sessant’anni trombo dunque divorzio, ecco spiegate le statistiche Istat

Nota sociologico-erotica di Sdm su un’impennata di numeri
di Stefano Di Michele
L’analisi più calzante, al solito, è quella marxista. Tendenza Groucho, però: “Il matrimonio è la prima causa di divorzio”. A matrimoni zero, divorzi zero. Ma siccome la gente si sposa – pur con parsimonia, sempre con circospezione – poi finisce che si separa – senza parsimonia e senza circospezione. I dati dell’Istat fanno quasi spavento: nel 2008 le separazioni sono state 84.165 e i divorzi 54.351. Per dire (anzi, dice l’Istat): nel 1995, su mille matrimoni, 158 separazioni e ottanta divorzi; due anni fa le separazioni erano 286 e i divorzi 179. Fatti i conti, il 61 e il 101 per cento in più. Ormai ci sono più candidati ai provini del “Grande fratello” che allo sposalizio.
E pare che abbiano preso un certo ritmo anche gli addii dopo i sessant’anni – quando inopinatamente, invece di volgersi verso il centro anziani, ci si avvia verso una nuova vita: un paio d’anni ancora, e nelle fiction televisive invece del solito bimbino che con aria mogia confida all’amichetto del cuore che “mamma e papà si sono lasciati”, eccolo, con una punta di sorpresa maggiore, ammettere che “nonna e nonno si sono lasciati” – che a uno viene da domandarsi: ma ’ndo vanno? E invece vanno: da un lato un certo aiutino della chirurgia estetica, che tramuta la tenera vecchietta di una volta in una smandrappona con le labbra a canotto e i capelli mesciati e leopardati, che come la famiglia si distrae un minuto se la ritrova sul palco di “Velone” che zompa e canta; dall’altro il mito e la pratica del Viagra che ha improvvisamente reso poco attraente lo scopone con gli amici e probabile qualche residua scopata con un’amica di più fresca (intesa, la definizione, dato il balzo anagrafico, come meglio conservata, un filino congelata: ulteriori quattro salti nel letto, anziché in padella) conoscenza.
Siccome la vita si è allungata, pure quella erotica ha fatto qualche passetto in avanti. “Si vive di più – ha spiegato ieri sulla Stampa il professor Francesco Alberoni – e quindi è più difficile sopportare la stessa persona”. Il problema è che quasi sempre ci si accorge a un certo punto di non stare più con la creatura scelta venti o trent’anni prima: a lei ricrescono le tette, con un inverso processo di cementificazione; lui azzarda performance che neanche nei primi infrattamenti giovanili. Berlusconianamente parlando – nel campo, tra il senso istituzionale e la sensazione mandrillesca, sempre berlusconianamente parlando si finisce, anche tra quelli che ancora s’attardano sulla partita a scopone al bar – ognuno si sente biologicamente un trentacinquenne. Mentre i trentacinquenni anagrafici stanno, al contrario, desolati come cormorani che abbiano avuto la ventura di incrociare la British Petroleum: sperduti e senza volo.
E’ quella l’età, sostiene Alberoni, in cui si convola, se non a giuste, a effettive nozze, dopo una manciata di convivenze, qualche migliaia di happy hour e, se è stata proprio una giovinezza vissuta con sprezzo del pericolo, pure qualche corso di Scienze della comunicazione: insomma, si muoveva su un terreno meno insidioso persino Romeo con Giulietta. E’ la fotografia, quella fornita dall’Istat, di una generale instabilità. Nel tentativo di conservarsi invece di conservare qualcosa – “l’aspetto fisico ha la sua importanza”, dice il professore: ma va là, direbbe Ghedini – si comincia subito a prendere la rincorsa, si vive col fiatone (metteteci la palestra, la cucina biologica, la casa arredata seguendo le regole feng shui) ed è chiaro che si arriva senza fiato. E a sessant’anni il nonno più che al nipotino butta l’occhio alla baby sitter e la nonna ai bicipiti dell’istruttore di fitness. E’ un circolo (a volte pure deliziosamente) vizioso. La chiesa fa benissimo a preoccuparsi, ma ha una sola arma in mano: buttare sul campo matrimoniale preti e monache. Avendo poca pratica, potrebbero garantire una decente durata.
«Il Foglio» del 23 luglio 2010

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