02 dicembre 2010

Caro Fazio, quelle di Welby e Englaro non sono storie private

di Giuliano Ferrara
Non mi piace l’idea che si debba chiedere a Fazio la "riparazione". Può andare bene, come pare sia andata con il ministro dell’Interno Maroni, quando si ha un elenco di fatti (gli arresti di latitanti mafiosi) da sottrarre alla logica di negazione affermatasi in tv davanti a molta gente che guarda. Ma per il resto, bisogna dirlo, la riparazione è una richiesta pigra, disperata, alla quale ci si acconcia da mendicanti, e non in senso cristiano. Sono spontaneamente e naturalmente solidale con la campagna di Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani. E con le associazioni e le singole persone e famiglie che hanno visto come uno scandalo la promozione nella trasmissione di Fazio delle due grandi epiche eutanasiche del nostro recente passato, i casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro. Trovo ipocrita la motivazione con cui è stato negato l’accesso ai grandi malati di Sla e ad altri gruppi di cura e amore verso familiari che vivono la vita in una delle estreme propaggini del dolore. Noi non siamo per la morte, quindi non accettiamo i gruppi pro life, ha detto in sostanza il conduttore, aggiungendo che sono storie private, quelle di Welby e Englaro, come si fa a riparare il torto fatto da una storia personale raccontata in tv?
Non è così, caro Fazio, e lei lo sa benissimo. Su aborto ed eutanasia è in atto nella cultura occidentale un conflitto di assoluti, vita o morte. Una donna che abortisce il suo bambino o un parente che decide per il distacco del congiunto dalle macchine non sono moralmente condannabili, le loro storie possono e debbono essere rispettate. Ma la verità e la realtà che sottostanno a queste moderne e arcaiche incarnazioni della Croce non sono storie personali, non sopportano la sentimentalizzazione, esigono che si delinei con chiarezza una visione di quel che l’umanità è e può diventare a seconda delle scelte che compie. Welby non voleva semplicemente morire, come le persone in buona fede sanno e devono riconoscere: voleva affermare il diritto di morire e il dovere legale di dare la morte, come diritto pubblico, come legislazione, come cultura civile. E voleva che questa affermazione fosse visibile, che si svolgesse sotto l’occhio delle telecamere e la vigilanza dell’opinione pubblica, suggestionandola con l’immagine di un uomo prigioniero della sofferenza per la cattiveria dei preti. Lo stesso per Beppino Englaro: il suo scopo era politico, come si vedeva da subito e si è ben visto dopo la morte per sete (procurata) di sua figlia: non desiderava la morte di Eluana come alternativa al suo stato disabile, voleva la sanzione di una sentenza e il contrasto vittorioso con la cultura opposta alla sua.
Bisogna evitare l’ipocrisia. Negare ai malati e ai loro parenti e alle associazioni che li tutelano il diritto di replica non lo si può fare spacciando le testimonianze di Mina Welby e Beppino Englaro come faccende private. Erano manifesti ideologici, come manifesti ideologici sarebbero stati, se ammessi al cospetto dell’imperatore televisivo, pubblico e conduttori, quelli dei malati di Sla che vogliono vivere ed essere curati, si sentono vittime non già di accanimento ma di trascurato abbandono, e non sopportano l’ideologia che parla della loro vita liminare, e soprattutto della loro morte, senza tenere conto di loro.
Detto questo, come ha notato Aldo Grasso, è incredibile quanto sia forte, esclusiva, brutale l’egemonia del linguaggio televisivo di sinistra in Italia. Ci pensino i vescovi, che non hanno battuto ciglio quando lo strano cristiano Antonio Socci fu consumato e sbriciolato dal meccanismo televisivo. Ci pensino i borghesi perplessi, i conservatori se ce n’è uno, e in genere gli anticonformisti che non accettano la vulgata d’obbligo: come mai in tv non passa una sensibilità diversa da quella del militantismo di contropotere? Come mai non c’è una tv liberale, una tv con sense of humour, una tv cattolica, una tv di destra, una tv capace di guardare i problemi del tempo e giudicarli con uno schema che non sia pregiudizialmente orientato nel senso dei Fazio e delle Dandini? Non è il segno del fallimento di una classe dirigente, dell’incuria verso il linguaggio e la cultura dell’Italia che poi, a buon bisogno, accattona una riparazione in onda sugli schermi di Raitre?
«Il Foglio» del 29 novembre 2010

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