30 novembre 2010

L’immaginazione medicina contro la crisi

Le ricadute dei tagli all'istruzione
di Roberto Mussapi
La filosofa statunitense Martha C. Nassbaum, docente all’università di Chicago, pubblica sul Times Literary Supplement un lungo e interessante articolo sulla situazione degli studi umanistici a livello internazionale (cui aveva parlato anche in una recente intervista ad Avvenire).
Il ben documentato studio è incentrato sul tema della crisi che riguarda gran parte del mondo, crisi notoriamente economica ma, a parere (fondato) della Nassbaum, crisi culturale, spirituale, che se non arrestata rischia di precipitare in crisi morale, ontologica, insomma in una voragine autodistruttiva. L’autrice si riferisce a tre aree molto vaste: l’Europa, l’Asia (con maggiore attenzione all’India, perché più simile all’Occidente per tradizioni scolastiche) e gli Stati Uniti.
Parla di una crisi appunto molto più ampia di quella puramente economica, e prosegue: «Sono in corso cambiamenti radicali in quello che le società democratiche insegnano ai giovani, e su questi cambiamenti non si riflette abbastanza. Attirati dal profitto, molti Paesi, e i loro sistemi scolastici stanno escludendo alcuni saperi indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza continuerà, gli Stati di tutto il mondo produrranno generazioni di macchine docili, utili e tecnicamente qualificate, invece di cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da soli, mettere in discussione le consuetudini, e comprendere le sofferenze e i successi degli altri». L’inseguimento esclusivo dei beni materiali , che il grande poeta indiano Tagore definisce il nostro 'rivestimento', va a scapito dell’immaginazione che rende umani. La conoscenza non è garanzia di buona condotta, prosegue l’autrice, ma l’ignoranza garantisce una condotta cattiva. Il taglio agli studi umanistici si è registrato con l’apparire della crisi economica, taglio drastico in Asia ed Europa, meno grave ma serio negli Stati Uniti.
L’immaginazione, che si coltiva con gli studi umanistici considerati optional, è ingrediente fondamentale per resistere e rinascere. «Un elenco di fatti, senza la capacità di valutarli, può essere dannoso quanto l’ignoranza».
La Nussbaum prosegue indicando come il taglio all’istruzione umanistica, agli studi sulla letteratura, la poesia, e l’arte, sia generale e cieco, quasi a estirpare un’erba inutile, la cui bellezza persino ormai tende a sfuggire. La sua preoccupazione non è poetica: non è un artista che difende il proprio mondo. Il che sarebbe legittimo, ma meno significativo. È uno studioso della società che ne vede l’incancrenirsi.
Vede la crisi culturale e spirituale come causa prima di tutto. È un’analisi precisa e chiara. Si taglia l’immaginazione per salvare l’economia, e si manda a picco il mondo. La versione concreta, valutabile, di un fenomeno più profondo e subliminale, che ne è a mio parere alla base: l’oblio, lo sgretolamento del sacro, che caratterizza il Novecento, il secolo alle spalle. Dove non a caso le punte di resistenza sono poeti, artisti, o grandi figure religiose. La studiosa americana sottolinea con precisione una tendenza perversa e suicida dei governi di tre quarti del mondo a tagliare l’immaginazione che ci fa liberi, a tagliarla di fatto, concretamente, nei programmi di insegnamento. E predice, giustamente, rovina.
Un anno fa il Pontefice riceveva noi artisti perché da tempo la Chiesa aveva compreso questo nodo di importanza assoluta: la difesa dell’immaginazione significa difesa dello spirito, della libertà, condizioni essenziali perché gli uomini possano degnamente lottare per la vita, anche nei suoi sacrosanti aspetti pratici ed economici.
«Avvenire» del 30 novembre 2010

28 novembre 2010

Fra N. Eymerich, Manuale dell'inquisitore, a. D. 1376

a cura di Rino Cammilleri
La "leggenda nera" sull'Inquisizione è stata da tempo smantellata dagli storici di professione, con un ridimensionamento di tali proporzioni da far temere ad uno dei maggiori specialisti italiani, Adriano Prosperi (non a caso di gran lunga il più citato nelle pagine che seguono), il passaggio ad una leggenda rosa". Il timore è che si finisca col non sottolineare a sufficienza l'intolleranza di quel tribunale ecclesiastico che pretendeva di uniformare tutte le idee in circolazione ad una sola, la sua. Prosperi: "La scoperta che i giudici di quel tribunale agivano sforzandosi in buona fede di fare correttamente il loro lavoro e che spesso riuscivano ad arginare ondate di sospetti e d'intolleranza, che la loro procedura era rigorosa, che non desideravano far soffrire gli imputati, non significa sostituire alla "1eyenda nigra" una "leyenda rosada"" (Inquisizione: verso una nuova immagine?, in "Critica storica" n. 25, [19881). Già. Ma il lettore comune quanto sa di tale "scoperta"?
Comunque, qui si ricade nel solito problema del "revisionismo" storico, termine d'origine marxista che postula una verità ` ufficiale" da salvaguardare per non correre il rischio che qualcuno possa, a furia "revisionare", subire tentazioni nostalgiche. Ma noi siamo convinti che, oggi come oggi (ma anche domani come domani) solo un visionario potrebbe pensare alla restaurazione di un Ancíen Régime in cui il Sant'Uffizio tenesse la conta di quelli che si confessano e fanno la comunione. Dunque, preferiamo subire la tentazione supremamente democratica di far sapere a tutti, anche al lettore medio, quel che gli storici accademici sanno bene da un pezzo. Perché il lettore (unico padrone e datore di lavoro di quelli come noi; l'unico, dunque, di cui c'importi il parere) di un argomento spinoso come l'Inquisizione dovrebbe continuare ad avere solo l'immagine fornita da romanzi "gotici" come Il pozzo e il pendolo o Il nome della rosa? Si deve ancora perpetuare la sgradevole distinzione tra cultura "alta" per le élites e "bassa" per il volgo? Nel nostro paese i cattolici sono tanti, e sono senz'altro interessati alla verità su uno "scheletro nell'armadio della loro storia, anche se qualche prelato o intellettuale potrà essere infastidito dalla riapertura d'antiche ferite.

Tuttavia, il libero mercato presenta un aspetto - nel caso in questione meraviglioso: uno è padrone di comprare o meno questo libro, senza che un'Inquisizione lo processi per averlo fatto.
Il materiale sull'Inquisizione è ormai davvero immenso, ed è il motivo per cui nelle pagine seguenti verranno citate solo le opere a nostro giudizio più rappresentative, a malincuore trascurando - per esempio cose notevoli ma ponderose come i cinque volumi della Storia dell'Inquisizione in Italia di Romano Canosa e privilegiando autori tutt'altro che teneri nei confronti dell'Inquisizione. La scelta di proporre e commentare il Directorium di Eymerich nella versione cinquecentesca del Peña è stata suggerita dal singolare revival che l'inquisitore medievale subisce ai nostri giorni, trasformato com'è in protagonista di romanzi di fantascienza da un autore d'Urania, Valerio Evangelisti. In questo modo si è avuta la possibilità di offrire una specie di "summa" sull'argomento sfruttando un personaggio che i giovani conoscono, un manuale da inquisitori medievali con un aggiornamento di due secoli dopo, una succinta panoramica di quanto la moderna storiografia ha assodato. Chi vuole avere un'idea "veloce" di quel che fu davvero l'Inquisizione, non deve fare altro che leggere questo libro.

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Tuttavia è giusto avvisare il lettore, nostro signore e padrone, che commetterebbe un grossolano errore se leggesse le parole di Eymerich e di Peña con gli occhiali di fine XX secolo. Per due motivi. Il primo è che la "tolleranza", quale oggi la s'intende nel pensiero "debole" e politically correct, cinquecento anni fa (epoca di Peña) e - a maggior ragione - settecento anni fa (epoca di Eymerich) era invece intesa nel suo senso letterale di "sopportazione". Dall'Illuminismo in poi "tolleranza religiosa" ha significato indifferenza verso qualsiasi credo, religioso o no, adducendo che, se la religione porta a guerre e massacri, è meglio relegarla nel privato. Purtroppo i giacobini non trovarono altro mezzo c e imporre questa loro idea con guerre e massacri, il che ci riporta al punto di partenza. O meglio, fuori strada, perché un libro di storia è un libro di storia: lo si legge e poi, se si vuole, si esprime un giudizio; giudizio che è più lucido se si è avuta la possibilità di ascoltare tutte le campane.

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Un altro errore da non commettere, nel leggere questo Manuale dell'inquisitore, è pensare che alle direttive dei compilatori di simili testi seguissero pronte applicazioni. Gli inquisitori consultavano questi manuali solo per la procedura. La pratica quotidiana di quelli che erano pur sempre dei preti - e non cessavano di esserlo per il fatto di trovarsi addosso un'incombenza pesante e non di rado pericolosa - può genericamente riassumersi nella formula "fulmini dal pulpito e misericordia nel confessionale". Anzi, proprio perché i contemporanei non sopportavano la clericalis mollities e tra il comandare e l'essere obbediti, a quei tempi, ce ne correva, Eymerich e chi per lui si vedevano costretti a rincarare la dose, sperando che dalla moltiplicazione delle minacce verbali scaturisse almeno un'accettabile percentuale di successo.
"Demonizzata dalla polemica protestante, attaccata con determinazione dagli illuministi fino a disinnescarne il legame col "braccio secolare", l'Inquisizione attirò poi le fantasie romantiche". Così il Prosperi (Introduzione, p. XVII) in un volume che il lettore troverà citato ad iosa: Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, 1996. A distanza di secoli c'è chi pubblica libri in cui si mostra un altro aspetto di Nerone; nulla di male, dunque, a far sapere che gli inquisitori costituivano di fatto l'ultima speranza del reo, ricercato come sovversivo dal "braccio secolare", cioè il potere civile. Se si pentiva e dimostrava di voler rientrare nella Chiesa, questa lo proteggeva e gli salvava il collo. In caso contrario, respinta l'ultima possibilità di salvezza, essa era costretta ad "abbandonarlo al braccio secolare", cioè a quel destino che il reo aveva volontariamente e ostinatamente perseguito.

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Questo punto, di capitale importanza, va tenuto presente se si vuol comprendere il linguaggio crudo ed esplicito di Eymerich (e di Peña; del quale tuttavia, per non pesare troppo sui lettori, abbiamo preferito riportare solo i passi essenziali). Certo, oggi siamo abituati a ben altra prudenza da parte degli ecclesiastici.
Ma al tempo di Eymerich non c'era timore di venire equivocati. Anzi, una certa apparente spietatezza era quasi d'obbligo per non confermare A potere civile (e lo stesso popolo) nel sospetto che la Chiesa fosse di suo troppo indulgente con colpevoli del delitto più alto: lesa maestà, il crimine peggiore nel mondo antico, la cui pena fin dai tempi di Diocleziano era il rogo. La Chiesa aveva dovuto lottare a lungo e duramente per sottrarre l'eresia alla giurisdizione civile: se si fosse mostrata troppo intenzionata a risparmiare gli eretici, tale giurisdizione (sempre periclitante) le sarebbe stata sottratta e l'eretico non avrebbe avuto misericordia. Divergenti erano infatti gli interessi dei due "bracci": quello spirituale, tendeva a far rientrare l'eretico nell'ovile di Pietro; quello secolare, a eliminare ogni minaccia di sovversione.

