21 novembre 2010

Un conto di orrori e libertà: il male (e il bene) del progresso

Conversazione con Cesare De Michelis
di Claudio Magris
La modernità ha prodotto tirannie e manierismi. Ma anche affrancamenti e capolavori artistici
«Bisogna essere assolutamente moderni», dichiara Rimbaud; la «modernità» non è intesa quale definizione cronologica, bensì quale svolta epocale e metafisica, quale necessità di proiettarsi in avanti in un progresso illimitato, cambiando la società e la vita, creando l’Uomo Nuovo, l’arte nuova, in una totale discontinuità col passato. Da tutto ciò sono nate molte liberazioni ed infamie, capolavori artistici e manierismi tirannici, benessere e crescita illimitata sino all’autodistruzione.
Su questo vulcano vitale e distruttivo è uscito il volume Moderno antimoderno di Cesare De Michelis, libro «imponente e appassionato» - come ha scritto in un incisivo articolo Alfonso Berardinelli - che affronta il Novecento «doloroso» e «innominabile» con acuminata polemica nei confronti dei suoi sogni totalitari ma con «attenzione fedele e fraterna», per citare ancora Berardinelli. L’avversione di De Michelis ad un certo pathos moderno dell’assoluto (anche quando l’assoluto è negato) deriva da una scettica e generosa inclinazione ad aiutare gli uomini senza pretendere di renderli perfetti, nel timore che l’eliminazione del male finisca per togliere di mezzo, insieme al male, la vita stessa. È un libro di letteratura europea (o mondiale, Weltliteratur) esemplificata su autori italiani analizzati, in splendidi ritratti, con lucidità critica e partecipazione affettiva. «La tua critica alla febbre del progresso - gli dico incontrandolo nel modesto bar della stazione di Portogruaro -, ai suoi sogni di redimere il mondo anche passando attraverso la distruzione, alla sua radicale trasformazione di una plurisecolare tradizione e della vita stessa, è in fondo soprattutto una critica alla borghesia e al capitalismo. È la borghesia moderna - che proprio perciò affascinava Marx - che ha distrutto la civiltà contadina, sradicato valori e ritmi di vita, sconvolto legami e rapporti che sembravano eterni. Il comunismo, che avrebbe dovuto sanare quella ferita, ne ripete la violenza faustiana e prometeica, come si vede nella rivoluzione industriale e capitalista che sta avvenendo in Cina. C’è in te un anticapitalismo romantico, avverso alla modernità industriale...».

DE MICHELIS - Non credo di essere «anti», tantomeno rispetto al capitalismo; per quanto posso difendo i valori dell’umanesimo, a partire dalla centralità dell’uomo, che neppure la civiltà contadina tutelava a sufficienza. Quando la scienza, questa sì apertamente sfidando qualsiasi primato del divino, non pretese soltanto di conoscere le leggi della natura, ma di ordinare l’universo secondo gerarchie assolute, che prescindevano dall’esperienze e dalla storia, la costruzione umanistica, che intrecciava cristianesimo e classicismo per cavarne una linea morale e culturale che esaltava la libertà individuale, cominciò a scricchiolare e poi a cedere fino al tracollo. Lì il «progresso» rivelò la sua radicale avversione per l’uomo.

MAGRIS - Quelle trasformazioni violente hanno tuttavia promosso anche un reale progresso, creato per milioni di persone civili e umane condizioni di vita care alla tua visione umanista, riconosciuto diritti fondamentali ad ognuno. Se il moderno ha avuto certo orrori, lager e gulag, il passato è stato ben più orrendo. Oggi si riconosce dignità umana a milioni di uomini prima considerati come bestie e spesso annientati senza che nessuno ne avesse nemmeno consapevolezza. I sogni di redimere l’umanità sono un lievito e i disastri nascono quando, come accade con i totalitarismi d’ogni genere, si crede di poter fare il pane col solo lievito e senza il grano della buona terra. Ma senza lievito non si fa il pane...

DE MICHELIS - Certo senza il lievito la farina si impasta indigesta e ai concreti e materiali vantaggi della modernità nessuno potrebbe e saprebbe più rinunciare, né a qualcuno viene richiesto di farlo, tanto meno da me. La questione in termini «economici» potrebbe persino risolversi a favore del Moderno: da un lato i milioni di morti delle rivoluzioni novecentesche di destra e di sinistra, dall’altro i milioni di sopravvissuti alle malattie grazie alla medicina; ma la vita e i suoi valori non sono traducibili in termini economici, non sono riducibili a semplici numeri. Il disordine, che è nato dall’ossessiva ricerca di un «ordine nuovo», ha presentato il suo terribile conto a fine secolo, cosicché a pagarlo - con l’insicurezza, la confusione, la «cecità» - sono ora le generazioni più giovani.

MAGRIS - La tua critica alla modernità investe il Novecento, ma è nel Settecento che inizia la svolta radicale, l’impulso a imporre un senso e una direzione alla Storia e a realizzare un progresso definitivo, a cambiare la Storia. È una delle due anime dell’Illuminismo e del progresso illuminista, che trasforma o vuole trasformare la realtà in nome dell’Idea, della Rivoluzione (politica, letteraria, economica). Ed è nel Settecento che si sviluppa il genere letterario per eccellenza della modernità, il romanzo - il romanzo borghese che narra quella distruzione vitale e tumultuosa della tradizione, che celebra il denaro quale forza sradicante e fatale. Robinson, imprenditore di se stesso, come lo definisce Marx, e tutti gli altri...

