07 ottobre 2010

Caro Giorello, atei o credenti senza boutade

di Vittorio Possenti
Nella risposta al mio intervento, Giulio Giorello ieri sul «Corriere della Sera» ha sollevato un problema importante e una provocazione. Il primo consiste nell’invito a costruire un’autentica solidarietà anche nei confronti dei diversi, quale elemento centrale di ogni democrazia matura. L’invito è rivolto a credenti e non credenti affinché provino a rispondere insieme. Poiché la solidarietà è in ogni caso una merce rara, occorre trovare il modo di seminarla e di nutrirla, e per questo esito non basta la buona volontà, una vaga effusione del sentimento o di una coscienza vaporosa, ci vuole l’intervento attivo dell’intelletto che riconosca nell’altro non un «qualcosa» ma un «qualcuno». Questo riconoscimento deve essere fondato nella verità, quanto meno a verità antropologica della persona umana, che allontana da sé le categorie del «signor nessuno», della non-persona, della non-più-persona, della quasi-persona. Senza la verità antropologica la democrazia matura o meno non va da nessuna parte. Come uomo e come filosofo non rinuncio all’uso della ragione, trovando nella ricerca razionale di Dio l’attività intellettuale più alta e più nobile dell’essere umano, non appartengo alla crescente classe di coloro che riservano alla filosofia solo il campo dell’etica e che così operando ne preparano la fine. La scelta dal mio interlocutore è l’ateismo metodologico, che procede «etsi Deus non daretur». Per quanto non mi senta in particolare sintonia con l’ateismo metodologico, ne riconosco la possibile utilità in una certa serie di problemi: in genere quelli delle scienze in cui l’esistenza del Trascendente rimane al di fuori del campo di queste discipline. Non sembra invece esservi molto metodo nel cammino di «arrivare a Dio prescindendo da Dio», se vogliamo usare l’espressione paradossale di un lettore citato da Giorello. La provocazione consiste nel consiglio del poeta Cecil Day-Lewis, ripresa da Giorello, di non lasciarci mai coinvolgere da una discussione con teologi. È una boutade e si può prendere come tale, ma considerata diversamente manifesta una poco raccomandabile postura che equipara la teologia all’arte dell’Azzeccagarbugli. Si lascia così ben poco spazio tanto a essa quanto alla filosofia che non vogliano in modo sin troppo scoperto restringersi a qualcosa di edificante. In altri termini la domanda sulla verità e un ateismo metodologico e anche «protestante» rende servizio nel segnalare eventuali deviazioni, ma aiuta molto meno nel riprendere alla base la ricerca della ragione. Il suo compito costruttivo e inventivo è almeno altrettanto importante del suo compito critico.
«Avvenire» del 7 ottobre 2010
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Ateismo, una via per arrivare a Dio
di Giulio Giorello
È vero, pratico il consiglio del poeta Cecil Day Lewis, alias il giallista Nicholas Blake: mai lasciarsi coinvolgere in una discussione con dei teologi. Faccio, però, un'eccezione per rispondere alle garbate critiche che dalle pagine di «Avvenire» (5 ottobre) Vittorio Possenti rivolge al mio libro Senza Dio, edito da Longanesi. In breve, non mi sarei occupato abbastanza dell'Altissimo, rischiando così di «confondere il Signore con il Dio Padrone». Ma non è «padrone» il primo significato di quel termine - dominus - cui tanta teologia ha consacrato i suoi sforzi d'intelletto e sentimento? Possenti mostra così che ho colpito nel segno, poiché la mia idea di ateismo è quella di una provocazione continua ai credenti e ai praticanti di qualsiasi religione a chiarire i loro presupposti, nella convinzione che questo lavoro serva a tutti, credenti o non credenti: l'ateismo è soprattutto un metodo. Possenti mi chiede: per arrivare a che cosa? Potrei ribattere con le parole di un mio «lettore»: magari per «arrivare a Dio prescindendo da Dio». Ossia da tutte le gabbie in cui i signori della teologia e della morale hanno imprigionato il Dio che ci parla in grandi testi come i Vangeli o il Corano, facendone semplicemente un pretesto per giustificare coazione o gerarchia. Concordo con Possenti che solo nella coscienza può sorgere l'esigenza della legge morale e civile, ma non vedo proprio perché io o qualsiasi altro «libertario» dobbiamo indicarne un qualche «fondamento» a cui sottometterci con spirito di «servizio». La possibilità di costruire un'autentica solidarietà senza «fondarla come su solida roccia» (cioè, detto senza retorica, senza imporla a chi la pensa diversamente) non è un dettaglio accademico, ma una questione cruciale per qualsiasi democrazia matura. Proposta per gli amici di «Avvenire» (e per tutti i cattolici aperti al confronto delle idee): perché non proviamo a rispondere insieme?
«Corriere della Sera» del 6 ottobre 2010

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