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Altra fantasmagoria entrata per sempre nel nostro immaginario è quella che vede negli eretici degli inermi "martiri del libero pensiero". "Ora, finché la letteratura sull'Inquisizione è stata soprattutto di origine protestante ( ... ) si è potuto tranquillamente demonizzare quell'istituzione (strumento dell'Anticristo, si diceva) ed esaltarne le vittime come martiri della verità. Una nozione schematica e superficiale" (L'inquisizione: verso una nuova immagine?, cit., pp. 141-142). Dalle pagine che seguono si vedrà che l'eresia fu oggetto degli affanni inquisitoriali solo in minima parte e in periodi circoscritti. Il più del tempo gli inquisitori lo dedicavano a truffatori che si fingevano preti, bigami o trigami, fattucchieri denunciati da clienti delusi. Non solo: gli eretici veri e propri, specialmente nel periodo della lotta al protestantesimo, erano quasi tutti frati e preti. In più, gli eretici propriamente detti erano le mille miglia lontani dal rivendicare la "tolleranza" o l'equivalenza delle fedi. Potendo, si sarebbero comportati (e dove furono maggioranza si comportarono) come gli inquisitori, e anche peggio.
Certo, per la sensibilità odierna la libertà è un valore molto superiore alla verità. Anzi, è l'unico valore, laddove alla nozione di "verità" ci si avvicina con l'atteggiamento sospettoso di Pilato ("Quid est veritas?") o, peggio, con quello condannatorio di Umberto Eco ne Il nome della rosa, il cui protagonista dichiara senza mezzi termini che l'unica passione insana da cui è d'uopo liberarsi è appunto quella per la verità. Chi crede che la verità esista è un sognatore (secondo Pilato) o un pericoloso fanatico (secondo Eco).
Beh, la Chiesa crede alla verità, e anche l'Inquisizione ci credeva. Girando il problema all'ultimo grande inquisitore vivente, il cardinale Joseph Ratzinger (che è prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ex Sant'Uffizio) centra il tema in un suo libro: La via della fede. Le ragioni dell'etica nell'epoca presente (Ares, 1996). E ribatte: già, ma che cos'è la libertà? La definizione di libertà non deve essere completata mediante il legame con la ragione, pena la caduta nella tirannia dell'irrazionalità? Per esempio, il marxismo si è presentato come liberatore ma si è risolto nel più grande sistema di schiavitù della storia. La Rivoluzione francese iniziò come idea democratica costituzionale, anzi fece sua l'idea rousseauiana di anarchia individualista, e divenne una dittatura sanguinaria e accentratrice. La Riforma protestante "liberò" l'individuo dalla gerarchia ecclesiastica e dal dogma, creò le chiese nazionali e finì con il rafforzare il potere dello Stato.
Leggendo Sartre ci si rende conto che la libertà radicale, totale, dell'individuo non porta in nessun posto, è un fallimento angosciante e senza senso. L'antica tentazione (" ... sarete come dei ... ") si ripete nel desiderio di indipendenza da tutto e da tutti: dalla legge, dall'autorità, dalla realtà stessa, come i paradisi drogastici promettono. Insomma, il problema è ancora e sempre teologico, perché solo Dio può godere della libertà assoluta; invece l'uomo è tanto più libero quanto più liberamente accetta la verità, dalla forza di gravità in su. Solo accettando le leggi fisiche, infatti, si può volare; se le si rifiuta, ci si sfracella.
Senza l'adesione alla verità, dice sant'Agostino, non c'è differenza strutturale tra uno Stato e una ben ordinata banda di predoni. E senza responsabilità non si dà libertà. Ma in che consista la responsabilità oggi è stabilito dal consenso. Solo che il consenso è manipolabile, e i miti sono più attraenti della verità.
Dice Ratzinger: "La patologia della religione è la malattia più pericolosa dello spirito umano. Essa si dà nelle religioni, ma esiste propriamente anche là dove la religione è respinta come tale e viene attribuito un ruolo assoluto a beni relativi: i sistemi ateistici dell'epoca moderna sono gli esempi più spaventosi di una passione religiosa alienata dalla sua essenza". Morale: se la verità non esiste, non esiste nemmeno la libertà. Come dice il Vangelo, solo la verità rende liberi. Questo concetto era chiarissimo e pacifico per tutti al tempo dell'Inquisizione.

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E ci sia consentita un'ulteriore riflessione. Le recenti follie di fanatici settari (il suicidio di massa della Guyana, quello svizzero-canadese del Tempio Solare, quelli statunitensi di Internet, e poi "Satana" Manson, Waco o il gas nervino nella metropolitana di Tokyo) inducono a sospettare che forse l'attenzione inquisitoriale abbia davvero, nei secoli passati, salvato il cervello degli europei e rimandato il più possibile i disastri operati da utopie, ideologie e culti disumani. Forse. E, certo, la storia non si fa con i "se". Ma, grazie a Dio, nemmeno con i moralismi.
In ogni caso, il lettore a cui della diatriba sulle leggende nere o rosate non importa nulla potrà godersi, leggendo questo Manuale, uno spaccato di vita medievale (e anche rinascimentale) quale non sempre è dato di vedere direttamente sulle fonti.

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Un'ultima cosa. Il Vaticano ha di recente aperto agli studiosi gli archivi del Sant'Uffizio. Correvano strane leggende metropolitane su questo archivio, la cui "chiusura" era attribuita a chissà quali segreti da nascondere. Le cose, al solito, erano più semplici. Quasi cinquecento anni di documenti rappresentano una mole immensa, una spaventosa congerie di carte che richiede catalogazione da parte di esperti. Finalmente, tale lavoro è stato completato e uno studioso interessato può utilmente chiedere il tal documento, ben sapendo che l'archivista è adesso in grado di trovargli in tempo ragionevole il volume in cui è contenuto. Come mai c'è voluto tanto? Anche qui, la risposta è semplice: le vicende politiche e umane. Muore un papa, se ne fa un altro (passa il tempo); muore l'archivista esperto, non ce n'è uno che possa sostituirlo subito; c'è una guerra di mezzo; c'è il papa, c'è l'archivista e non c'è guerra, ma la situazione è fortemente anticlericale, meglio allora rimandare. E così via. C'è anche un altro aspetto da tener presente: la maggior parte degli studiosi sono curiosi dei processi per eresia, ma questi costituiscono solo un'infima parte dell'archivio del Sant'Uffizio; il più è formato dalle grandi controversie teologiche del XVI secolo, i fenomeni di falso misticismo del secolo seguente, i movimenti spirituali di quello successivo, il confronto con l'illuminismo nel XVII secolo, con il liberalismo, il marxismo, il positivismo, l'evoluzionismo nel XIX. Si aggiunga che tra il 1816 e il 1817 l'intero archivio fu requisito e portato a Parigi dai napoleonici, cosa che causò la perdita pressoché totale dei documenti attinenti ai processi. Alla Restaurazione, pochissimo potè essere recuperato (molti documenti vennero usati come carta da camino, altri furono trovati nella bancarelle dei pescivendoli, che se ne servivano per avvolgere la merce), anche perché il governo francese non volle accollarsi le spese del trasporto a Roma. Nella vicenda rimasero coinvolti anche i documenti riguardanti i processi di Galileo e Giordano Bruno.
Le carte messe a disposizione degli studiosi arrivano fino al 1903. Qualche teologo sospeso a divinis se ne è lamentato, insinuando, anche qui, "cose da nascondere". Ma la storia del XX secolo è nota, e l'attività inquisitoriale del Novecento al massimo riguarda Padre Pio o beghe di monaci. In quel tempo il pontefice san Pio X rimaneggiò completamente l'istituzione, preparando il terreno alla riforma di Paolo VI. Dunque, gli ultimi novant'anni sono di scarso interesse laico".
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Il famigerato Indice dei libri proibiti? E' sempre stato, per ovvi motivi, a disposizione di tutti. Copie d'antiquariato possono reperirsi agevolmente sulle bancarelle dei Navigli a Milano. Tale Indice - è bene ricordarlo - serviva solo ai devoti obbedienti: a volte passavano quaranta, cinquant'anni prima che un libro venisse inserito nell'Indice. Infatti occorreva prima leggerlo, magari tradurlo, esaminarlo, sottoporlo agli esperti. Nel frattempo, quanti lo volevano leggere avevano avuto ogni agio per farlo. Non solo. Le censure dovevano essere apposte a mano, copia per copia, coprendo di inchiostro nero le righe censurate. Insomma, l'Indice aveva, di fatto, solo un valore, appunto, indicativo per i credenti.

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Ed eccoci a questo Manuale. L'opera di Eymerich fu uno dei testi di consultazione più diffusi, con un'incidenza anche maggiore di quella, pur celebre, di Bernardo Gui. Un inquisitore, data la puntigliosità con cui doveva essere applicata la procedura, quasi non poteva farne a meno. Diviso in parti, in capitoli e in paragrafi (addirittura con, in certi punti, una scansione numerica a-domanda-risponde che ci fa facilmente immaginare il dito dell'inquisitore scorrere sulle righe alla ricerca della risposta che faccia al caso suo), assemblava in un unico, comodo volume una vasta congerie di disposizioni le più disparate provenienti da bolle, concili, decreti, canoni. In più, metteva a disposizione per una vastissima gamma di situazioni la consumata esperienza di un inquisitore rinomato per dottrina e precisione. La sua validità sfidò i secoli, tanto che, mutati i tempi e le eresie, non si stimò necessario provvedere alla confezione di un nuovo manuale; fu sufficiente incaricare Francisco Peña di aggiornarlo qua e là nelle parti divenute obsolete. Così, un manuale concepito in tempi di catarismo poté essere tranquillamente utilizzato anche per far fronte al protestantesimo. In fondo, come ha detto qualcuno, le posizioni eretiche sono come quelle erotiche: combinazioni monotonamente diverse all'interno di una gamma tutto sommato piuttosto ristretta.
Tuttavia, il discorso sull'Inquisizione (che è in fondo quel che più ci interessa) rischiava di restare monco. Il lettore, infatti, si sarebbe trovato ad avere a che fare con un testo specialistico concepito per ecclesiastici di settecento anni fa, e a delle chiose che avevano senso solo nel XVI secolo. Era opportuno, dunque, dare una "terza mano" di vernice sul tutto, per mostrare al lettore comune di fine millennio una figura per quanto possibile a tutto tondo del fenomeno Inquisizione. Ove opportuno, come un moderno giureconsulto (ma con intenti questa volta divulgatori), ho aggiunto esempi, chiarimenti, paragoni, citazioni, fatti storici, sperando che dal risultante mix di commenti e documenti scaturisca una panoramica generale quale non è dato di vedere nelle opere che parlano dell'Inquisizione ma non fanno parlare gli inquisitori.

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E adesso, scusandomi per le troppe precisazioni e parentesi, passo la parola al libro. Ma mi chiedo: a chi interessa, in fondo, la vera storia dell'Inquisizione? Domanda legittima, visto che un quotidiano italiano di grande diffusione (L'Unità), nel dare notizia dell'apertura degli archivi inquisitoriali, datava al 1442 la Riforma luterana, papa Paolo III e il Concilio di Trento. Il che, come notava l'editorialista Socci su Il Giornale, "è come collocare nel 1848 la seconda guerra mondiale e la bomba atomica". Insomma, l'Inquisizione? (Forse) molto rumore per nulla.



AVVERTENZA
L'Inquisizione non fu affatto un'istituzione monolitica, ed è più corretto parlare non d'Inquisizione ma delle Inquisizioni. Sommariamente, esse furono: Inquisizione episcopale (sec. XII); Inquisizione legatizia (sec. XII-XIII); Inquisizione papale-monastica (sec. XIII-XV; Inquisizione romana (dal 1542 in poi), diventata nel 1588 Congregazione del Sant'Uffizio. Abbiamo poi quella dogale veneziana (1249-1289), quella règia francese (1251-1314) e quella règia spagnola (1478-1834). In più, quelle laiche e governative dei vari principati, repubbliche, signorie, ducati, eccetera, nonché quelle dei paesi protestanti (Paesi Bassi, Inghilterra, Scozia, le colonie inglesi d'America, ecc.).
Qui ci occuperemo solo di quelle cattoliche.
È anche bene chiarire che l'uso del termine "inquisizione" è esatto, nella sostanza, a proposito delle regioni protestanti, ma non nella forma. Infatti la repressione dell'eresia non vi era affidata al clero (concetto molto sfumato e approssimativo nella composita galassia protestante), bensì ai tribunali regolari. Era uno dei risultati della fusione tra chiesa e stato, generata dal sorgere delle "chiese nazionali". Come in Inghilterra, di fatto era il capo dello stato il vertice della comunità religiosa.
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Sull'inquisizione medievale puoi consultare una rapida sintesi
Postato il 28 novembre 2010

