30 agosto 2010

Classici, maestri del desiderio

di Edoardo Castagna

INTERVISTA A IVANO DIONIGI
La lezione della storia, dalla classicità a oggi? «Che non tutti i desideri sono ugualmente legittimi. Per esserlo, devono avere un fondamento». Il latinista Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna che proprio sul tema del desiderio nella cultura classica interverrà il 23 agosto al Meeting di Rimini, indica anche un possibile percorso per recuperarlo, questo fondamento legittimo: «Oggi siamo sempre squilibrati: o tutti volti al passato in un acefalo conservazionismo, oppure tutti volti al futuro. Invece, quello che ci occorre è mantenere un doppio sguardo, capace di uscire dalle secche dei dualismi tra umanisti e scienziati, tra conservatori e innovatori, tra credenti e non».

In che cosa la concezione classica del desiderio differisce da quella contemporanea?
«In latino desiderium vuol dire de sideribus: smettere di contemplare le stelle e rimanerne con la voglia. Oggi diremmo rimpianto, nostalgia dell’esperienza fatta in passato – di una persona, di una cosa, di un’idea. Al contrario, per noi il "desiderio" richiama ciò che ci sta davanti, il futuro».

Un diversa concezione del tempo?
«Sì, ciclica anziché lineare. È l’ideologia del cerchio, il mito dell’eterno ritorno. Basti pensare a Virgilio, che sogna il ritorno dei Saturnia regna, dei regni di Saturno e dell’età dell’oro: con Augusto, novello Saturno. Roma, la Roma dei patres, la Roma del mos maiorum, è la culla stessa della conservazione e del passato, tanto che la parola stessa novum è sinonimo di pericolo. L’homo novus è un soggetto da tenere a bada – e che di norma finisce male, come Cicerone. L’iconoclasta Lucrezio che predica le novae res, la rivoluzione, viene demonizzato; il mito degli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro è nefas, una cosa nefasta, empia, perché si violano i confini delle res notae. Giasone prima, Ulisse dopo cercano nuove terre, infrangono le vecchie leggi per cercarne di nuove: e questo è sacrilego».

Il futuro è esclusivamente negativo?
«Più che altro il concetto di futuro non esiste proprio. La filosofia ellenistica di Roma, stoica ed epicurea, mira a curare l’animo. È la signoria del presente, e quindi l’assenza del futuro. Nello stoicismo di Seneca l’istante contiene la totalità; tutto viene interiorizzato, e l’imperativo categorico è "Vivi il presente". Il futuro, al contrario, è destabilizzante perché non è in nostro possesso. Il desiderium, insieme agli altri sentimenti – la gioia, il dolore, la paura – fa parte dei pathos, le passioni, i sentimenti: valori negativi. Il sapiens, il saggio, non muta, vive nella costanza; invece la gioia, il dolore, la paura e il desiderio creano dei motus animi che tolgono la tranquillità. Il motto degli stoici è "Nec spe nec metu", non bisogna agire né in base alla speranza né al timore, perché sono i sentimenti collegati al futuro. La classicità non conosce la speranza, un’innovazione introdotta dal cristianesimo».

In continuità o in rottura con la tradizione classica?
«Io sono tra quelli che pensano che il cristianesimo non si innesta nella classicità, anche se perfino i Padri erano divisi su questo punto. Ma credo che parlare di continuità significhi far torto sia alla classicità sia al cristianesimo. Invece ci sono almeno tre linee di divergenza. La classicità si fonda sui cardini della ciclicità del tempo, del predominio del presente e dell’autonomia del saggio – secondo il principio del finito e della misura, in una visione totalmente antropocentrica. Invece il cristianesimo vive nel tempo lineare, con la cesura rappresentata dalla venuta di Cristo; vive nel futuro, il tempo della speranza; e vive nella grande Alterità. L’antichità non conosce né speranza né salvezza, come ben ci mostra la tragedia greca; di fronte alle pulsioni l’unica risposta era la rinuncia, la disciplina, la ragione (Epicuro). I classici non sono solo fondativi del presente, ma anche antagonisti».

