07 dicembre 2010

Eugenetica high tech

Dal rifiuto della disabilità alla soppressione programmata del malato
di Vittorio Possenti
Il nodo dell’embrione umano continua ad essere al centro della bioetica e biopolitica contemporanee, un punto nevralgico in cui ne va del nostro futuro di esseri umani, del modo con cui pensiamo noi stessi e gli altri (compresi i concepiti) come appartenenti all’unico genere umano. Riconferma questa crucialità un intervento del senatore Ignazio Marino (Corriere della Sera, 28 novembre), che solleva problemi delicati. Scrive il senatore Marino: «Le tecniche per fare nascere un bimbo in provetta servono a una coppia con problemi di sterilità per coronare il loro progetto di famiglia, ma permettono anche di individuare alcune malattie fin dai primi stadi dello sviluppo dell’embrione, prima del suo impianto nell’utero materno. Sono malattie molto gravi come alcuni tumori o la talassemia». Marino introduce poi l’ipotesi che un giorno gli esseri umani potrebbero orientarsi in massa verso una riproduzione in provetta per avere la certezza di mettere al mondo figli sani.
Quali orizzonti si aprono, domanda?
È chiaro che per raggiungere tale certezza si dovrebbe ricorrere a una selezione eugenetica degli embrioni creati in vitro al fine di impiantare solo quelli perfettamente sani. Eccoci dinanzi a un nodo veramente cruciale: chi e che cosa è l’embrione umano? Possiamo farne quello che vogliamo, praticando senza remore di coscienza una vera e propria eugenetica, sopprimendo gli embrioni difettosi prima dell’impianto o congelandoli (e in tal modo negando loro il diritto naturale allo sviluppo)?
Questo è il punto. Vi sono infatti ottime probabilità di curare numerose malattie ricorrendo alle cellule staminali non embrionali ma adulte (e dunque non sopprimendo gli embrioni), mentre non risultano analoghe possibilità di oltrepassare il problema dinanzi ad un embrione umano creato in vitro, e segnato da difetti più o meno gravi. Qui non abbiamo la possibilità di ricorrere ad altre vie d’uscita: o rispettiamo l’embrione umano sino in fondo come un essere umano a pieno titolo, oppure lo consideriamo una res nullius ed eugeneticamente lo sopprimiamo o lo condanniamo alla crioconservazione.
Aggiungo che non stiamo parlando di terapie embrionali o fetali che rimangono legittime, se non implicano la soppressione del curato.
Può darsi che in futuro si possano effettuare diagnosi separate sui gameti maschile e femminile, onde selezionare quelli migliori prima della fecondazione, ma al di là dello stato attuale delle ricerche in merito, ciò condurrebbe a una completa separazione tra riproduzione in provetta e procreazione naturale, ossia alla Fivet sempre e comunque, la quale infine induce a pensare l’essere umano come mero prodotto di laboratorio: fatto, non procreato.
Il problema più scottante per il nostro futuro di uomini che intendano praticare un rispetto incondizionato per il genere umano e per ogni suo appartenente, riguarda l’illiceità della soppressione dell’embrione difettoso. L’eugenetica attuale, levigata e democratica, rigetta con orrore il sospetto di essere assimilata a quella nazista, da cui non differisce poi enormemente: mentre i nazisti praticavano un’eugenetica positiva mirando a migliorare l’ariano, e una negativa mediante la soppressione di razze ritenute inferiori e di individui 'tarati', l’attuale eugenetica mira soprattutto a non far nascere i disabili.
Essa si riserva l’ultima parola su come deve essere l’uomo per vedersi concesso il diritto di nascere, sebbene il diritto alla vita del portatore di malattie genetiche sia pari a quello del sano. L’eugenetica high tech, specializzata, utilitaristica suggerisce che per i disabili valga il detto: 'Meglio morti che vivi'. Per la mentalità eugenetica la strada è attaccare la malattia sopprimendo il malato, non farle guerra rispettando il paziente.
«Avvenire» del 4 dicembre 2010

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