27 novembre 2010

Guerra al pirata che c’è in noi

Filibustieri, bucanieri e altri poveracci, tutti inevitabilmente all’arrembaggio: due studi su questa figura celebrata dalla letteratura e talvolta usata dalla politica per per il «lavoro sporco»
di Damiano Palano
Nell’immaginario collettivo, l’ico­nografia del pirata deve molto al­le pagine di autori come Robert L. Stevenson, Jules Verne o Emilio Salga­ri. Grazie a questi straordinari scrittori, la sagoma del pirata assume anche per noi le fattezze di Long John Silver, del ca­pitano Nemo o di Sandokan, continuan­do così a esercitare il fascino delle crea­ture misteriose. Naturalmente, i ritratti dipinti da Salgari e dai suoi illustri pre­decessori non erano affatto realistici. Si trattava piuttosto di un’efficace opera di reinvenzione, della rilettura di un’icono­grafia popolare che trovava nelle pagine dei romanzi d’avventura una sor­ta di consacrazione, ma che cer­to non riempiva il vuoto di cono­scenze sulla realtà storica della pirateria, sulle sue pratiche, sul­la sua umanità di reietti.
È anche per colmare questa la­cuna che Gilles Lapouge, in Pira­ti. Predoni, filibustieri, bucanieri e altri 'pezzenti del mare', ripercorre – con una sorta di evocativo «viaggio lette­rario » – le traiettorie storiche di un feno­meno antichissimo. Un fenomeno di cui parlava già Omero nell’Odissea, ma che entra nella stagione di maggior sviluppo a partire dal XVI secolo, quando le rotte si estendono verso il Nuovo mondo. Il Cinquecento è così l’epoca della grande pirateria inglese, ambiguamente soste­nuta dall’aristocrazia e persino incorag­giata da Elisabetta I. E se con Giacomo I comincia il declino dei pirati inglesi, i ri­belli del mare spostano il baricentro del­le loro attività criminali verso il Nuovo continente. Bucanieri e filibustieri trova­no allora la capitale nella piccola isola di Tortuga, che rimane il loro regno incon­trastato per buona parte del Seicento. Ma quando la pace di Utrecht (1713), rista­bilendo la concordia in Occidente, priva la pirateria di ogni patente politica, ini­zia il lungo declino, che dura per più di un secolo, fino alla metà dell’Ottocento. Negli ultimi anni, le cronache hanno però riportato di nuovo alla ribalta la pirate­ria marittima, che in diverse aree del mondo è tornata a costituire un fattore ri­levante di insicurezza. Nel Il Nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, Daniel Heller-Roazen, docente di Letteratura comparata all’Università di Princeton, ri­costruisce una sorta di «genealogia» del­la pirateria. Una genealogia che si pone l’obiettivo di portare alla luce le peculia­rità della figura giuridica del 'pirata', os­sia di quel particolare tipo di criminale che già Cicerone, nel De officiis, definiva come «il nemico comune di tutti». In so­stanza, per quanto il fenomeno attraver­si nella sua storia trasformazioni radica­li, la figura del pirata pare sempre con­trassegnata da alcuni elementi di fondo, riconducibili a un vero e proprio 'para­digma'. Innanzitutto, la pirateria opera in una regione in cui vengono applicate norme giuridiche straordinarie. In se­condo luogo, il pirata si rivolge indiscri­minatamente contro individui e asso­ciazioni politiche, e per questo può essere definito come «nemico di tutti». Inoltre, il pirata non è né un criminale né un ne­mico politico, ma qualcosa di diverso: è un nemico per l’intera comunità inter­nazionale, la quale può perciò adottare strumenti di difesa eccezionali, polizie­schi e politici. Gli elementi di questo paradigma pos­sono essere ritrovati nel mondo greco­romano, nel Medioevo e soprattutto nel­la lunga stagione dello jus publicum eu­ropaeum.
Ma, anche dopo la scomparsa dei vecchi filibustieri, il paradigma non cessa di funzionare. Come, per esempio nello spazio sottomarino (con l’affonda­mento del Lusitania, nel 1915), nello spa­zio aereo (con la nascita dei «pirati del­l’aria ») o nello spazio virtuale di Internet. Secondo Heller-Roazen, la rinascita con­temporanea del pirata è in sostanza un effetto dell’estensione dell’ordine sta­tuale a tutto il globo. In questo quadro, quando una regione fuoriesce dall’ordi­ne, configura uno spazio di disordine in cui è possibile riconoscere la pi­rateria. E, così, «non è più il pi­rata a essere definito dalla regio­ne in cui si muove», ma «è la re­gione della pirateria a essere de­sunta dalla presenza del pirata». Per questo, si tratta di una tra­sformazione radicale, che non può che alimentare rischi note­voli. Uno dei quali è ovviamente la ten­tazione di intendere la guerra contro un nemico eccezionale come una guerra ec­cezionale. Una guerra senza limiti e sen­za alcun vincolo morale.

Gilles Lapouge, Pirati. Predoni, filibustieri, bucanieri e altri 'pezzenti del mare'. Excelsior 1881. Pp, 212. € 18,50

Daniel Heller-Roazen, NEMICO DI TUTTI. Il pirata contro le nazioni, Quodlibet. Pp.286; € 22,00
I predoni son tornati alle cronache. Fenomeno antico, ne parlava già Omero, in epoca moderna fu anche usato per giochi di potere fra Stati. Oggi è l’alibi per conflitti senza più regole
«Avvenire» del 27 novembre 2010

Elogio della vendetta: il sentimento meschino che nutre la letteratura

Da Baudelaire a Kafka e a Proust fino al più recente Vargas Llosa in molti capolavori della letteratura si avverte un acre senso di rivalsa. Invece oggi gli scrittori insistono nell’esibire un puritanesimo liberal ricolmo di civismo e buone maniere
di Alessandro Piperno
Tentazioni. Così l'arte si prende la rivincita sulla vita
Sarebbe bello un libro sui grandi diffamati della letteratura. La sarabanda di buoni diavoli il cui unico torto è stato quello di vantare una parentela o una semplice conoscenza con scrittori destinati all’eternità. Il patrigno di Baudelaire, tanto per fare un esempio: il famigerato capitano Aupick.
Quanti insulti postumi si è beccato il poveruomo, grazie al suo ingrato intemperante figliastro! Quanti tra noi si sono sentiti in diritto di condurre il capitano Aupick sul banco degli imputati. E di condannarlo in contumacia e senza appelli tenendo conto solo della testimonianza postuma del suo paranoico accusatore.
Quale la colpa del capitano Aupick? Aver sposato la madre di Baudelaire, rimasta vedova, quando il figlio aveva appena sei anni. Aver spezzato con la sua irruzione importuna nella vita di Madame Baudelaire quell’edipico idillio. Aver deciso, di comune accordo con la consorte, di spedire in collegio quel ragazzo difficile. E, infine, aver cercato, negli anni a venire, di regolamentare la relazione morbosa tra madre e figlio. Insomma, ciò che viene addebitato al capitano Aupick è di aver agito con buonsenso o almeno in conformità con il suo temperamento, la sua classe sociale, la sua cultura. Poteva forse immaginare che i posteri avrebbero liquidato quell’onesto contegno come il simbolo del filisteismo borghese tanto inviso al figliastro? Poteva forse immaginare che - per colpa di quello strambo ragazzino - lui, l’onesto militare al servizio di Napoleone III, sarebbe passato alla storia come il santo patrono dei persecutori di poeti indigenti?

E che dire del padre di Kafka?
Un altro che ha un bel conto in sospeso con la storia. Un altro diffamato eccellente. Anche se in forma più subdola: Baudelaire almeno aveva la faccia tosta di odiare il patrigno fervidamente, Kafka adorava suo padre. E ciononostante la lettera che gli scrisse - la celebre Lettera al padre - trasuda un tale risentimento: un rancore rattenuto che ne fa una delle più toccanti testimonianze dell’eterna protesta dei figli contro i padri. Il tono è dimesso e rispettoso. Il figlio si rivolge al padre, acquattato sotto la coperta dell’inettitudine. Finge di non incolparlo di nulla. Ma tale atteggiamento arrendevole non fa che rendere più tormentosa e incendiaria la sua ribellione. Tu mi chiedi perché ho paura di te? dice il figlio al padre all’inizio della lettera. Be’, ascoltami. Ora te lo spiego io per filo e per segno. E glielo spiega. Senza sconti, proprio come è uso fare nei romanzi. A tale riguardo, è difficile non aderire alla campagna promossa da Milan Kundera per sottrarre Kafka a coloro che ne hanno fatto, del tutto arbitrariamente, un santo inerme. Ma quale santo e santo. Kafka era un sommo scrittore. E come tale un impavido vendicatore. Kafka idolatrava Flaubert perché di fondo ne condivideva lo spirito feroce, solo apparentemente diluito da una forma impeccabile. Non c’è personaggio flaubertiano che prima o poi non sconti il sarcasmo del suo creatore. E credo che lo stesso si possa dire per i personaggi kafkiani.
Ma torniamo alla Lettera al padre. Ogni parola del figlio ha il timbro solenne di una condanna. Persino notazioni che in altro contesto apparirebbero innocue tradiscono un tono accusatore e intimidatorio. Con un’espressione assai in voga di questi tempi si potrebbe dire che Kafka dà prova di essere un «passivo aggressivo». Ovvero, che la sua ostinata rassegnazione sia carica di ostilità. A un certo punto dice al padre: «Tu invece sei un vero Kafka in quanto a forza, salute, appetito, potenza di voce, capacità oratoria, autosufficienza, senso di superiorità, tenacia, presenza di spirito». Per noi, lettori del 2010, fa quasi sorridere che qualcuno (per altro il diretto interessato) parli di «un vero Kafka» in questi termini. Proprio perché per noi «un vero Kafka» è l’opposto di ciò che lo stesso Kafka ci ha appena descritto. Un vero Kafka non ha forza, né salute né appetito. Un vero Kafka non alza la voce e non coltiva alcun complesso di superiorità. Un vero Kafka, per noi, fa l’esatto contrario. Ma evidentemente, in casa Kafka, molto tempo prima che qualcuno potesse arrivare a ipotizzare che il piccolo Franz sarebbe diventato uno dei massimi scrittori di ogni tempo, la parola «Kafka» faceva pensare a tutte quelle virtuose qualità enumerate, per noi così poco kafkiane.
Ebbene, essere riuscito a ribaltare per sempre il senso semantico della parola «Kafka» non è forse la più beffarda delle vendette? Non è forse questa la ratifica della vittoria del figlio sul padre? Del trionfo di chi scrive su chi si è limitato a vivere? Di chi accusa su chi non può difendersi?

Polemiche sulla morte di Charles Swann
Intendiamoci: sto facendo finta di prendere le parti dei padri diffamati. In realtà il mio cuore è tutto dalla parte dei figli diffamatori. La loro rabbia mi commuove non meno del loro sforzo di dissimularla e del senso di colpa che tale sforzo fatalmente genera.
A proposito di vendette toccanti, c’è un momento nella Recherche che mi ha sempre emozionato. Che mi consti si tratta della sola volta in tutta l’opera in cui Proust (non il Narratore ma Marcel Proust in carne e ossa) si rivolge a un suo personaggio direttamente. Siamo ne La prigioniera. Proust ci ha appena informati che Swann (il suo più celebre personaggio) è morto. Ecco che, d’un tratto, sulla pagina grava un senso solenne di lutto e incredulità. Davvero Swann è morto? Non ci posso credere! È questo che si dice il lettore. Proust è un romanziere troppo abile per lasciarsi scappare l’occasione per esibirsi in uno dei suoi colpi da maestro. Per questo si ferma. È tempo di concedere a Swann gli onori delle armi. Ma ecco che quella che dovrebbe essere una celebrazione diventa il pretesto per un atto a dir poco revanscista. Una vera e propria rivincita: «Eppure, caro Charles Swann che ho conosciuto così poco, quando io ero ancora così giovane e voi sull’orlo della tomba, se si ricomincia a parlare di voi, e forse vivrete, è perché quello che, probabilmente, ritenevate un piccolo imbecille ha fatto di voi l’eroe del suo romanzo». Lo sentite anche voi il tono di sfida? La soddisfazione postuma di aver avuto la meglio, alla lunga, su un uomo, un famoso dandy della sua epoca, dal quale Proust evidentemente non si era sentito abbastanza accolto? Niente di strano: Proust ha sofferto tutta la vita per non essere stato abbastanza considerato da certa gente. La Recherche non è certo l’opera di un damerino che piagnucola sul passato che non può più tornare, ma anzi è una specie di mausoleo consacrato alla vendetta e alla delazione. La protesta proustiana non fa che nutrirsi del rancore dei malati contro i sani, dei falliti contro gli uomini di successo, dei figli inetti contro i genitori gagliardi e via dicendo.