Un antagonismo che però ci insegna comunque qualcosa...
«Oggi, guardando la storia, vediamo i disastri generati dai desideri senza fondamento perseguiti da vari -ismi, dall’illuminismo al marxismo. Ora che hanno mostrato il fianco, possiamo recuperare la lezione classica del modo, del finito, della misura, della costanza. Ancora con Seneca: «Sapiens non mutat sententiam».
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INTERVISTA A MORENO MORANI
L'uomo antico è l’uomo della ricerca continua, incessante, del senso. Senza trovarlo. Moreno Morani, ordinario di Glottologia all’Università di Genova, al Meeting si confronterà con Ivano Dionigi sul desiderio nella cultura classica «partendo da quest’idea del desiderio come nostalgia – precisa, come ciò che non si ha ancora o che non si può più avere: la risposta, chiara e definitiva, alla domanda sul significato della vita».

Un domanda destinata a rimanere senza risposta?
«Quello che qualifica la cultura classica, il suo aspetto più importante e per noi più interessante, è questa ricerca continua – che percorre come un filo tutta l’esperienza dell’antichità – del senso della propria vita. E, nello stesso tempo, la percezione che è impossibile arrivare a una risposta definitiva con i mezzi che la ragione pone a disposizione dell’uomo. I Greci hanno inventato il logos, una delle parole più importanti e nobili di tutta la tradizione occidentale perché contiene l’idea della comunicazione tra gli uomini, l’idea della ragione, l’idea della possibilità di creare ragionamenti articolati; valorizzano quindi la ragione per tutto quello che può dare, eppure arrivano anche alla conclusione che la ragione non è in grado di rispondere a tutto, è uno strumento limitato».

Molte risposte parziali, nessuna complessiva?
«Sì, molte risposte che però non arrivano mai fino alla fine. A farlo sarà il cristianesimo, che si pone sia in continuità, sia come scarto rispetto alla classicità».

In che senso?
«È evidente un fortissimo scarto nel tipo di risposta che il cristianesimo dà ai problemi dell’uomo, completamente diversa da quello che la cultura classica poteva attendersi. Da questo punto di vista è paradigmatico l’episodio dell’incontro di Paolo con i Greci sull’Areopago (Atti 17): quando espone l’annuncio cristiano, in risposta non ottiene che derisione e disprezzo. Un greco non può accettare l’idea che Dio possa incarnarsi e farsi uomo, diventare carne con tutti i limiti propri dell’umanità; magari lo può sognare e desiderare, ma non concepirlo».

E la continuità?
«C’è anche quella, in un altro senso. Il cristianesimo ha usato spesso strumenti inventati dai pagani, dalla filosofia alle scienze. Ha cioè saputo recuperare dal paganesimo tutto quello che il paganesimo aveva inventato di buono, ma è anche andato al di là: l’uomo cristiano ha un’idea di cronos più ampia e ricca, proprio in grazia della Rivelazione, e quindi sul tempo dice cose che la cultura pagana non può neppure immaginare».

Quali?
«L’idea della creazione, che comporta anche la creazione del tempo. Per l’uomo pagano i primordi del tempo sono occupati da mostri e caos, ma non c’è creazione del tempo. Di conseguenza, per lui il tempo non è che una successione di momenti, mentre il cristiano è proiettato verso la fine dei tempi».

Altre differenze?
«L’uomo antico ha una percezione del limite molto più forte di quella del moderno, che invece coltiva false certezze. La scienza ha fatto passi enormi, specialmente negli ultimi decenni, ma così l’uomo ha perso di vista quel limite che, invece, rimane pur sempre. Mentre per l’uomo greco, ma anche latino, l’idea del limite è continuamente presente; sa che la vita è breve, che l’uomo è limitato, che al problema del dolore e della morte non si può sfuggire. L’uomo moderno cerca di dimenticarlo in grazia appunto di una sua capacità tecnica superiore: ma alla fin fine i problemi dei Greci sono tuttora i nostri, quelli comuni all’umanità da sempre».
«Avvenire» del 19 agosto 2010

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