16 novembre 2010

Se la cronaca nera inquina la narrativa

di Maurizio Cucchi
Da tempo abbiamo capito che le gerarchie d’importanza e valore – di personaggi e azioni – sono mutate. Quanto meno nel modo in cui vengono pubblicamente suggerite dai media. Voglio dire che il tasso di importanza del soggetto è direttamente proporzionale alla sua presenza pubblica, alla sua 'visibilità', alla sua notorietà mediatica. Proprio per questo anche al criminale viene riservato uno spazio notevole di 'gloria', in quanto la sua presenza sulla scena pubblica, la sua, appunto 'visibilità', è notevole. Lo vediamo anche dall’enorme risalto che i fatti di cronaca nera, i vari tremendi delitti vengono ad assumere, riempiendo pagine di giornale e producendo infinite chiacchiere radiotelevisive. Un tempo i gestori della comunicazione dicevano circa: «D’accordo, il pubblico predilige la cronaca nera e il volgare pettegolezzo, e dunque non deludiamolo; ma prima vengano in ordine gerarchico i fatti e le notizie di maggiore importanza oggettiva». Oggi si semplifica nel segno dell’ignoranza compiaciuta e del supermercato, e dunque si afferma impunemente: «Il pubblico è somaro e/o corrotto, ama soprattutto la nera e il gossip, e dunque diamoglielo prima e più di ogni altra cosa». Con vistoso calo di consapevolezza negli utenti e abbattimento di una funzione educativa anche indiretta da parte degli informatori. Il criminale, dunque, è ormai pressoché alla stregua di un divo, o di un autentico benefattore. Un giorno qualcuno, entrando in un caffè, riconoscerà un volto noto, e salutandone il possessore dirà sorridente: «Lei è il celebre fisico nucleare!»; e l’altro, imbarazzato ma in fondo fiero, risponderà: «No. Veramente, io sono il mostro di Berlino!». Tutto questo è anche orrendamente confortato dalle ormai numerose pubblicazioni – alle quali contribuiscono a volte, in veste di 'braccio' ad uso della 'mente' (criminale) insospettabili professionisti della penna – nelle quali appaiono minuziosamente e diligentemente descritte le gesta dell’autore di efferati omicidi o terribili attentati. Il seguito, verosimilmente, e assai spesso, sarà la traduzione in film dell’insigne opera letteraria, con ulteriore risalto più o meno eroico della vicenda dell’assassino di turno. Il quale, in effetti, avrà tratto dal suo gesto – efferato ma ormai pubblico, e in quanto tale 'pregevole', assorbito dalle coscienze – un congruo premio in denaro. Come dire che è vero ciò che molti iniquamente sostenevano da tempo, e cioè: il delitto paga. Insomma, la sete del pubblico, e dunque dei gestori dei media, la sete di fatti neri e orrori vari produce una sorta di sotterranea glorificazione del crimine (con documentata crescita numerica di fan dei criminali) e di sua palese utilità economica. Nel varietà totale che, come dico sempre, ci muoviamo felici (o siamo costretti a muoverci nostro malgrado), il delitto è spesso un business, produce reddito ai suoi autori e ai loro orgogliosi interpreti o amanuensi. Inoltre, il livello di sdegno e scandalo che il delitto può suscitare nelle coscienze è di colpo abbassato a un valore residuale o quasi azzerato dal fatto che il trattamento a cui lo sottopongono i media lo trasforma pressoché, e inevitabilmente, in assurda fiction.
«Avvenire» del 16 novembre 2010

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