Mario Vargas Llosa vs Michael Cunningham
Il pretesto per queste elucubrazioni mi è stato offerto da una polemica a distanza tra lo scrittore statunitense Michael Cunningham e il nuovo premio Nobel (esultiamo!) Mario Vargas Llosa. A ricostruirla, tale querelle, ci si rende conto che essa è stata nutrita da una serie di equivoci e di frasi mal riportate. Ma chi se ne importa. Ogni tanto persino la disinformazione può produrre frutti succulenti. Il dato per me più interessante è che Cunningham abbia detto che la letteratura serve a celebrare la vita e che lo abbia sostenuto in polemica con Vargas Llosa, secondo cui la letteratura è vendetta contro la vita.
Visto che siamo in vena di mistificazione, lasciate che anch’io parta un po’ per la tangente. Lasciate anche a me l’opportunità di immaginare e di interpretare. Vorrei partire dalla militanza politica di Vargas Llosa, il gesto dissennato che nel 1990 lo spinse a presentarsi come candidato alle presidenziali nel suo Paese, il Perù. La sconfitta che rimediò, a dispetto dei sondaggi. E il conseguente trasferimento (in esilio?) in Spagna, con tanto di cittadinanza acquisita. Ora, ogni scrittore è vittima di alcuni luoghi comuni che lo riguardano. Dopo la vittoria del Nobel di Vargas Llosa, ho letto in giro un sacco di commenti che celebravano la grandezza delle sue prime opere a dispetto della stanchezza delle ultime. Se non è questa una bufala. Sono sempre turbato dalla facilità che certi cliché hanno di attecchire e di come sia difficile sradicarli. Conosco l’opera di Vargas Llosa abbastanza bene da poter dire che negli ultimi anni, proprio dopo la mortificante sconfitta elettorale, la sua vena ha raggiunto una disperata tensione che ha dato esiti artistici di questi tempi quasi impareggiabili. Due libri su tutti: La festa del caprone (2000) e Avventure della ragazza cattiva (2006). Il primo, un tipico libro sudamericano che ricostruisce gli ultimi giorni di vita di un tiranno: il ferocissimo dittatore domenicano Rafael Leónidas Trujillo, patito della pulizia e di vergini da violentare. Il secondo, invece, la più convincente storia d’amore scritta negli ultimi vent’anni: tra un adorabile traduttore originario di Lima e una splendida ragazzina ribelle e manipolatrice: la niña mala. Tutto questo nel corso più o meno di quarant’anni. Ebbene, nessuno mi toglie dalla testa che Trujillo e la niña mala siano formidabili crudeli allegorie del Sudamerica e dei suoi fallimenti. È così - tramite due favolosi personaggi protagonisti di due favolosi romanzi - che Vargas Llosa si è preso la sua rivincita di sconfitto. Sono quei due romanzi la sua vendetta. Una vendetta mille volte più efficace e duratura di qualsiasi riconoscimento pubblico, persino del premio Nobel. Non è a questo che serve l’arte? A vendicarsi?
Non è a questo ciò a cui è sempre servita? Non è sempre stata il serbatoio di tutto il nostro fiele?
Certo, il desiderio di vendetta è un impulso riprovevole. Ti insegnano fin dalla nascita a considerarlo tale. Se vuoi essere un individuo perbene, ti dicono, devi accantonare certe meschine aspirazioni. E tuttavia nessuno potrà negare che la vendetta è la più naturale delle tentazioni. Tutta questa frustrazione dovrà pur trovare un luogo di sfogo! O no? Ecco, chissà che non sia questa una delle tante ragioni per cui gli uomini hanno inventato l’arte: non solo per celebrare la vita, ma anche e soprattutto per prendersi una rivincita su di essa. L’arte è vendetta? Perché no? Lo è sempre stata in fondo. Dai tempi in cui Achille tornò a indossare l’armatura per vendicare la morte di Patroclo, passando per Dante, così meschino da schiaffare all’Inferno tutti i suoi nemici personali, via via attraverso il grande sogno palingenetico del conte di Montecristo, fino alle picaresche avventure di Uma Thurman che, in compagnia della sua spada da samurai, ce la mette tutta per uccidere il serafico Bill.
Ma perché, mi chiedo, se l’arte è sempre stato questo, oggigiorno, e non solo in Italia, essa viene confusa per un’esibizione di civismo e di sentimenti castigati? Perché l’arte è ben accolta solo se didascalica? Perché il puritanesimo liberal sta prendendo il sopravvento? Perché gli artisti non fanno altro che firmare proclami umanitari pieni di buonsenso? Perché spurgare vigliaccamente le loro opere di ogni tensione rancorosa? Perché si indignano per insulse caduche cause di pubblica utilità?
Chissà, forse hanno dimenticato che l’arte è il dono che Dio ha dato loro per vendicarsi senza inutili spargimenti di sangue.

L'autore: Alessandro Piperno
Nato a Roma nel 1972, Alessandro Piperno insegna Letteratura francese all’Università di Tor Vergata. Ha esordito come scrittore nel 2005 con il romanzo «Con le peggiori intenzioni» (Mondadori), un bestseller che ha vinto il Campiello opera prima. È da poco uscito il suo nuovo libro «Persecuzione» (Mondadori).
«Corriere della Sera» del 22 novembre 2010

Meno male che Mara c'è

di Massimo Gramellini
Se il signor Maro Carfagna, barbuto ministro della Campania, avesse minacciato le dimissioni, affermando che nel suo partito gli impediscono di battersi per la legalità, ora saremmo qui a discutere coi sopraccigli arcuati di malapolitica e affaristi (cosa diversa dagli uomini d'affari). Ma poiché Maro si chiama Mara e ha il corpo e gli occhioni che sapete, la sua denuncia è già stata declassata a scatto isterico, baruffa fra comari. Invece che gli appalti del termovalorizzatore di Salerno, a tener banco sono i suoi rapporti umani: con l'amico Bocchino e la nemica Mussolini. L'algida ministra ci ha messo del suo, paragonando la collega a una popolana sguaiata. Ma non c'è dubbio che il circo mediatico e l'interesse dei lettori hanno sterzato subito verso il gossip, sottovalutando la sostanza delle sue parole.
E’ un problema con cui tante donne meno fortunate della Carfagna devono fare i conti ogni giorno negli ambienti di lavoro. Il parere femminile vale meno e non è considerato autorevole. Quando un uomo s’arrabbia, ha carattere. Quando si arrabbia una donna, ha le mestruazioni. Oppure non le ha più. Non basta nemmeno maschilizzarsi dentro tailleur assertivi e posture manageriali. Se sei bella, i maschi ti desiderano ma non ti considerano: e tutti pensano (anche le donne) che la tua carriera non sia merito dei talenti, ma degli amanti. Se poi sei soltanto passabile, ti trattano come una crocerossina, un angelo custode, una bestia da soma: comunque una comparsa nel film del loro successo professionale, intitolato «Impari Opportunità».
«La Stampa» del 23 novembre 2010

Ssst! Sta parlando il silenzio di Dio

Secondo il filosofo Massimo Cacciari con Abramo come con Giobbe il Signore tace non per ira o perché non sa che cosa dire Egli è un padre nascosto ed esige d’essere cercato non tanto con parole o risposte, bensì con la «rivelazione» abissale del suo stare zitto
di Massimo Cacciari
La «voce di vento leggero» che si rivolge a Elia (1Re 19,12) suona nell’originale ebraico, secondo André Neher, come «la voce sottile del silenzio». La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore. La sua è, letteralmente, una teo-logia del Silenzio, ovvero una teologia che fa del Silenzio il Logos stesso di Dio.
Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né de­finire «filosoficamente» come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo «tradirsi» in parola interpretante ri-vela se stesso.
Al Silenzio inaccessibile dell’Arché divina il profeta si rivolge colmo di fiducia; egli spera incrollabilmente proprio in colui che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe (Is 8,17).
Potremmo dire che il profeta è essenzialmente chi giunge non solo ad ascoltarne, ma a vederne il Silenzio (Is 6,1). La sua parola diviene così lode del Silenzio stesso e dialogo ininterrotto col suo eterno manifestarsi – che è presidio contro ogni preghiera idolatrica, contro ogni esigere risposta. Quello di Giobbe può essere definito da Neher il libro del Silenzio per antonomasia proprio perché è, a suo giudizio, testimonianza del più drammatico dialogo tra mortale e Silenzio di Dio.
L’istanza radicale che muove la ricerca di Neher consiste nell’intendere il Silenzio come dimensione essenziale della stessa Rivelazione, non come momento, non come momentanea eclisse della Parola, non come il semplice effetto del «peccato» di Israele che allontana da lui il suo Signore. Non è il Silenzio un segno dell’«ira» di Dio.
È vero, invece, che Israele è sordo alla sua chiamata, che ha appunto luogo attraverso la «voce sottile del Silenzio». E tale sordità non potrà essere compiutamente eliminata che all’ultimo. La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama , o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano – ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri­vela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile.
Così, grandiosamente, esso si manifesta nel Libro di Giobbe. (...) Libertà è il «luogo» cui si rivolge il Silenzio. A essa, nel suo libero agire, in silentio Dio stesso si rivolge. Nel suo essere libero egli riflette la Libertà ineffabile da cui proviene. E allora, davvero, tace. Il suo Silenzio è, allora, il thauma, lo «spettacolo» più tremendo. Nell’istante che tace, nell’istante che perviene a questa estrema misura del Silenzio, l’Esistente rimane sospeso tra il Logos e il ritirarsi nel Chaos. Di questo istante supremo la traccia non si trova nel libro di Giobbe, ma nel sacrificio di Abramo. Né comunque la «prova» cui Abramo è chiamato è comparabile con quella di Giobbe; nessuna sofferenza eguaglia quella che colpisce Abramo. A Giobbe è sottratta ogni cosa – a Abramo lo stesso futuro. I doni di cui Giobbe aveva goduto sono meno che polvere, bona impedimenta, avrebbero detto i Padri, metafisicamente distinti dal bene ricevuto da Abramo, suo figlio Isacco.
Abramo, l’uomo dell’«eccomi!», del perfetto ascolto, fa-esodo ancora una volta, e questa volta verso la miseria estrema, lo svuotamento totale. Lo fa in perfetto silenzio, a immagine del Silenzio del suo Dio. Nulla dice al figlio, come nulla gli dice il Signore, dopo il tremendo comando. Un deserto di Silenzio li accomuna, li stringe in un patto di cui nessun altro deve sapere. Questo è il Silenzio decisivo. Abramo non può che tacere sulla libertà del Signore che comanda e fa-essere ciò che liberamente vuole.
Solo il suo silenzio può corrispondere all’ineffabile della libertà divina. Ma essa è ineffabile poiché espressione della Libertà da cui proviene. Il Signore tace ad Abramo. La tragica scena non è disturbata dal rumore degli «amici» che pretendono di parlare al posto di Dio e di Giobbe: ma neppure dal lamento di Giobbe o da retoriche teofanie conclusive.
Breviloquio insuperabile, dove tutto l’essenziale mostra sé nel Silenzio: Abramo mostra nel suo silenzio che Dio non è determinabile-calcolabile, che il suo stesso «amore» non è nulla di necessario, che la sua Parola è traccia di una libertà che eccede ogni «logica». Dio non parla a Abramo durante quell’itinerario di morte non perché nulla voglia dirgli, per lasciarlo solo, ma perché nulla può dire e perché è solo di fronte alla Libertà da cui proviene. Questo vincolo di Silenzio li serra insieme.
«Avvenire» del 26 novembre 2010

Il paradosso di una libertà di scelta solo formale

Dopo l’approvazione della legge sulla parità gli iscritti diminuiti del 10,6%. Al contrario di Belgio, Olanda, Francia e Spagna
di Guglielmo Malizia
Due aspetti della questione «parità» sono rilevanti non solo in se stessi, ma soprattutto per il contrasto tra essi esistenti: infatti, la qualità dell’educazione delle scuole cattoliche non trova conforto nella consistenza quantitativa delle medesime nel senso che al livello elevato della qualità non corrisponde un numero di iscritti quale ci si potrebbe aspettare sulla base della riconosciuta validità dell’offerta. Nel lungo periodo, la scuola non statale ha registrato tra l’inizio degli anni ’80 e la fine dei ’90 una diminuzione per cui la sua porzione di iscritti ammontava nel 1997-’98 al 13,8% del totale. L’approvazione della legge sulla parità nel 2000 non solo non ha modificato questo trend, ma anzi la percentuale è diminuita al 10,6%; al contrario, in Belgio il dato totale raggiunge il 60% circa, il 70% in Olanda e il 20% in Francia e in Spagna. È facile spiegare questa dinamica tutta italiana con il fatto che la realizzazione del diritto alla libertà di educazione continua a essere insoddisfacente. Nel medio periodo, 1997-2008, le informazioni relative alle scuole dell’infanzia della Fism evidenziano una significativa crescita dei bambini pari a +19,9%. Al contrario la Fidae registra una calo consistente nel totale della scuole (-15,4%) e degli alunni (-5%), anche se la diminuzione si concentra tutta nella secondaria di 2° grado (-20,3%), mentre la primaria e la secondaria di 1° grado assistono a un leggera crescita (+0,2% e +2,2%). Per quanto riguarda i centri di formazione professionale di ispirazione cristiana della Confap, si registra una diminuzione nel numero dei cfp (-23.7%); per contro, va segnalato un aumento degli allievi di un terzo (+33.2%). Nel breve periodo, 2009-’10, emerge che il sistema complessivo delle scuole paritarie è decisamente squilibrato verso il basso, con la scuola dell’infanzia che incide per oltre il 70%. Quanto agli enti gestori, più di un terzo è un gestore laico, mentre le scuole cattoliche costituiscono intorno ai due terzi. Si sfata così il pregiudizio che le scuole non statali siano le «scuole dei preti». Passando sul piano qualitativo, la scuola cattolica in Italia si è sempre misurata con gli scenari sociali e culturali di ciascuna fase storica. Stimolata dai nuovi orizzonti delineati dall’approvazione della Costituzione, poi dalla diffusione della cultura del personalismo e quindi, su scala ancora più vasta, dal Concilio Vaticano II, essa ha ripensato e rafforzato nella seconda metà del XX secolo la sua azione educativa, mettendosi in ascolto dei bisogni formativi emergenti, intensificando il dialogo con la cultura contemporanea, aprendosi alla collaborazione con le istituzioni della comunità ecclesiale e della società civile, potenziando la dimensione comunitaria e rinnovando la propria azione pastorale in campo educativo. In particolare, essa si è qualificata come laboratorio di ricerca e di riforme, avviando numerose sperimentazioni che hanno dato un apporto significativo al cambiamento didattico, pedagogico e talora istituzionale del nostro sistema educativo, in un certo senso anticipando il periodo delle riforme degli anni ’90 con la predisposizione dei progetti educativi di istituto, dei profili degli alunni, della costruzione delle unità formative e con indagini e sperimentazioni sulla qualità dell’offerta formativa e la certificazione delle competenze, coniando ed elaborando parole e concetti nuovi e rilevanti quali scuola della persona e delle persone, centralità della persona e della scuola, educazione personalizzata, solidarietà e alleanza per l’educazione, sussidiarietà e convivialità delle differenze. Insomma, la scuola cattolica non si trova al rimorchio del modello statale, ma ambisce a un’attiva funzione trainante e vorrebbe che – proprio nello spirito della parità – questa condizione le fosse riconosciuta. Non certo per rivendicare un’egemonia, ma per aspirare, con atteggiamento di servizio e collaborazione, almeno a una effettiva parità.
«Avvenire» del 26 novembre 2010

