30 agosto 2010

Giovani scrittori, imparate dall'America

Il dibattito sui nuovi autori italiani: molti di loro sono velleitari. Oltreoceano c'è chi come la Morgan dimostra un altro spessore
di Maurizio Cucchi
È giusto, nel vastissimo mare dei romanzi di nuovi autori che negli ultimi anni appesantiscono i banchi dei librai, cercare di fare il punto della situazione, di capirci qualcosa soprattutto da un punto di vista letterario, in un tempo che sembra privilegiare solo i numeri e le vendite. Il supplemento domenicale del Sole 24 Ore ha interpellato in questo senso vari critici, mettendo in moto un'idea di riflessione necessaria (sull'argomento è intervenuto anche Cordelli sul Corriere). Iniziative come queste sono utili, purché non si arrivi (come oggi si tende a fare da più parti) a stilare classifiche, che sono in fondo la negazione della critica e la brutta copia delle classifiche di vendita. Ho apprezzato anche l'intervento di Andrea Cortellessa, che sottolineava giustamente la maggiore vitalità (e direi libertà) della poesia giovane rispetto alla narrativa under 40, anche se le sue scelte coincidono solo in parte con le mie e se penso che definire la Biagini caposcuola sia piuttosto improprio.
Venendo ai narratori, devo dire che la ricerca ossessiva della novità e del talento giovanissimo ha contribuito a rendere più caotico il panorama complessivo. Tanto che oggi le motivazioni che muovono un narratore non sembrano più, essenzialmente, quelle di praticare un'arte, ma di trovare il modo di pervenire a un generico successo. Molte, insomma, le presenze velleitarie o acerbe, molti i romanzi che sanno più di sociologia spicciola che di letteratura e dunque di poesia e ricerca di scrittura e stile. Certo molto mi sfugge, visto che nelle tantissime uscite distribuite in libreria è difficile orientarsi, a meno di non leggere nient'altro; e dunque sono certo di aver perso molto del meglio. Ma è anche vero che la frequente nascita di «grandi stelle» rende un po' troppo funzionale il paesaggio della nostra narrativa al sistema del varietà totale nel quale quotidianamente siamo immersi.
Non certo per snobismo, ma per semplice curiosità e per una felice combinazione, mi è capitato di leggere in questi giorni estivi l'opera prima di una scrittrice americana nata, se non sbaglio (la notizia biografica del libro non indica l'età), nel 1976. Si tratta di Catherine E. Morgan, autrice di Tutti i viventi (Einaudi, pp. 204, € 18,50), romanzo molto bene accolto e premiato negli Stati Uniti, e che pure nella semplicità della sua storia, e nella sua linearità, mi è parso un libro di qualità insolita e di già evidente maturità espressiva. L'autrice non cerca scorciatoie o astuzie persuasive. Racconta di due giovani nel Kentucky, che si mettono assieme dopo una tragedia che ha cancellata la famiglia di lui, Orren, che è un ruvido contadino intenzionato a vivere nella fedeltà alle origini, nella continuità con il lascito familiare, mentre la ragazza, Aloma, è più vibrante e sensibile, amante della musica e pianista.
Il lettore viene coinvolto da una scrittrice che riesce a far comprendere, in ogni dettaglio, l'importanza decisiva, nell'esperienza umana, del rapporto diretto e fisico con il reale; rapporto di cui oggi sempre più siamo spossessati. C'è qualcosa di poeticamente ruvido e concreto nelle sue descrizioni, nel suo modo di rappresentare un mondo periferico e quasi astorico. Un mondo, quello del cuore degli Stati Uniti, che ha dato molta grande narrativa. la Morgan ha certo ben presenti Carson McCullers e Flannery O'Connor. Ma non può certo non aver amato l'immenso William Faulkner, o anche il più vicino Cormac McCarthy. Da un lato, nel suo racconto, il contadino legatissimo alla terra, dall'altro la ragazza che ama l'arte, che si realizza nella gioia del contatto con una tastiera di pianoforte e che troverà anche il fascino di una spinta ideale nella figura di un giovane prete di campagna. Ma, appunto, le due diverse realtà di Orren e Aloma sentono il bisogno oscuro di relazionarsi, di coesistere e sovrapporsi, alimentandosi reciprocamente.
Io credo che questa scrittrice possa costituire un esempio molto interessante, non tanto come modello possibile a cui rifarsi. Quanto per la dimostrazione che mi sembra dare di una ricerca che non può non essere condivisa da un vero scrittore: quella della paziente costruzione di un'opera nella verità personale, nella forza dello stile, nella tenace pratica di un'arte straordinaria come è quella del narrare. Considerando pubblicità e successo immediato come puri accidenti, come conseguenze marginali, e dunque del tutto secondarie.
«La Stampa» del 10 agosto 2010

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