29 settembre 2010

Quella forza misteriosa cha sa regalare la vita

Donna somala clinicaqmente morta ha dato alla luce una bimba
di Lucia Bellaspiga
Due donne, Idil ed Evelina. Non sapevano nulla l’una dell’altra fino a due settimane fa, quando le loro vite si sono incrociate nel reparto rianimazione di un ospedale torinese, dove Idil, donna somala di 28 anni, è giunta da Mogadiscio in stato avanzato di tumore al cervello. E con un feto nel grembo.
Un viaggio della speranza, quello di Idil, decisa a farsi curare il cancro che le cresceva dentro, ma ancor più a far nascere quella figlia che intanto viveva, e cresceva anche lei, più veloce del tumore. Una lotta tra il male e il bene, tra il tutto e il nulla. Una corsa contro il tempo che a Idil ha tagliato le gambe poco prima del traguardo, quando un elettroencefalogramma piatto ne ha decretato la morte. Ed è qui che Evelina, l’altra donna, primario di anestesia e rianimazione, entra in scena insieme ai colleghi: il corpo di Idil viene attaccato a una macchina, il suo cuore andrà avanti a battere, il suo sangue circolerà nelle vene, la sua linfa di madre continuerà a nutrire quel feto anche oltre la morte, fino al giorno in cui potrà vivere di vita propria.
L’epilogo è di ieri mattina, quando con parto cesareo dal ventre senza doglie è scaturito un pianto, l’esordio di ogni esistenza.
Racconta tutto con un filo di voce la dottoressa Evelina Gollo («Mi scusi, sono stata con Idil tutta la notte») e riassume quella che definisce «la più bella storia che abbia mai incontrato». E non è la stanchezza di una notte in bianco a renderne fragili le emozioni, ma una pietas che travalica anche il suo essere medico: «Lavoro qui da venticinque anni ma una storia così non l’avevo mai vista. È una vicenda che non dimenticheremo... Quel feto era precoce ma era già in grado di vivere, era un dovere morale farlo nascere». E ancor prima era la volontà di sua madre, e di un padre che si era aggrappato al suo camice bianco per guardarla negli occhi e supplicare: «Mi affido a voi, fate che nasca mia figlia, fate che viva». Pesa meno di un chilo, «ma è bella e vivace». Ce la farà. Parla, sorride e trascina la voce, la dottoressa, ora stanca e serena.
Intanto poco distante, in un’altra stanza, Idil è alle sue ultime ore. Sei, per legge. Passate le quali – prescrive sempre la legge – se l’elettroencefalogramma risulterà ancora piatto le macchine verranno spente. Solo in quell’istante il respiro cesserà, il sangue smetterà di scorrere, il cuore di battere e di Idil, «morta» da un mese, anche il corpo potrà riposare. E in una storia come questa può succedere di tutto, anche che un medico, rianimatore da venticinque anni, chieda scusa al giornalista se per un attimo esce dal suo ruolo e parla «al di fuori della mia professione», col camice addosso ma il cuore a nudo... Quello che ci vuol dire è solo un «sentimento», nulla di scientifico, ma non meno supremo: «Abbiamo scelto di interrompere le procedure di accertamento di morte per portare avanti quella donna fino alla ventottesima settimana di gestazione, era il termine che ci eravamo posti affinché la bambina vivesse, e che scadeva ieri. E proprio fino a ieri Idil si deteriorava ma resisteva, non c’era più ma restava qui a nutrirla. Quella donna ha lottato fino alla fine per far vivere sua figlia».
Mentre scriviamo le sei ore corrono. La vicenda terrena di Idil si conclude qui, con un dono supremo che la fa immortale. Sotto lo stesso tetto, in una incubatrice, una creatura raccoglie il suo respiro e lo perpetua. Le hanno dato il nome di sua madre.
«Avvenire» del 29 settembre 2010

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