Inaccettabili

Quelli che non ammettono. Quelli che non sono ammessi
di Marco Tarquinio
Gli uomini davvero liberi sono quelli che quando si rendono conto di aver commesso un erro­re, lo riconoscono. Quelli che non hanno bisogno di un’intimazione per rimediare a uno sbaglio. Quel­li che non fanno finta di sentire so­lo gli applausi. Quelli che dall’alto di uno straordinario successo – frutto di mestiere e di fortuna, del potente mezzo usato e di un anti­co inusuale coraggio – sanno chi­narsi sulle storie e sulle voci degli impresentabili e dei politicamen­te scorretti. E le ascoltano. Anche se non sono quelle che a loro piac­ciono e che hanno deciso di rac­contare davanti alle telecamere della Rai, cioè della tv che dovreb­be essere di tutti, che è tenuta a es­sere e a farsi «servizio pubblico».
Fabio Fazio ne sa qualcosa di «quelli che». E anche Roberto Sa­viano. Sanno di vittorie e di scon­fitte, loro. Sanno di presunti vin­citori e di presunti sconfitti. San­no di speranza e di disperazione. E sanno come raccontare, come elencare. Bene, benissimo. Male, malissimo. Perché della vita che si fa malata, ma malata per dav­vero, duramente malata, fingono di aver saputo solo la disperazio­ne e il rifiuto. Fingono di aver in­contrato e riconosciuto solo sto­rie di guerra, battaglie lunghe e a­mare e controverse per abbando­nare e per finire. Fingono, cioè,di non sapere di Mario e di Fulvio, di Max e di mamma Lucrezia e papà Ernesto, di Maria Pia e di suo marito. Fingono di non aver mai sentito di Stefano e Chantal, di Moira, di Angelo, di Simone, di Ro­sy e di Susi con un’intera famiglia adottiva. Ma se per avventura lo­ro, e gli autori di 'Vieni via con me', nulla avessero saputo o sen­tito o anche solo intuito di tutta questa vita in lotta da chiamare e rispettare per nome, in questi giorni – sulle nostre pagine – han­no certo avuto occasione di in­contrarla e conoscerla. Eppure non l’hanno riconosciuta. E ora che pure il Consiglio di am­ministrazione della Rai, ha detto: «Fateli parlare»? Ora niente, dico­no, Fazio e Saviano. Per loro è «i­naccettabile ». Quelle voci – e già temevano di averlo capito – sono inaccettabili. Beh, non si somi­gliano proprio Fazio e Saviano quando mostrano l’audience e voltano la testa, con aria – loro – da vittime (o, forse, non somiglia­no all’immagine di sé che ci ave­vano dato). E non si somiglia nemmeno Paolo Ruffini, diretto­re di Raitre e intellettuale limpido e rigoroso, quando afferma che niente di «non detto» e di negato c’è stato nel programma che sul­la sua rete ha avuto il maggior suc­cesso di sempre. Ma che cosa hanno fatto i non-En­glaro e i non-Welby per meritare questo bavaglio e queste umilia­zioni, questo puntiglioso sussie­go? Sono forse troppi? Sì, sono tan­tissimi. Sono praticamente tutti quelli che si sono ritrovati arruo­lati loro malgrado nelle battaglie con la distrofia, la sclerosi multi­pla, la Sla... Sono quelli che cono­scono o hanno conosciuto il co­ma, quelli che vengono definiti in stato vegetativo. Sono quelli che si sono risvegliati. E quelli che stan­no ancora chiusi dentro. Sono quelli che stanno accanto, quelli che non indietreggiano, quelli che fanno spazio nelle loro case e nel­le loro vite a queste altre vite in­chiodate e tempestose. Sono quel­li che magari credono in Gesù Cri­sto e non hanno paura della mor­te, ma non ci stanno a dire che l’a­more e la scienza servono a nien­te. Sono quelli che magari non cre­dono in Dio, ma non rinunciano a ogni respiro e a ogni pensiero. Quelli che accanirsi mai, ma eu­tanasia mai. Non hanno bisogno di «par con­dicio », perché la sfida per loro è comunque dispari. Hanno diritto a un po’ di verità. E la tv non è ne­cessariamente e sempre altra dal­la verità, altra dalla vita vera.
«Avvenire» del 26 novembre 2010

La trasparenza della politica è un’utopia regressiva ad altissimo costo

s. i. a.
Nel 1971 il New York Times e il Washington Post cominciarono la pubblicazione dei Pentagon Papers. Migliaia di pagine scritte su istruzione di Robert McNamara, segretario alla difesa nell’epoca drammatica della guerra americana in Vietnam. Si scoprì per tabulas quel che si sapeva benissimo a orecchio: le guerre sono avvolte dalla nebbia, le motivazioni e gli annunci dei governi hanno un rapporto diretto con l’utile e la sicurezza nazionale, ma una relazione obliqua con la verità, e tutti i presidenti americani da Truman a Johnson avevano governato le contraddizioni del potere, specie nel suo rapporto con l’opinione pubblica di sistemi liberali, con mezzi diversi dai paternoster.
Anche in ragione dei Papers, il Vietnam si chiuse male per gli americani, e a trarne vantaggio furono i sovietici e le ideologie che nella Guerra fredda avevano scelto la parte sbagliata del confine.
E’ altissimo il costo delle utopie regressive, quei ghirigori tracciati sull’ordito della storia umana allo scopo di restaurare uno stato edenico, riaprendo le porte del paradiso terrestre per ricondurre il nostro ceppo a prima del morso della mela e a prima della cacciata. Wikileaks, ambigua e affascinante associazione bloggistica che scherza con il fuoco ormai da anni, nella pretesa di tutelare il mondo dall’oscurità di motivazioni e comportamenti dei governi (“we open governments” il loro slogan), è l’ultima incarnazione di questa idea che la politica possa essere comunionale e paciosa, priva di contraddizioni e conflitti, esente dal dovere del segreto e del doppio linguaggio (soprattutto in diplomazia e nei sistemi di difesa e di attacco).
Ora le ultime rivelazioni, in arrivo a quanto pare nello spazio di 24 ore, promettono caos. Di nuovo, si tratterà di apprendere in forma documentale quanto si sa già per intuito e senso storico: in politica si mente spesso, gli stati sono cinici e bari, i leader dell’economia e della politica subordinano i mezzi ai fini abbastanza regolarmente. Le famose rivelazioni finiranno per ridurre a sciatto pettegolezzo quella cosa complessa e interessante e utile che sarebbe in teoria, ed è anche in pratica, l’esercizio del potere politico, e indurranno necessariamente gli stati a un accordo generalizzato di negazione e marginalizzazione dell’informazione pirata, quanto meno per tutelarsi ciascuno dalle proprie colpe.
Peccato che i costi umani siano molto alti. Gli informatori degli alleati in Afghanistan, i cui nomi furono segnalati da Wikileaks con le conseguenze letali immaginabili, ne sanno qualcosa. Ma soldati e civili nelle situazioni di conflitto hanno subito una condizione nuova, in cui i new media ricattano e paralizzano la politica dall’interno, in nome dello pseudoconcetto della trasparenza, fin dai tempi dell’assurdo talk show mondiale sulle motivazioni della guerra in Iraq. Informare e dissentire, usare la verità come strumento politico, è attività nobile, illuminata da uno scopo; smantellare le infrastrutture della sicurezza e della diplomazia è un esperimento delirante.
«Il Foglio» del 27 novembre 2010

26 novembre 2010

Pochi studenti e quattro finiani bloccano una riforma che piace a molti

Si vota martedì
s. i. a.
Franzini (Statale di Milano): “Il novanta per cento dei docenti è d’accordo con il ddl Gelmini”
A compensare l’esiguità numerica dei combattenti anti Gelmini impegnati in una decina di città in manifestazioni di ottima visibilità, con la trovata di “occupare” i monumenti, la protesta contro la riforma dell’Università in discussione alla Camera si è ancor più trasferita sui tetti. E se il presidente del Consiglio nazionale degli studenti universitari, Mattia Sogaro, dice al Foglio che “le proteste che sfociano in violenze sono inaccettabili e non si possono in nessun modo condividere”, ieri, a far compagnia a Nichi Vendola – ha spiegato che “gli studenti sono vitalizzati dal rapporto con il cielo” – e al cantautore Antonello Venditti, sul tetto di una delle sedi romane di Architettura sono arrivati anche alcuni deputati di Futuro e libertà (Perina, Moroni, Granata e Della Vedova). Anche grazie a loro, in mattinata l’esecutivo è stato battuto su un emendamento, come già avvenuto martedì e mercoledì. Il ministro Mariastella Gelmini ha annunciato che si andrà avanti fintanto che l’impianto sostanziale della legge rimarrà intatto, altrimenti preferisce ritirare il provvedimento. Avrebbe però chiesto ai deputati fli di non far mancare, martedì prossimo, l’appoggio ad alcuni emendamenti cruciali, prima del voto finale e dell’eventuale passaggio al Senato.
Ieri il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha chiesto un’approvazione veloce della riforma: “Sarebbe inaccettabile che per litigi interni cadesse”, perché “introduce elementi importanti come premiare il merito e migliorare la governance”. L’identico auspicio è stato espresso in un’intervista su Repubblica dal presidente della Conferenza dei rettori italiani, Enrico Decleva, che ribadisce la necessità della riforma Gelmini e nega che le università siano davvero in rivolta, mentre un appello firmato da decine di docenti e intitolato “Difendiamo l’università dalla demagogia” si schiera con la necessità di approvare la riforma (il testo completo e le firme sono sul nostro sito, www.ilfoglio.it).
E’ d’accordo con Decleva Elio Franzini, ordinario di Estetica alla Statale di Milano nella facoltà di Lettere e filosofia, di cui è stato preside fino a poche settimane fa. Al Foglio si dice convinto che “a condividere la riforma ci sia il novanta per cento dei docenti. Nella mia università, la terza in Italia, non è successo niente, a parte una ventina di ricercatori sul tetto”. Franzini considera “imprescindibile la riforma nella parte relativa al reclutamento, con cui si adegua la normativa italiana a quella europea e internazionale, attraverso il meccanismo dell’idoneità nazionale e della chiamata sulla base di un concorso locale tra gli idonei. E anche il tenure track – il ricercatore non è più assunto da subito a tempo indeterminato, ma nei sei anni a disposizione dovrà avere tempo e possibilità di ottenere l’idoneità, per poi concorrere a posti di professore associato e ordinario – lo troviamo identico in tutti i paesi d’Europa dove l’università non è ancora interamente privatizzata. E’ il modello francese: funziona”. Franzini aggiunge che “il problema dei finanziamenti scarsi esiste, e ha riguardato i governi di centrosinistra come ora il centrodestra. Ma il modello della riforma è buono. Chi va sui tetti la accusa di voler privatizzare l’Università: non è vero. Nella prima formulazione, un 40 per cento di esterni nei consigli di amministrazione poteva turbare alcune coscienze, ma oggi siamo a tre esterni”. Stessa confusione si fa “sulla pretesa abolizione delle facoltà. La facoltà come madre di tutto il processo universitario ha una diminuzione di peso, è innegabile, ma non è per forza un male, se dà alle singole sedi, a partire dalle loro possibilità e dalla loro tradizione, l’opportunità di disegnarsi statuti che diano peso o meno a strutture didattiche comuni”.
L’economista Fabio Pammolli, direttore dell’Imt Alti studi di Lucca, scuola statale a ordinamento speciale, pensa che la riforma Gelmini sia “assolutamente necessaria. Senza, il sistema universitario rimarrebbe sguarnito su aspetti fondamentali. Basti pensare a quello di finanza pubblica. Questa riforma introduce concetti di base: per la prima volta si parla di piani di rientro in caso di disavanzo e di commissariamento di enti in caso di mala gestione (ne abbiamo svariati esempi); per la prima volta si costringono gli organi di governo degli atenei ad avere strumenti di programmazione coerenti con l’autonomia, a fare programmazione pluriennale assumendosi la responsabilità delle scelte di allocamento delle risorse. A proposito: ci si lamenta della scarsità delle risorse, ma questo non c’entra con una riforma ordinamentale che consentirà di usarle meglio, poche o tante che siano, in situazioni in cui abbiamo avuto finora autonomia senza responsabilità”.
«Il Foglio» del novembre 2010

Le ipocrisie sulla pelle dell’università dei suoi fasulli paladini

di Giorgio Israel
La riforma universitaria contiene molte cose buone come il sistema di reclutamento, altre discutibili, come un eccesso di dirigismo e di minuzia normativa e un assetto della governance che concede troppo a manager esterni di dubbia qualifica. Ma qui siamo ben oltre il “discutere”: siamo in piena sagra dell’ipocrisia e della demagogia, persino violenta. Forze politiche e universitarie che hanno taciuto di fronte a riforme efferate (come quella del cosiddetto 3+2) responsabili di aver condotto l’università nell’attuale stato di degrado e che hanno taciuto di fronte a tagli di finanziamenti non meno imponenti, urlano come se venisse giù il mondo.
Questa riforma è stata patrocinata in buona misura dal Pd che però ora, per ragioni di altra natura, sale a cantare “Bella ciao” sui tetti. E’ poi divenuto un indecente sport nazionale rovesciare tonnellate di immondizia sull’università ogni volta che se ne discute in Parlamento. Con lo stile del bue che dà del cornuto all’asino, un mondo politico che ha colpe enormi in materia parla dei docenti universitari come “ignoranti” e “nullafacenti”. Come se, malgrado tutto, la facoltà di Scienze della Sapienza di Roma non venisse avanti alla prestigiosa École Polytechnique parigina nelle graduatorie internazionali, per fare soltanto un esempio. Nelle quali graduatorie l’università italiana è complessivamente penalizzata da parametri che riflettono il suo degrado materiale, ma sono introvabili università private gestite da un mondo industriale che nonostante ciò si sente titolato a far la lezione. Il gioco a parlare di “merito” per l’università è una colossale ipocrisia, dato che non si ha il coraggio di parlarne per la magistratura o per la scuola, dove in silenzio sono stati ripristinati gli scatti di anzianità per tutti, senza alcun legame con il merito. Va aggiunto che, per la scuola, i primi modelli sperimentali di premio del merito sono basati su criteri che, se introdotti all’università, farebbero gridare al prepotere dei baroni; il quale, visibilmente, è ormai una barzelletta, forse perché i docenti universitari non hanno né un consiglio superiore né una rappresentanza sindacale.
Vedremo come finirà la sagra. Ma vi sono due questioni in ballo che ne rappresentano la manifestazione estrema e di cui sono ambigui protagonisti i “finiani”. Si parla continuamente dei ricercatori come “precari”, e magari chi legge le cronache ci crede, mentre i ricercatori sono dipendenti stabili che vanno in pensione a 65 anni. Ora, se si tratta di trovare quattrini per inquadrare nel ruolo di associati quei ricercatori che hanno già vinto un concorso, nulla da dire. Se si tratta di garantire a 4.500 (alcuni parlano di 9.000) ricercatori dei concorsi riservati per il passaggio ad associato, allora si tratta di un ope legis malamente mascherato, un atto demagogico che rischia di scassare la riforma prima ancora che parta.
Poi c’è la questione del ripristino di scatti di anzianità “meritocratici”, ovvero legati al merito. Anche qui circola la strana voce che debbano riguardare solo i più giovani. A parte l’ossimoro di scatti di “anzianità” per i “giovani” – che suscita notevole ilarità in giro – è grottesco che come primo titolo “meritocratico” venga introdotto quello dell’età. Secondo questo criterio gli “asini” di cui sarebbe piena l’università sarebbero soltanto i professori anziani. Se invece si tratta di una scelta demagogica, per ingraziarsi chi non è prossimo a togliersi di torno andando in pensione, allora lo si dica senza camuffarsi dietro la parola “meritocrazia”. In conclusione, la vicenda si sta rivelando come una partita puramente politica attorno alle sorti del governo in cui i temi dell’università e del suo assetto sono un mero pretesto per atteggiarsi a paladini (fasulli) del rigore e della cultura.
«il Foglio» del 25 novembre 2010

24 novembre 2010

Gli adoratori del verbo

di Tim Parks
Siamo fin troppo abituati a sentire gli scrittori lodare la parola: «Sì, la lingua è sempre stata la mia passione; ogni frase dev'essere limata alla perfezione». Troppo abituati anche a sentir parlare del potere positivo della letteratura: «Magari avesse letto qualche romanzo serio, almeno il tradimento del marito non sarebbe stato così traumatico». E addirittura della sua importanza politica: «Se gli israeliani leggessero i romanzi dei palestinesi e viceversa – sostiene Amos Oz – si potrebbe abbassare il livello della tensione».
«Se gli americani traducessero di più – crede la traduttrice Edith Grossman – la politica estera statunitense sarebbe più comprensiva». «La camorra si può sconfiggere – insiste Saviano – con la parola!». E poi, come dimenticarlo, proprio al cuore della nostra religione c'è l'annuncio perentorio e assieme bizzarro «In principio era il verbo», quasi che quanto sta al di fuori della lingua fosse secondario e insignificante.
E se invece parola, lingua e letteratura stessero più dalla parte del problema che non della soluzione?
Riflettiamo. Inventate, inesistenti nel mondo naturale, le parole ci riempiono le orecchie non appena usciamo dal grembo materno. La testa piena, cominciamo a ripeterle. I suoni giusti nelle sequenze giuste fanno sì che otteniamo quello che vogliamo. Ben presto queste formule ci sembrano naturali quanto il respiro. Il famoso flusso di coscienza non è altro che un flusso di parole.
Abbiamo appena imparato a camminare, ed ecco che ci mettono un libro tra le mani. I suoni sono diventati segni. Dobbiamo leggerli silenziosamente, sottratti ormai dagli scambi di cibo e di affetto, rimossi dal contesto immediato. Sola, appartata, la mente pullula di parole che non hanno nessuna esistenza materiale.
Leggendo in silenzio impariamo a muoverci in un sistema a parte. L'abitudine ci è congeniale? Le parole accelerano. L'occhio corre in avanti. La pagina gira ancor prima che abbiamo digerito le ultime righe di quella precedente. Le altre percezioni – il rumore di una tosatrice, i profumi della cucina – vengono smorzate, allontanate. Il mondo concreto viene meno. La macchina vorticosa delle parole si solleva dalle pesanti superfici del suolo, del cemento, della pelle. Mente e corpo si separano.
È qui che comincia il danno. La "creatività" è complice. Se tutto ciò che vediamo nel mondo ha una sua parola, un suo nome, si possono anche inventare parole per le cose che non vediamo: angeli, anime, spiriti, fantasmi, dio, paradiso; questa dimensione esiste, nelle parole.
Uno dei termini che abbiamo inventato è "io". Senza sosta, nella testa, adoperando le parole che ci hanno insegnato, fabbrichiamo un'entità che chiamiamo "io"; è una creatura con passato e futuro, proprio come le frasi e i racconti che leggiamo e scriviamo hanno tutti un inizio e una fine. Per rassicurarci sulla sua esistenza abbiamo inventato un'altra parola, identità. E un'altra, carattere, e un'altra ancora, personalità. Quante più parole ci sono per descriverlo, tanto più esso esiste.
L'io è una storia che si riversa dalla mente in un flusso di parole governate da precise regole grammaticali.
C'è chi sfrutta questa situazione per inventare racconti, romanzi, scrivendo migliaia e migliaia di segni silenziosi, imitando il modo in cui le persone inventano la propria vita. Così la narrativa scritta è intimamente legata alla costruzione dell'io di ogni lettore. Più pensiamo alla vita come narrativa, più intrecciamo la nostra trama, più siamo sicuri di essere... io.
Necessariamente la società preferisce quei libri che non interferiscono con le sacre regole dalle quali dipende la nostra identità, quegli scrittori che trattano la sintassi e il lessico standard come se fossero naturali e inevitabili, quasi che il cervello fosse composto di parole fin dalla nascita, parole italiane manco a dirlo.
«Jim» chiede Huckleberry Finn «mettiamo che un uomo ti venisse incontro e dicesse Polly-voo-franzy, tu che penseresti?». «Non penserei a nulla Huck; gli darei una botta in testa e basta».
Le lingue straniere ci turbano, ci fanno ricordare quanto le nostre costruzioni mentali siano arbitrarie. Meglio tradurle subito e far finta che dicano solo cose che si dicono benissimo anche in italiano.
Ma il silenzio è ancora peggio. Quando cerchiamo di immaginare la coscienza senza le parole, quando pensiamo a un giorno, anche solo a un'ora senza parole in testa, siamo sopraffatti da un senso di vertigine. L'io viene meno. Come quando pensiamo alla morte.
Così un chiacchiericcio di libri ci torna comodo. Rafforza l'io, che è indirizzato a quel paradiso che abbiamo inventato proprio per lui, con le parole.
Ma, ahimè, di tanto in tanto deve pur succedere: qualche guastafeste non si accontenta più della parola. Le parole non dicono più quello che lui, in qualche profondità mentale priva di parole, crede di sentire. Le parole non corrispondono alla verità, per lui. Uno scrittore che si trovi in questa difficoltà comincerà a sconvolgere le sacre sequenze sulle quali è costruito il nostro sistema linguistico. A un certo punto del suo romanzo Watt, Beckett inizia a invertire l'ordine delle lettere nella parola, delle parole nella frase, delle frasi nel paragrafo.
«Otal a otal, inimou eud. Onroig li ottut, etton alled etrap».
È pericoloso fare cose del genere. D'un tratto siamo messi davanti alla precarietà del nostro pensiero, delle nostre idee. Nella mappa fatta di parole abbiamo compiuto progressi impressionanti; ma, ahimè, una mappa non è il territorio.
Perché uno scrittore farebbe una cosa tanto antipatica? Non dovrebbe avere un tornaconto personale nella buona reputazione della parola?
Spesso è una questione di salute. Lavorando sempre con le parole, è possibile che lo scrittore cominci a sentirsene oppresso; non da una parola in particolare, ma dal movimento coatto e costante delle parole nella mente. Inizia a sospettare che, per quanto bravo, non è lui a manipolare la parola, ma viceversa è la parola a manipolare lui.
«Off it goes on» dice l'Innominabile di Beckett. «Ecco che riparte ancora», automaticamente.
Magari c'è qualcosa che non riusciamo a decidere. Le parole si organizzano in voci e litigano tra loro. A nostro dispetto. Diventa sempre più difficile sostenere la fantasia di un io coerente. Ecco la letteratura di Gadda, o di Bernhard. Adesso vorremmo che le parole si fermassero.
«Signore, son turbato» dice Prospero di Shakespeare. «Sopporti la mia debolezza; ho il cervello agitato
...un po' camminerò.
Per fermarmi la mente che batte».
Che cosa mai batteva nella mente di Prospero e di Shakespeare, se non le parole? Arrivato, dopo tutte le commedie e le tragedie, a La tempesta, ne aveva avuto abbastanza. A soli 47 anni.
Turbato da parole «che mi torturavano», il poeta Coleridge si avventurava in arrampicate da suicidio. Inventò lo sport delle scalate "ricreative" proprio per aiutarsi a eliminare pensieri e parole dalla testa. «Pensiero e sensazione, mente e corpo» si erano scissi l'uno dall'altro, lamenta Coleridge. Andava in cerca di un momento di terrore o di sublimità nel quale la mente si sarebbe svuotata delle parole. L'ineffabile è soprattutto il superamento dell'io.
Torniamo al nostro primo paragrafo e invertiamo: la camorra creata anche con le parole, la politica degli Stati Uniti sospinta proprio dalla presunzione della lingua inglese, la questione israelo-palestinese un'incomprensione anche linguistica, il trauma di un tradimento intensificato semmai dalle letture romanzesche, e tutto quell'ammirare e limare le belle frasi degli scrittori appassionati alla lingua nient'altro che un'esasperata vanità.
La parola in sé è stata lodata troppo. Gli scrittori che più ci convincono sono quelli che sanno, con Beckett, che ogni scrivere è rubato al silenzio.
«Il Sole 24 Ore» del 15 novembre 2010

Gli intellettuali carnefici

di Daniele Zappalà
«Il sapere accademico non conduce sempre alla saggezza. Persino il fatto di essere dei pensatori non impedisce di scivolare nel ruolo del carnefice, contraddicendo certe impressioni ancora molto diffuse nella civiltà occidentale». Lo storico francese Christian Ingrao, direttore a Parigi dell’Istituto di storia del tempo presente, ha appena pubblicato Croire et détruire (Fayard), una ricerca sugli «intellettuali nella macchina bellica Ss» che sta facendo molto discutere in Francia. I personaggi studiati nel dettaglio, perlopiù giuristi o economisti usciti da università blasonate come Heidelberg e Jena, non sono quelli della più stretta cerchia di Hitler.
Ma responsabili nazisti meno noti, giudicati come più 'rappresentativi' dell’insieme: ad esempio, Otto Ohlendorf, Erich Ehrlinger, Franz Six, Hans Ehlich, Werner Best. Quasi tutti parteciparono direttamente o indirettamente alle campagne di sterminio degli ebrei sul fronte orientale. Il saggio, anche per questo, sembra un contrappunto scientifico dello stesso fenomeno scandagliato narrativamente da Jonathan Littell nel romanzo Le benevole, pubblicato in Italia da Einaudi dopo esser divenuto Oltralpe uno dei maggiori casi letterari degli ultimi anni.