DE MICHELIS - All’origine del Moderno c’è l’Illuminismo e anche, prima di esso - addirittura nel ’600 -, il razionalismo scientifico: Cartesio sprezzante suggeriva di cancellare la memoria di un passato immaginato soltanto come l’età dell’errore e dell’ignoranza e, dopo di lui, Kant raccomandava a se stesso di «ricordarsi di dimenticare». Il Moderno si afferma togliendo valore - ogni valore - alla tradizione e illudendosi di riprendere da capo: la rivoluzione francese - e non solo essa - pensò addirittura di ricominciare il conto degli anni da zero, con evidenti propositi blasfemi. La storia dell’uomo, invece, non ha soluzioni di continuità, non conosce smemoratezza e ricominciamenti. Bisogna in ogni caso fare i conti con il passato e la storia, e non è sempre facile.

MAGRIS - Ma nel Settecento c’è stato anche il grande Illuminismo teresiano e giuseppino, deciso nelle riforme e nella consapevolezza di dover sanare le orride condizioni di vita della maggioranza degli uomini, ma alieno da ideologie totalizzanti, da estremismi irreligiosi, da sogni titanici. È stato un grande tentativo, razionale e umano, di migliorare l’esistenza evitando il Terrore, quello rivoluzionario e quello reazionario, e anche la feroce e selvaggia accumulazione del capitalismo quale rapina. La cultura tedesca ha percepito, come Schiller, le ferite inferte dal progresso, ma ha compreso che esse potevano e dovevano venire sanate soltanto con spirito progressista, guardando in avanti pur senza fanatismi.

DE MICHELIS - Se il progresso avesse voluto dire soltanto andare avanti migliorando, secondo lo spirito di quel riformismo che tu attribuisci a quegli Asburgo, nei decenni che precedettero la rivoluzione giacobina, il Moderno - quello dell’industrializzazione radicale, delle avanguardie artistiche e politiche, della violenza rivoluzionaria e dei suoi totalitarismi istituzionali, dei genocidi e delle guerre «mondiali» - non sarebbe mai esistito. Eppure, tutto il maligno della modernizzazione, di ogni modernizzazione, è già presente nel suo pensiero sin dall’inizio, irrimediabilmente, e aspetta soltanto di esplodere nel nichilismo antiumanistico per prendere finalmente il sopravvento.

MAGRIS - Critica alla «modernità» o alla sua letteratura, ai romanzi che hanno assunto su di sé la sua grandezza e la sua tragedia? I grandi scrittori del Novecento - e proprio i più «moderni», sperimentali, innovatori - hanno vissuto questo lacerante strappo con la Storia non certo con presuntuosa sicumera ideologica (semmai questa caratterizza i narratori ufficiali dei regimi totalitari, scrittori stilisticamente tradizionalisti), bensì come una ferita, come necessità e insieme impossibilità di trovare un senso della vita, e della Storia. Hanno vissuto quella frantumazione senza amarla, ma sentendone la verità storica ed esistenziale (anche una malattia è una verità) e l’hanno fatta divenire linguaggio, racconto, metafora del mondo. Anche le grandi avanguardie trovano in questo la loro verità e la loro necessità. Il romanzo che ha detto la verità di quel mondo moderno è il grande romanzo sperimentale dei Musil, Kafka, Proust, Faulkner, Svevo. Anche gli scrittori da te ritratti con tanta forza - ad esempio, ma è solo un esempio, Tozzi - fanno propria, anche nelle loro rivolte contro il Moderno, la sua verità epocale. Svevo, Gadda e alcuni altri sono consapevoli che quel peccato originale della vita e della Storia scoperto dal Moderno - da nessuno come da Baudelaire - non è stato ancora assolto né redento, ma è ancora la nostra verità, nonostante i pacchiani tentativi post moderni di far finta che tutto vada bene, di fingere che si possano restaurare i romanzi ben fatti. Qualcosa di essenziale, nella vita millenaria, è irrimediabilmente cambiato, in bene e/o in male, e ogni autentico romanzo non può non narrare se non «dopo la fine», come dice l’affascinante libro di Giulio Ferroni, con la coscienza di essere postumo e di poter dire la vita e cercarne il senso solo passando, anche stilisticamente, attraverso le forche caudine della dissonanza.

DE MICHELIS - Che la letteratura, la più valida letteratura del Novecento italiano, sia stata soprattutto antimoderna è forse una conclusione possibile del mio lungo viaggio attraverso i suoi autori e i suoi libri, ma un’altra parte di essa - quella più sperimentale e innovatrice -, rinunciando a quel «primato» che la tradizione umanistica aveva conquistato per tutti, si prestò subalterna e servile a «cantare» le magnifiche sorti e progressive del potere delle idee, immediatamente inverato in quello dello Stato, secondo un progetto di riduzione a unità di tutte le risorse dell’uomo. La forza, lo spirito, l’intelligenza, la fantasia non erano più altrettante possibilità per raggiungere il vero e il bene, ma tutte venivano subordinate a una di esse che il bene e il vero già lo conosceva e lo possedeva per forza ideologica. Il risultato è dinnanzi agli occhi di ognuno.


Confronti
I due protagonisti del dialogo: Claudio Magris e Cesare De Michelis. De Michelis (nato a Dolo, in provincia di Venezia, nel 1943), è stato docente di Letteratura italiana all’Università di Padova. Nel 1965, appena laureato, è entrato nel consiglio d’amministrazione della casa editrice Marsilio, della quale oggi è presidente. Il suo saggio «Moderno antimoderno» è edito da Aragno (pp. 503, € 40). Ha pubblicato, tra gli altri, «Goldoni nostro contemporaneo» e «L’avanguardia trasversale. Il futurismo in Italia e in Russia», editi da Marsilio
«Corriere della Sera» dell'8 novembre 2010

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