13 dicembre 2010

Codici a barre negli embrioni: e l’uomo si trasforma in merce

Le micro-etichette di silicio per identificare i «prodotti» in vitro
di Assuntina Morresi
Codici a barre per identificare embrioni in provetta? Nei topi, in via sperimentale, si è già fatto. Piccolissime etichette in silicio, dell’ordine di grandezza della millesima parte di un millimetro, sono state inserite con una microiniezione in embrioni di topo di appena un giorno: non sono tossiche, resistono al congelamento e allo scongelamento, e sembrano non interferire con la crescita dell’organismo. È la loro forma a costituire il codice identificativo, che può essere riconosciuto con un microscopio particolare. Saranno rilasciate spontaneamente dagli embrioni stessi, una volta raggiunto un certo grado di sviluppo: questa parte della ricerca tuttavia dev’essere ancora perfezionata.
Secondo gli scienziati dell’Università Au­tonoma di Barcellona e dell’Istituto di Microelettronica del Csic (il Cnr spagno­­lo), che hanno messo a punto la tecnica pubblicando i risultati del loro lavoro sulla rivista scientifica internazionale Human reproduction, si tratta di un mez­zo formidabile per tracciare embrioni in sicurezza ed evitare drammatici scambi di provette non così rari nei laboratori della fecondazione in vitro.
Può sembrare la trama per un brutto film, ma è tutto vero. In rete sono consul­tabili le foto degli embrioni di topo con­tenenti i micro-dispositivi al silicio, il brevetto è già depositato, e il Diparti­mento della Salute del governo catalano ha concesso l’autorizzazione a testare il sistema con ovociti ed embrioni umani messi a disposizione da cliniche spagno­le.
È l’estremo passo: muniti del sofisticatis­simo codice identificativo – ciascuno ha il proprio – gli embrioni umani entrano a pieno titolo nel grande mercato globale, come ogni merce che si rispetti. Una vol­ta applicato il codice a barre – si sa – ogni prodotto finito è pronto per la vendita: il cliente lo sceglie, lo mette nel carrello, va alla cassa, paga e se lo porta a casa. An­che dal punto di vista simbolico, niente come un codice a barre è così efficace nel dare l’idea di commercializzazione, ge­stione di magazzino, acquisto e vendita: un’etichetta fredda e astrusa, decifrabile solo da speciali lettori ottici, che indica la natura dell’oggetto e il suo valore di mer­cato. Le barre in bianco e nero si evolvo­no e diventano microscopiche targhette al silicio, in migliaia di possibili forme di­verse: etichette miniaturizzate per distin­guere e identificare, inserite all’interno degli embrioni nel loro percorso di 'pro­duzione' in laboratorio. Una classifica­zione ideale per prodotti commerciali in serie, realizzati su larga scala.
Si potrà dire che già da ora nei laboratori gameti ed embrioni vengono in qualche modo codificati per poterli individuare correttamente. E infatti sarebbe intellet­tualmente onesto riconoscere da parte di tutti, a prescindere dai convincimenti personali di ciascuno, che è proprio l’av­vento della fecondazione in vitro – cioè la disponibilità di embrioni umani fabbri­cati sotto la lente del microscopio – ad a­ver aperto le porte alla 'cosificazione' dell’umano, a un nuovo modo di 'utiliz­zarlo' (nel senso letterale e materiale del termine).
In altre parole, il passaggio dalla numera­zione della provetta al codice miniaturiz­zato in silicio inserito nell’embrione ren­de solo più evidente e inequivocabile ciò che era chiaro fin dall’inizio: la piena di­sponibilità della vita umana fin dal con­cepimento avvenuto al di fuori del corpo della donna e della sua unione con l’uo­mo modifica l’idea stessa dell’umano, lo rende pienamente 'oggetto', gettando le basi per un suo nuovo mercato.
La numerazione di esseri umani è sem­pre stata sinonimo inquietante di man­canza di libertà e dignità: basti pensare alle carceri, ai campi di concentramento, o anche semplicemente alle polemiche nate intorno alle impronte digitali per al­cuni gruppi sociali, benché giustificate dalla necessità di sicurezza e tutela. Ep­pure per gli embrioni col codice a barre è difficile immaginare la stessa indignazio­ne, le medesime perplessità, gli identici dubbi di fronte a una soluzione tecnica­mente avveniristica, ma antropologica­mente raggelante.
«Avvenire» del 12 dicembre 2010

Nessun commento: