16 novembre 2010

Cristiani: si può «cantar vittoria»

Oggi la Chiesa sembra perdente di fronte al mondo, ma non è così Non solo in quanto nel Vangelo i veri trionfatori sono i martiri, ma perché noi non crediamo in una filosofia bensì in un fatto La riflessione del cardinale Biffi
di Giacomo Biffi
In questo tempo squinternato – che sembra dare sempre più spazio al rifiuto del messaggio evangelico sostanziale e si compia­ce di contestare in tutti i modi la Chiesa cattolica, il suo magistero e quasi la sua stessa esistenza – fa capolino talvolta nella nostra co­scienza di credenti una domanda semplice e inquietante: noi cristia­ni, nella vicenda storica com­plessiva, siamo vincitori o sia­mo perdenti? Il pungente in­terrogativo di solito non arriva a mettere in crisi il nostro atto di fede, ma a darci qualche in­timo disagio sì. Mette conto al­lora di affrontare in maniera e­splicita il problema, passando in rassegna i diversi elementi, de­sunti dalla divina Rivelazione, che possono aiutarci a raggiungere una soluzione intimamente pacifican­te. Regola indubbia per vivere sicu­ri e soddisfatti è di stare per quel che è possibile dalla parte di chi vince. Gli italiani in genere cono­scono bene questa norma furbesca e si sforzano di rispettarla. È un principio pratico che possiamo ac­cogliere anche noi, con un’avver­tenza però: che non si tratti di un vincitore temporaneo, destinato prima o poi alla sconfitta o almeno al superamento. Come canta il co­ro conclusivo del Falstaff di Verdi: «Ride bene chi ride – la risata fi­nal ». Ma l’unico vincitore, ultimo e definitivo è il Signore Gesù. Ce lo ha assicurato lui stesso in una delle ore più dolenti e significative della sua avventura terrena: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate co­raggio: io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). E, dopo questa solenne di­chiarazione, è andato incontro all’arresto, alla condanna, alla cro­cifissione, alla morte, alla Pasqua di risurrezione e di gloria: tutto questo – tutto – costituisce la sua “vittoria”. È una vittoria che origina nel tempo ma lo trascende. Gesù è il trionfatore in assoluto, e il suo trionfo è anche il nostro trionfo.
Noi che aderiamo attraverso la fe­de al suo mistero ed entriamo nel­la sua comunione vitale diventia­mo – con lui, in lui, e per lui – vin­citori indiscutibili, vincitori non insidiabili, vincitori perenni. Perciò la prima lettera di Giovanni può scrivere: «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (1 Gv 5,4-5). Che la nostra ultima sorte sia positiva e fausta – e il no­stro esito finale coincida, in Cristo, con un’apoteosi superiore a ogni nostra attesa – è dunque cosa sicu­ra: se ci manteniamo con sincera fedeltà in questa prospettiva, la nostra travagliata avventura di cre­denti non mancherà mai di pace interiore e di gioia. Ma il convinci­mento dell’immancabile vittoria e­scatologica psicologicamente stri­de con l’esperienza dell’insuccesso e del decadimento che affligge qualche stagione, anche protratta, delle comunità cristiane. Sarà bene ricordare a questo proposito che il Signore non ci ha mai promesso u­na militanza terrena che fosse una continua marcia trionfale e una vi­ta cristiana paragonabile a una passeggiata sotto i mandorli in fio­re. Egli ha piuttosto moltiplicato gli avvertimenti contrari. Secondo Gesù il rapporto normale del mon­do con la «nazione santa» (cfr. 1 Pt 2,9) – il «mondo», cioè le forze poli­tiche, le culture dominanti, le po­tenze della comunicazione – non è la comprensione, la simpatia, il dialogo; è la persecuzione: «Sarete odiati da tutti a causa del mio no­me » (Mt 10,22). Ma la persecuzio­ne, secondo l’ottica di Cristo, non è per noi una sciagura: è un modo di assimilarci alla croce del Redento­re, e quindi una partecipazione al­la sua esaltazione. Il martire, se­condo la coscienza certa della Chiesa, espressa con chiarezza dal­la liturgia, non è uno sconfitto, è un trionfatore, perché ha attuato nella forma più perfetta l’imitazio­ne di colui che «ha vinto il mon­do ». È innegabile però che noi sia­mo tentati di tristezza quando ci troviamo alle prese con quello che ci sembra un declino del cristiane­simo. Ma questo declino in effetti non c’è e non ci può essere, per la stessa autentica e indeformabile natura della realtà cristiana. Il cri­stianesimo primariamente e per sé non è una dottrina né un sistema etico né un insieme di pratiche ri­tuali: intendiamoci, è anche tutte queste cose, ma non primaria­mente e per sé. Potremmo addirit­tura dire che primariamente e per sé non è neppure una “religione”: è una serie unificata di realtà (un av­venimento, una Persona, un dise­gno divino concepito nell’eternità e progressivamente attuato nella storia). È il “fatto” dell’Unigenito del Padre, che si fa uomo, si immo­la per la nostra salvezza, risorge, sta alla destra di Dio, effonde lo Spirito; e così diventa per noi prin­cipio di una vita nuova e più “vera”. Ora gli avvenimenti non sono mai scalfiti o messi in crisi da niente e da nessuno. Una filosofia che non abbia più alcun sostenitore è un fenomeno esaurito; una religione senza nessun seguace è una reli­gione ormai estinta. Invece il Figlio di Dio che si incarna, la sua morte salvifica, la sua esistenza glorifica­ta, il suo amplificarsi nella realtà del Christus totus, essendo dei “fat­ti” sono sempre vivi e vincenti; e lo sarebbero, pur se non ci fosse più nessuno quaggiù che li accolga e ci creda. Si capisce allora come mai Gesù possa seraficamente prefigu­rarsi per il futuro terreno dei suoi discepoli le ipotesi più deprimenti: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Per lui la realtà indeformabi­le degli eventi salvifici è più impor­tante della quantità delle adesioni: «Disse allora ai Dodici: “Forse an­che voi volete andarvene”» (Gv 6,67). Ci rimane un’ultima annota­zione che aiuti la nostra fiducia e la nostra gioia, pur nelle circostanze più difficili della vicenda ecclesiale. Nella lettera agli Ebrei c’è una pa­rola singolarmente intensa e illu­minante: «Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Eb 13,8).
Quel Gesù che colma di sé l’intero percorso dei figli di Adamo e gli dà senso («ieri») e che vive e regna nell’eternità alla destra del Padre («per sempre»), non si è reso lati­tante dai giorni incerti e inquieti nei quali ci tocca di vivere quaggiù («oggi»). Non ci ha lasciati soli: continua a essere possente e attivo in mezzo a noi. Nessuna potenza mondana riuscirà mai a intimidire la «nazione santa», che sa di avere con sé il «Signore delle schiere».
«Avvenire» del 16 novembre 2010

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