Gli intellettuali ebbero un peso considerevole ai vertici del nazismo?
«Se non consideriamo la concezione dell’intellettuale impegnato, quella che almeno in Francia rinvia storicamente all’Affare Dreyfus, le élite colte e dotate di diplomi ebbero un ruolo considerevole. Il che è in un certo senso normale, dato che il nazismo fu pure una burocrazia e in Germania, tradizionalmente, le élite burocratiche provenivano da studi superiori giuridici. In tutte le istituzioni naziste, furono numerosi i detentori di dottorati in diritto, ma anche in storia o economia».

In che modo parteciparono alla costruzione del regime?
«Svolsero un duplice ruolo. In un primo tempo, esercitarono una funzione di teorici, dato che fornirono formulazioni al contempo elitarie o invece più popolari dell’ideologia sviluppata da Hitler e dalla sua cerchia ristretta. Furono intellettuali organici in apparati ideologici di Stato. In un secondo tempo, gli intellettuali furono centrali nell’esercizio quotidiano del potere. Inizialmente, il nazismo interessò in modo diretto forse un milione di persone. Fra loro, ci furono almeno 6 mila brillanti giuristi con il colletto inamidato già pronti a future funzioni di governo».

Le adesioni furono talora motivate dall’opportunismo?
«Nella maggioranza dei casi, se si tiene conto ad esempio del livello relativamente limitato dei salari, dei vantaggi materiali o delle prospettive di carriera, non ho l’impressione che l’opportunismo giocò un ruolo motore. Si trattò invece di autentici militanti della causa, in tutto. Lo mostra il fatto che ebbero funzioni chiave nel partito prima della conquista del potere».

A suo avviso, cosa li spinse in primo luogo?
«I moventi furono spesso profondi. Il nazismo dovrebbe essere visto pure come un sistema di credenze capaci di liberare dall’angoscia. Durante la Prima guerra mondiale, queste élite interiorizzarono angosce di tipo apocalittico. Il nazismo consentì di trasfigurare queste angosce in una forma d’utopia, ovvero l’immagine del Grande Reich millenario». Inizialmente, ci fu pure una forma estrema di revanscismo? «Più che di revanscismo, occorre parlare di bisogno di riparazione, perché queste élite non ebbero l’impressione di una Germania davvero sconfitta dopo la Prima guerra mondiale. L’11 novembre 1918 non segnò ai loro occhi l’autentica fine della guerra, ma solo una tappa in una situazione di guerra ancora in corso. Occorreva dunque riparare l’affronto del 1918, l’affronto di uno pseudo-trattato».

Lei parla di angoscia 'escatologica'. Cosa intende?
«La Prima guerra mondiale fu un immenso choc per le società europee, per diverse ragioni, a cominciare dall’avvento della morte di massa. Un’esperienza assolutamente inaudita e sovversiva, per così dire, in quanto morte quotidiana di migliaia di giovani. Inoltre, il blocco imposto da Francia e Inghilterra provocò il tracollo della produzione agricola tedesca e dunque situazioni di carestia. In Germania, ciò fu visto come l’indice principale di una guerra percepita come guerra totale, cioè anche contro le donne e i bambini. Pure contro la Germania a venire, dunque. Si trattò di un autentico contraccolpo narcisistico. Non era più in gioco solo la sicurezza del Paese come entità politica e territoriale, ma pure come sostanza biologica».

Si può dire che molti intellettuali furono affascinati dall’ideologia in arrivo?
«Non amo questo termine. Parlerei invece d’interiorizzazione profonda da parte degli intellettuali divenuti nazisti. Sì, credettero anima e corpo».

Quest’interiorizzazione fu, almeno per certi aspetti, una specificità delle élite colte?
«Ho scelto di studiare le élite perché il loro pensiero è meglio formulato e per molti aspetti più accessibile. Ma il fenomeno si diffuse ben al di là. A provarlo, a mio parere, saranno i comportamenti suicidi del 1944 e 1945. Sul fronte russo, molti preferiranno essere uccisi sul posto piuttosto che retrocedere».

Molti dei nazisti da lei studiati divennero materialmente dei carnefici nei gruppi mobili di sterminio sul fronte orientale. Rispetto alle attività precedenti di studenti e studiosi, la metamorfosi pare totale ...
«In proposito, occorre ancora comprendere pienamente se il sistema di credenze interiorizzate servì a interpretare la violenza o invece a generarla. Personalmente, ho l’impressione che si trattò di un unico processo che non lascia probabilmente la possibilità di distinguere».
«Avvenire» del 24 novembre 2010

Tv, l’inganno delle emozioni

Spot ai raggi X
di Roberto I. Zanini
Nel 1906 Joseph Conrad, l’autore di Cuore di tenebra, nel racconto "Un anarchico" si «rattrista» per «il moderno sistema della pubblicità» e ne parla come della «dimostrazione del prevalere di quella forma di degradazione mentale chiamata credulità». Poi annota: «In varie parti del mondo civile e selvaggio ho dovuto mandar giù l’estratto di carne 'Bos'. Quello che non sono mai riuscito a mandar giù è la sua pubblicità». Affermazioni che ai giorni nostri risulterebbero intollerabili a qualunque pubblicitario o manipolatore della comunicazione che sia. L’aperta dichiarazione di provare fastidio di fronte alla reclame è infatti un esercizio di libertà, che indica un duplice fallimento del comunicatore: perché l’attuale sistema della comunicazione commerciale e non solo, è costruito per condizionare le scelte dell’individuo; perché per vendere il prodotto la pubblicità deve sedurre. Adesso, evidenzia Anna Olive­rio Ferraris, docente di Psicolo­gia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, nel libro "Chi manipola la tua mente? Vecchi e nuovi per­suasori: riconoscerli per difender­si", edito da Giunti, si ragiona co­me quel tal Patrick Le Lay, diret­tore del primo canale della tv pubblica francese, che su 'Le Monde' dell’11 luglio 2004, rife­rendosi a una certa bibita gassata reclamizzata dalla sua rete, teoriz­za: «Perché un messaggio pubbli­citario sia recepito bisogna che il cervello del telespettatore sia di­sponibile. Le nostre trasmissioni hanno per vocazione quella di renderlo disponibile... Quello che vendiamo alla bibita gas­sata è una frazione di tempo del cervello umano disponibi­le ».

Insomma, professoressa Oli­verio Ferraris, vendono il nostro cervello.
«È il loro obiettivo. Per que­sto i programmi sono fatti in funzione degli sponsor. Soprattutto i cosiddetti con­tenitori, che risultano sempre più stupidi per rendere più inci­siva la pubblicità».

Si dice che la tv ipnotizzi i bambi­ni.
«Anche gli adulti. Sappiamo che nei bambini dopo circa venti mi­nuti davanti alla tv o ad analogo ti­po di comunicazione per immagi­ni, le onde cerebrali si modificano. Da beta diventano alfa, cioè simili a quelle degli stati ipnotici».

Un’inchiesta ha collegato il nume­ro dei televisori in casa con la pro­pensione delle famiglie al consu­mo dei prodotti più pubblicizzati.
«Con tante tv ognuno guarda la sua. E senza potersi confrontare con una persona reale diventa più vulnerabile».

Anche quando si va al super­market dopo un po’ ci si sente fra­stornati. Meglio essere accompa­gnati?
«Tutto nei supermercati è con­cepito per stimolare gli acquisti. Le luci, la musica. Si crea un am­biente uterino, benevolo. E spesso i prodotti cambiano di posto per dare la sensazione di andare a scovarli... come quan­do eravamo cacciatori-raccogli­tori».

Si fanno studi specifici da de­cenni.
«Anche sul modo di far passare gli spot in tv. Ha fatto caso a quelle pubblicità che vengono trasmesse una volta per intero e poi sono rilanciate a spezzoni? Lo fanno perché lo spettatore sia costretto a fare lo sforzo di com­pletare lo spot. Un esercizio m­nemonico, che fissa nelle menti il marchio e le sue atmosfere».

Sono più importanti le atmosfere o il prodotto?
«Le faccio il caso dei detersivi. In fondo sono tutti uguali. Se vuoi vincere la concorrenza devi inven­tarti un logo, uno spot seduttivo, l’atmosfera giusta. Sembra strano, ma è la stessa logica che, per para­dosso, conduce le emittenti a fare in prima serata programmi che si assomigliano tutti».

Nel senso che per sedurre i tele­spettatori tutti puntano su bisogni primari come cibo, paura e sesso?
«In questo modo si pensa di dare alle persone quello che cercano. La concorrenza fra le emittenti punta tutto su questo e la qualità della tv si abbassa progressivamente. An­che i politici utilizzano la stessa tecnica. Con una sintassi elemen­tare dicono quello che la gente si aspetta di sentir dire da loro».

Non servono i contenuti, ma serve la televisione?
«La televisione o qualunque altro media dove l’importante è esserci e arrivare in contemporanea a mi­lioni di persone. In questo modo ognuno può costruirsi un carisma: basta apparire. Pensiamo a certi personaggi dello spettacolo e non solo, che sono ammirati pur con­ducendo una vita riprovevole, pur entrando e uscendo dalla galera, pur essendo dei ricattatori. Acqui­stano popolarità e siccome la mac­china della comunicazione è auto­referenziale, fanno un’intervista con uno e poi li intervistano tutti. Per gli operatori della comunica­zione il modellino preconfeziona­to, il format, funziona sempre».

Più ti emoziono, più ti condiziono. E la verità dei fatti?
«Nella comunicazione per imma­gini non conta la verità, conta l’e­mozione, il sentimento. E siccome tante persone associano i senti­menti e le emozioni che provano con la verità... La nostra civiltà è fatta di persone che in certe condi­zioni si lasciano convincere facil­mente. Basta il colpo di teatro la trovata che crea la giusta atmosfe­ra. I nostri politici lo sanno, così come lo sanno i conduttori televisivi più gettonati. Anche il modo di porre le domande condiziona le ri­sposte. I sondaggi in tv sono esem­pi classici di manomissione della verità. Poi nessuno controlla se le promesse sono state mantenute e se le 'verità' sono accertate».

Se conta solo quello che dà emo­zioni vengono a cadere tutti i prin­cipi che reggono la società civile.
«Certamente si favoriscono com­portamenti più impulsivi. Omolo­gati. Anche nel rapporto col sesso. Le gerarchie, le convenzioni, le re­lazioni, tutto quanto è frutto della civiltà e dell’istruzione perde di senso. L’autocontrollo non ha più significato. Le dispute, le divergen­ze si risolvono con la violenza. In tanti cartoni per bambini si ragio­na così. La politica ragiona così».

Come ci difendiamo?
«Non conosco altra difesa che quel­la di far crescere lo spirito critico».

