05 ottobre 2010

Claude Monet, l’occhio assoluto

Una grande mostra rende omaggio al genio dell’artista delle «Ninfee», per il quale la natura (en plein air) non era mai matrigna. Una sfilata di capolavori antitragici davanti a cui però sembra mancare un po’ di cuore
di Maurizio Cecchetti
Diamo a Monet quel ch’è di Monet, cioè la vetta sulla sca­la del sublime pittorico. Fat­to chapeau al mostro di bravura – Cézanne ne dà una definizione esatta: «Monet non è che un occhio ma, buon Dio, che occhio!» –- si può anche inquadrare Monet nello spi­rito di una pittura che ama, come Narciso, se stessa e vuole rivaleggia­re con 'Natura'. In un saggio pre­sente nel catalogo della mostra che si è aperta da poco al Grand Palais di Parigi (una delle più importanti mai realizzate e forse irripetibile per la mole e per il contesto in cui avviene, cioè nella Parigi che fu per Monet il 'luogo materno'), Richard Thom­son parla di 'naturalismo emotivo' riferendosi ai dipinti di Monet degli anni 1881-’91, ma si tratta, in fondo, di una definizione che può valere per tutta la sua pittura e fino alle ultime opere dove nel giardino di Giverny, che lui stesso organizzò come se già stesse dipingendo un quadro, con caparbia inquietudine scavò giorno dopo giorno il solco di una nuova pittura che la critica considera oggi una fonte dell’'informale' novecen­tesco.
Ciò che vale per il linguaggio pitto­rico non deve ingannare sui signifi­cati interni di un certo modo di di­pingere e quello di Monet non c’en­tra quasi nulla con l’informale nato dalle viscere di un mondo annien­tato da una spaventosa guerra. Con Monet siamo su un altro piano di considerazione dell’umano. Doven­do tracciare un’arcata elettiva, si po­trebbe dire che la pittura di Monet ha come estremi di partenza e di ap­prodo Turner e Pollock, ma rispetto al loro orizzonte quella di Monet è u­na pittura 'chiara', ovvero antitra­gica nello spirito. E la mostra di Pa­rigi lo dice con perentoria e mono­tona determinazione. Monet ha di­pinto per tutta la vita nella 'sublime indifferenza' verso ciò che lo cir­condava. In un testo emblematico raccolto da François Thiébault-Sis­son e pubblicato il 26 novembre 1900 su 'Le Temps', Monet traccia per sommi capi la sua biografia d’arti­sta. Fin da ragazzo – per dirla senza giri di parole – se ne frega di tutto, e oppone una tenace resistenza ai ten­tativi paterni e materni di fargli cam­biare idea. A quindici anni era già un brillante caricaturista a Le Havre, do­ve viveva con la famiglia: «Tassavo i miei clienti in base al loro reddito». Quando, l’anno dopo, decide di ri­tornare a Parigi, dove era nato, ha con sé un gruzzoletto di duemila franchi che gli permette di essere au­tosufficiente rispetto alle minacce paterne di tagliargli i viveri. A vent’anni, va sotto le armi: un bien­nio in Algeria e poi il congedo, aiu­tato dal padre che nel frattempo ha accettato l’idea di avere un figlio pit­tore.
Tornando a Parigi Monet segue per un po’ la scuola di un pittore acca­demico, Gleyre, ma presto comincia ad annoiarsi. «Si ricordi, giovanotto, che quando si esegue una figura oc­corre sempre pensare agli antichi», lo ammonisce Gleyre. Che effetto po­teva avere su Monet, esemplare sel­vatico di uomo-natura, un monito del genere? Quello di farlo fuggire al­trove. E infatti rinsalda l’amicizia con Pissarro, Sisley, Bazille e Jongkind: «Mi lanciai anima e corpo nella pit­tura en plein air». E sebbene Proust scrivesse che Manet era il patriarca dell’ en plein air, facendo imbestia­lire Degas che conosceva bene i fon­damenti 'classici' del pittore del Déjeuner sur l’herbe e dell’Olympia, Monet nel 1900 mostra di avere le i­dee chiare sul suo diritto di prece­denza: Manet? Dopo di me.
A questo punto, tagliando corto, si arriva ai primi capolavori: la mostra mette l’uno dietro l’altro una sfilza di quadri di paesaggio eseguiti tra il 1865 e il 1870 di fronte ai quali am­mirati ci si domanda: «Ma come ha fatto?». Proprio così: come ha fatto? Un mostro, per la sapienza con cui rende la realtà senza diventare un pittore di trompe-l’oeil . È, in genere, la realtà che piace al mondo bor­ghese che sta nascendo. Due parole esprimono lo spirito di questa pit­tura: metamorfosi e alchimia. Senza tanti impliciti culturali o classici, Mo­net stringe nell’amplesso del colore la natura madre e sposa («La natura è il mio atelier»). Pittore dei quattro