16 ottobre 2010

Il bambino è malato? Allora la madre surrogata deve abortire

Cronache eterologhe
di Nicoletta Tiliacos
Una coppia di Vancouver ha voluto che la donna da cui aveva affittato l’utero non partorisse il figlio Down
Cronache dal Mondo Nuovo. Dopo aver fatto ricorso all’utero in affitto per avere un figlio, una coppia di Vancouver ha scoperto con l’amniocentesi che il bambino atteso era affetto da sindrome di Down. A quel punto, ha preteso che la “madre surrogata” abortisse. La vicenda è finita sui giornali canadesi solo perché la madre surrogata all’inizio si è rifiutata di dar seguito alla richiesta della coppia. Ne è nato un contenzioso – davvero degno della fantasia di Huxley e del suo “Brave New World” – sul valore dell’accordo privato concluso in precedenza, che garantiva ai committenti la possibilità di rifiutare un figlio malato. I due genitori biologici hanno annunciato che se il bambino fosse nato (ma alla fine l’aborto c’è stato), loro non avrebbero assunto nei suoi confronti nessuna responsabilità. E’ la logica commerciale: c’è una coppia di committenti, c’è una prestatrice d’opera (ufficialmente a titolo di solidarietà, perché le regole canadesi lo richiedono, ma un pagamento c’è: lo chiamano “rimborso spese”), c’è un prodotto che deve rispettare certi standard. Se il prodotto è difettoso, il committente recede, e con lo stesso diritto con cui si noleggia una donna per una gestazione, le si intima di interromperla.
Intervistata dal quotidiano National Post, Juliet Guichon, bioeticista dell’Università di Calgary, avanza dubbi sull’applicazione di “regole commerciali al concepimento di figli”. Sally Rhoads, che con il sito Surrogacy in Canada assiste le coppie che ricorrono all’utero in affitto, pensa invece che “le parti dovrebbero accordarsi fin dall’inizio sul da farsi, e garantirsi di pensarla nello stesso modo sull’aborto”. La contrattualistica procreativa va solo perfezionata. Alcuni stati americani consentono alla coppia committente di portare in tribunale la fornitrice di utero, allo scopo di recuperare il compenso già corrisposto, se questa si ostina a voler partorire un bambino nel frattempo diventato indesiderato. In Canada, in altri tre casi di rottura imprevista del contratto di maternità surrogata (le coppie committenti avevano divorziato mentre le gestazioni erano in corso), le fornitrici di utero hanno deciso di partorire e di tenere con sé i bambini, dei quali sono diventate madri a tutti gli effetti.
Questo accade nel mondo ricco. “E’ etico pagare i poveri del mondo per far loro partorire i nostri bimbi?”, si chiedeva un anno fa Vanity Fair, con un impressionante reportage sulle moderne schiave indiane dell’utero in affitto. I signori Pankert di Tubinga – uno storico dell’arte lui e una direttrice di banca lei – si sono risposti di sì. E visto che la Germania proibisce severamente sia l’eterologa femminile sia l’utero in affitto, si sono rivolti a una delle tante cliniche indiane della fertilità. Sono nati i gemelli Jonas e Philip, frutto di una fornitura di ovociti e di utero in affitto da parte di due diverse donne indiane, al modico prezzo di seimila euro. Ma i bambini, scrive lo Zeit, vivono ancora a Jaipur con il padre, perché non hanno passaporto. Sono tedeschi, dicono le autorità indiane, che consentono ormai tutte le pratiche eterologhe, per coppie e per single, ma non intendono dare la cittadinanza alle centinaia di bambini che ogni anno nascono nel paese grazie a quelle pratiche. Sono indiani, replicano i tedeschi, per i quali vale la nazionalità della donna che ha partorito i gemelli.
«Il Foglio» del 16 ottobre 2010

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