Di fronte a un sistema che mina le radici della democrazia e della no­stra stessa civiltà ci difendiamo con lo spirito critico?
«Bisogna insegnare a valorizzare lo spirito critico. A non accontentarsi di essere cullati. Solo così si acqui­sta l’esperienza necessaria per di­stinguere l’imbonitore dal comu­nicatore onesto. La civiltà non pro­gredisce con le sensazioni, la de­mocrazia non vive solo di emozio­ni. I giovani sono sensibili sulle questioni che hanno a che fare con la libertà. Nel mio lavoro ho visto che sono molto ricettivi quando si spiegano i modi e i motivi di chi li vuole ingannare. E il comporta­mento dell’utente condiziona il comunicatore».
«Avvenire» del 24 novembre 2010

21 novembre 2010

Se aprire alla Turchia mette in crisi l’Europa

Islam e Occidente. L’adesione che l'unione non può permettersi
di Antonio Puri Purini
Le istituzioni comunitarie devono ritrovare la serenità necessaria per definire i loro interessi generali e accelerare il processo d’integrazione. Specularmente, Ankara deve accettare la sovranazionalità come un autentico principio fondante
Un grande interrogativo di questi tempi riguarda l’adesione della Turchia all’Unione Europea. Non è un impegno troppo ambizioso per Europa e Turchia, che non hanno condiviso (se non nell’antichità) lo stesso spazio storico, culturale, morale? Non è un cimento troppo impegnativo per una classe politica europea congelata nella ritualità delle proprie convenzioni? Questa tormentata adesione batte il passo perché ostaggio dell’irrisolto rapporto fra l’Europa e l’Islam e della stessa debolezza dell’Unione Europea. Quando il Consiglio europeo di Helsinki riconobbe nel 1999 lo status di Paese candidato alla Turchia, prevaleva l’ottimismo sulla possibilità che questa avrebbe trovato la propria collocazione in Europa. Si pensava che il negoziato d’adesione sarebbe comunque durato oltre un decennio, che la controversia greco-turca su Cipro si sarebbe risolta, che il rafforzamento delle istituzioni comunitarie avrebbe preceduto l’allargamento (non viceversa come avvenuto), si sottovalutavano le diversità. Di fatto, meccanismi politico-burocratici imperniati sulla continuità prevalevano sul sentimento profondo dei popoli e sulle ragioni della storia.
Nessuno sembra aver seriamente riflettuto sulla circostanza che la Turchia è l’erede orgoglioso di un grande impero multinazionale; che ha un secolare passato islamico alla ricerca di un proprio spazio; che riveste un ruolo importante in Medio Oriente ed in Asia centrale; che è una cerniera fra mondo occidentale e mondo islamico; che aspira ad uno status di rilevanza globale. Inoltre, tra pochi anni, quando potrebbe essere diventata membro dell’Unione Europea, la Turchia, Paese musulmano malgrado la laicità voluta da Kemal Ataturk, avrà ben oltre 80 milioni di abitanti. Era inevitabile che si acuisse la contrapposizione fra coloro che sono convinti che l’adesione della Turchia rappresenterà una svolta positiva nei rapporti fra l’Europa e l’Islam, e coloro secondo cui segnerà invece la fine dell’integrazione europea.
Una cosa è certa: la prospettiva dell’accesso della Turchia è diventata una sfida lacerante per l’Unione Europea, è intrecciata con la problematica presenza dell’Islam in Europa, è dominata da crescente irrazionalità ed emotività. Perfino le opinioni pubbliche ipnotizzate dal cortile di casa, come quella italiana, hanno compreso che l’adesione della Turchia introdurrebbe un elemento d’imprevedibilità nella vita europea. Non bisogna essere un addetto ai lavori per capire che comporterebbe uno stravolgimento degli equilibri istituzionali definiti all’interno dell’Unione Europea: dalla composizione del Parlamento europeo al calcolo della maggioranza di voto. Può tutto questo essere assorbito come se si trattasse dell’adesione degli Stati baltici o della Slovacchia? Non tutto il male viene per nuocere. Anche la questione turca obbliga l’Europa a prendere coscienza di se stessa, ad incoraggiare la formazione di una identità europea, a porsi il problema dei propri confini, ad affrontare insieme il rapporto con l’Islam.
Lascia però sorpresi che la contraddizione storica fra Europa e Turchia non sia stata affrontata prima e che emergano proprio adesso interrogativi latenti da decenni. La Turchia è membro originario, dal 1949, del Consiglio d’Europa, sulla base di una interpretazione geografica e convenzionale delle frontiere europee. La condivisione, che a quell’epoca era esclusivamente formale e non sostanziale, della difesa dei diritti dell’uomo e della supremazia del diritto tutelati da quell’organismo, così come il ruolo di pilastro dell’Occidente esercitato dalla Turchia contro l’Urss, sono sempre apparsi motivi sufficienti per sostenerne l’appartenenza all’Europa. La prima domanda d’associazione della Turchia alle Comunità europee, che allora perseguivano obiettivi più limitati rispetto a quelli successivamente delineati dal Trattato di Maastricht, venne presentata nel 1959 dall’allora primo ministro turco Menderes (poi fatto impiccare dai suoi generali). Colpi di Stato militari e repressioni politiche rallentarono questo processo che venne ripreso in mano negli anni Ottanta dall’allora primo ministro Turgut Orzul e negli anni Novanta dal governo conservatore islamico del primo ministro Erdogan. Dopo il riconoscimento a Helsinki che la Turchia ottemperava ai cosiddetti criteri di Copenaghen, è iniziato nel 2005 il negoziato d’adesione che dovrebbe concludersi nell’arco di un decennio.
La sua struttura è molto complicata: prevede 35 diversi capitoli negoziali; uno (sulla scienza) è stato concluso; otto sono congelati, fra cui quelli relativi alla libera circolazione delle persone e all’agricoltura; gli altri procedono a rilento. Nel frattempo, anche se la Turchia rimane una democrazia ed una cultura musulmana diversa, le riforme adottate negli ultimi anni per venire incontro alle richieste dell’Unione Europea hanno reso l’economia turca competitiva, modernizzato il sistema bancario, migliorato la democraticità del sistema politico. L’impegno preso con Ankara è chiaro ma il negoziato rimane un processo aperto. Parallelamente, l’adesione suscita dubbi crescenti in un’opinione pubblica resa inquieta di fronte alla prospettiva che i valori occidentali cedano, anche nel caso turco, ad un relativismo etico spinto, e preoccupata per un’immigrazione islamica difficile da integrare. Al tempo stesso, i turchi hanno dato spesso l’impressione di considerare l’adesione come una questione di potenza e non come una partecipazione sincera ai pilastri fondanti, compresa la sovranazionalità, dell’Unione Europea. Si sono rafforzate, soprattutto in Francia e Germania, le posizione a favore di un clamoroso dietrofront: la sostituzione della piena partecipazione con un rapporto privilegiato. Altri Paesi, fra cui l’Austria ed i Paesi Bassi, si sono accodati a questa linea. Tale ipotesi (sotto la formula «tutto tranne le istituzioni»), avanzata dal cancelliere Angela Merkel, viene, almeno per il momento, respinta da Ankara. Tuttavia, è un’ipotesi da non scartare. L’adesione richiede l’unanimità degli Stati membri. La mancata ratifica di un singolo Stato la rende impossibile. La Costituzione francese prevede addirittura un referendum. Dubito che l’opinione pubblica degli Stati più incerti cambierà idea. Dieci anni dopo Helsinki è in sostanza subentrato un reciproco disincanto: alla crescente diffidenza europea corrisponde l’accresciuta diffidenza turca verso la prospettiva di legare il proprio destino all’Europa.
Molti governi conoscono questi ostacoli ma preferiscono rifugiarsi nella formula «della capacità europea di armonizzare e amalgamare sistemi politici e culturali diversi » come si legge in un recente intervento comune dei due ministri degli esteri Frattini e Davutoglu. Ma ci rendiamo conto di cosa stiamo parlando? È pensabile di poter amalgamare la Turchia in Europa quando le divisioni fra gli europei rimangono profonde ed anzi rischiano di accrescersi? Queste argomentazioni si scontrano con la fondamentale necessità di rafforzare l’unità dell’Unione Europea e d’impedire l’affermazione del populismo suscitato dalla prospettiva di ulteriori allargamenti dell’Unione. L’Europa non può affrontare impreparata un’avventura che rischia d’alterare la sua stessa fisionomia: nella coesione, nella governance, nel bilancio, nella sovranazionalità. I cittadini non possono essere più tenuti all’oscuro sulla sua rotta. Ai governi spetta la scelta fra due opzioni. Da un lato un’Europa integrata secondo il modello dei Padri fondatori: questo significa che il progetto politico europeo deve conservare la propria impostazione originaria. Dall’altro un’Europa equiparabile ad un grande spazio di stabilità economica e militare: questo significa invece accettare, in nome della convivenza con l’Islam, tutte le conseguenze - anche economiche, sociali, religiose - derivanti da un così impegnativo allargamento.
Non saremmo mai dovuti arrivare a questo. Sulla Turchia, gli Stati europei hanno dato la precedenza a considerazioni strategiche ed economiche, si sono fatti influenzare dagli Stati Uniti, sono stati vittima della retorica (dal dialogo mediterraneo a quello interculturale), hanno accantonato quesiti scomodi compreso quello se la Turchia fosse un Paese veramente europeo. Hanno sottovalutato l’impatto politico, istituzionale, economico, culturale dell’adesione sul funzionamento dell’Unione. Nel frattempo, si è aggiunto il problema del fattore islamico in Europa, che riguarda direttamente la Turchia per la presenza di milioni di cittadini turchi in Germania. L’Islam fa paura a molti: pesa la circostanza che il mondo islamico si è autoisolato negli ultimi secoli rispetto al dialogo (quello era davvero interculturale) avviato da Avicenna ed Averroè. L’opinione pubblica sa che la Turchia è orgogliosa della propria laicità, ma anche che è un Paese islamico dove i cristiani hanno la vita difficile. Osserva con preoccupazione i sintomi di una crescente simbiosi fra nazionalismo ed Islam in Turchia. Teme che l’entrata della Turchia porterà all’irruzione dell’Islam in Europa. Si domanda quindi se può esistere un Islam europeo caratterizzato dalla tolleranza rispetto ad un modello turco segnato dall’intransigenza. Il presidente della Germania Christian Wulff ha affrontato questo problema, ma ha ricevuto parecchie critiche quando, in un recente discorso, ha sostenuto che l’Islam appartiene alla Germania.
La sfida è impegnativa. L’Europa deve dimostrare di non essere una civiltà allo stremo delle forze, ma uno spazio definito dalle stesse tradizioni culturali e dagli stessi sistemi politici. Oggi le priorità dovrebbero essere la coesione interna, l’integrazione, l’unione politica: sono snodi fondamentali anche per garantire la sostenibilità dell’euro nel lungo termine. Il resto è secondario. Come pensare allora d’includere la Turchia in un’Unione che dev’essere crescentemente e necessariamente politica? L’ex cancelliere Willy Brandt soleva dire che si può crescere insieme solo nell’ambito di una medesima appartenenza. Un’Unione politicamente unita, spiritualmente consapevole della propria identità storica ed impostazione umanistica, consapevole della secolare divisione nei rapporti fra l’Occidente e l’Islam, decisa sulla via dell’integrazione, potrebbe - forse, molto forse - correre il rischio d’assorbire una realtà diversa e composita come la Turchia. Tuttavia, la pallida Europa dei nostri giorni, vittima degli interessi contrapposti, non è in grado di farlo.
Di fronte alla dissoluzione dell’idealismo che ha permesso l’abolizione delle frontiere e la moneta unica, l’Europa deve ritrovare innanzitutto la serenità necessaria per definire la sostanza dell’interesse generale europeo ed accelerare l’integrazione. Specularmente, anche la Turchia deve rendersi conto che la scelta europea è una scelta di civiltà e non di potenza. Ha il dovere di accettare la sovranazionalità come un principio fondante della vita europea, accettare che il commercio o la concorrenza siano responsabilità comunitarie, considerare normale che, accanto ai minareti, in Turchia vengano costruite delle chiese, smettere di rifiutare ai cristiani dei diritti elementari.
La storia obbliga l’Europa ad assumersi la responsabilità di scelte difficili: evitare dei muri intorno alle proprie frontiere, sostenere la formazione di un’identità europea per respingere le forze centrifughe, dialogare con l’Islam, consolidare un sentimento di solidarietà e di comune appartenenza fra gli europei, riconoscere che le frontiere dell’Europa sono state raggiunte. L’Europa non può mettere tutto questo a repentaglio in funzione dei rapporti con la Turchia e con l’Islam: occorre quindi spiegare alla Turchia che l’adesione non è un interesse collettivo europeo. È una linea più dignitosa che non puntare sulla mancata ratifica del trattato d’adesione da parte di uno o più Stati membri. Tanto vale che anche l’Italia, dove l’adesione ha molti sostenitori ma è sempre mancato un vero approfondimento sulla presenza turca in Europa, affronti questo tema in un’ottica europea e non mercantile. La responsabilità di una mancata adesione non sarebbe comunque né della Turchia, né dell’Europa: come diceva Gianbattista Vico «le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano».

L'autore
Antonio Puri Purini è stato rappresentante permanente dell’Italia presso il Consiglio d’Europa dal 2008 al 2009, quindi consigliere diplomatico del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale dal 1999 al 2005, poi ambasciatore d’Italia a Berlino per quattro anni, dal 2005 al 2009
«Corriere della sera» del 15 novembre 2010