elementi, luce e materia sono una sola cosa per lui, come nel crogiolo dell’alchimista. Non ha senso di­stinguerle, perché si finirebbe per ri­durre tutto all’occhio. Guardando la serie della Cattedrale di Rouen dob­biamo fare uno sforzo per non se­guire la via che questa pittura ci sug­gerisce. In mostra queste tele sono messe accanto alla serie 'pop' di Li­chtenstein, paragone comico, se vo­gliamo, perché travisa lo spirito dei quadri di Monet portando l’accento sulle strutture della percezione visi­va, mentre quella serie nasce come sensazione corporea delle cose tra­sformate dalla luce, che le incendia e le fa ribollire come lava policroma e preziosa che si giustifica in sé stes­sa. «È atroce la luce»; e ancora: «Ho avuto una notte di incubi; la catte­drale mi crollava addosso, sembra­va blu o rosa o gialla». Che senso a­vrebbe per questo uomo-natura fer­marsi alla superficie delle cose senza creare la regola per fare della pittura u­na materia vivente?
Ed ecco che Monet tenta l’impossibile, cesellando, come un orafo raffinato e barbaro al tem­po stesso, l’apo­teosi della vita nella metamorfo­si gloriosa della materia. Ma l’a­poteosi, come in­segnano gli anti­chi rituali fune­bri, ha in sé il germe della fine.
Di ciò che si di­sfa e scompare.
A questo, Monet, tenta di resistere e la pittura diventa per lui un’osses­sione: «Non dormo più per colpa lo­ro (delle Ninfee). Di notte sono os­sessionato da ciò che sto cercando di realizzare». Lo dice a un passo dalla morte, nel 1925, e ne è cosciente: «Ho i giorni contati... Domani forse...». Nel 1913 confessò il disgusto per tut­to ciò che aveva dipinto. Era la tipi­ca crisi di chi sta cercando il proprio capolavoro, quello dell’Orangerie. Qui si diventa spettatori della nuova creazione nel grembo acquatico del­l’inizio (o della fine). Una musica si­lenziosa risuona dentro di noi, e sul­le acque morte di Monet sembrano danzare gli astri infelici di Debussy. Strepitoso, Monet. Strepitoso e va­no. Mai un segno di incertezza, un dubbio sulla pittura, una distrazio­ne per dar conto di ciò che accade at­torno a sé, della tristezza di un mon­do che si sfalda. In Algeria sembra­va affascinato dalla selvatichezza della vita militare; ma quando scop­pia la guerra franco-prussiana, nel 1870, Monet ha già trent’anni e fug­ge a Londra. Edmond de Goncourt nel 'Journal' annota di quel perio­do memorie come questa: «Freddo, bombardamento e carestia: ecco le strenne del 1871». Era Capodanno nella Parigi sotto assedio dove tren­tatré grammi di carne di cavallo (os­sa comprese) «deve bastare a due persone per tre giorni». Nel 1900 Mo­net ricorda questo espatrio con fra­si laconiche: «Venne la guerra. Mi e­ro appena sposato. Mi trasferii in In­ghilterra » e, aggiunge, vi «conobbi anche la miseria». C’è un che di as­solutorio in queste parole. L’accen­no al matrimonio sembra quasi un alibi postumo se si pensa che nel 1879 aveva scritto a Clemenceau: «Al capezzale di una persona morta che mi era molto cara... mi sorpresi a se­guire la morte nelle ombre del colo­rito che essa depone sul volto con sfumature graduali. Toni bli, gialli, grigi...». La persona cara era la prima moglie, Camille, con la quale fuggì a Londra durante la guerra. Dicendo 'cinismo', intendevo appunto que­sto prevalere dell’occhio sul cuore. Non so se si abbia il diritto di giudi­care un artista anche come uomo, credo di no. Qui, però, non si vuol giudicare un uomo, ma capire come un artista veda il mondo e cosa met­ta al primo posto. Monet ha sempre messo la sua pittura, macchina mi­steriosa che trasforma il fango in o­ro, e in questo modo redime la na­tura stessa, la rende antitragica (fa­cendoci dimenticare che essa è an­che matrigna). «Bisognerebbe di­pingere con l’oro e con le gemme», diceva. Mi fa pensare all’Oriente, al­la luce sacrale che con l’oro occulta l’agire crudele di certi imperatori bi­zantini. E in effetti in Monet la luce, l’oro e le gemme celano allo sguar­do la vita reale del suo tempo. La Vil­le Lumière è, nella sua pittura, il luo­go dell’origine dove le forze primor­diali e incandescenti diventano una sorta di maschera pirotecnica che occulta il mistero tragico dell’esiste­re. L’uomo, in questa visione, è sol­tanto un accidente.
Parigi, Grand Palais e Orangerie, MONET, fino al 24 gennaio 2011
«Avvenire» del 5 settembre 2010

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