19 dicembre 2010

La rabbia e la speranza

Protestare non basta. Serve ricominciare
di Marina Corradi
Negli
«Nascondervi dietro a un dito dicendo che è colpa del black bloc non serve a nulla. Sia­mo noi, ragazzi normali, senza un futuro, pieni di rabbia», scrive un ragazzo a Roberto Saviano. «Mia fi­glia, trent’anni, precaria e nessun sogno», scrive una 'mamma arrabbiata' a un quotidiano. Rabbia, dopo le piazze del 14 dicembre, è la parola più diffusa per raccontare una generazione. Che ha guardato la guer­riglia senza parteciparvi, ma anche, non pochi, sen­za indignarsene; come fosse il rigurgito di una fru­strazione coralmente avvertita.
Non che non ne abbiano ragioni. Questi sono i ragazzi del precariato infinito, lieti, a trent’anni, di un con­tratto che ne dura tre; e ci si chiede come ci si fa una famiglia, o una casa, con prospettive così brevi. Figli generati dalla generazione del posto fisso e spesso supergarantito, si affacciano al lavoro in tempi di cri­si, mentre la globalizzazione del mercato abbatte co­me una falce i privilegi che credevamo intoccabili. Cresciuti nel benessere, educati al consumismo, in­travedono un orizzonte in implosione, dove saranno più poveri dei loro genitori. Si sentono tratti in in­ganno: la vita è più dura di quanto era loro stato fat­to credere, nell’educazione spesso troppo concilian­te, eredità del motto sessantottino 'vietato vietare', filtrata in tante famiglie. Sono arrabbiati perché assi­stono a un deterioramento vistoso della politica, do­ve il 'bene comune' pare pura retorica. Sono arrab­biati, ancora, in molti, benché difficilmente lo dica­no, per i privati travagli di tante loro famiglie, divise, abbandonate, o per le grandi solitudini di figli unici cresciuti davanti alla tv.
Eredi inconsapevoli di un nichilismo respirato nell’a­ria: non trasmesso dai padri il filo di un senso della vita, di una positiva speranza, che aveva sostenuto ge­nerazioni ben più povere e materialmente travaglia­te. Dunque, le ragioni di rabbia non mancano. Ma, da­vanti al ritornare su troppi media della parola 'rab­bia', non ci si può non chiedere dove porti, la rabbia. Dove si va se, davvero, si ha solo rabbia addosso? An­che in una casa il vivere con la maschera dell’astio, della rivendicazione, della pretesa porta al disastro. L’avere anche oggettive ragioni di rancore, poi, pone in un rischio: sentirsi vittime, 'giusti', anime a posto, e solo l’altro colpevole di tutti i nostri mali. È il senti­mento che legittima le armi, quando qualcuno si con­vince che un mondo giusto lo si debba imporre.
La 'rabbia' coltivata, vezzeggiata, è una strada cie­ca. Viene da domandarsi però: avevano forse meno ragioni di rabbia i ventenni del dopoguerra, reduci da un massacro, tornati in città distrutte? Quei ragazzi avevano, però, anche qualcosa di molto grande: il de­siderio di ricostruire un’altra Italia. Ciò che permise, anche nella fame e nel lutto, di portare via le mace­rie e ricominciare. Quella generazione, che per i ra­gazzi di oggi è quella dei nonni, era cresciuta dentro l’humus di grandi speranze: che fossero la fede e l’i­dea cristiana di una società equa o il socialismo, era­no cose che impostavano la vita. Vivevano, comun­que, certi che non si vivesse per sé soli; sicuri di un senso del continuare nei figli, anche quando emi­gravano a lavorare in città lontane e straniere; in mo­di diversi, erano abitati da un gran desiderio di vita.
L’ultimo rapporto del Censis parla di un «calo del de­siderio » in Italia, del desiderio di fare, costruire, ini­ziare. (Quel desiderio, quella fiducia, che per i cri­stiani è la speranza). Non è anche per una crisi di spe­ranza che i ragazzi si sentono traditi? Se una genera­zione non ha tramandato questo desiderio, ha man­cato di molto. E però la rabbia non basta. Occorre ri­cominciare, e occorre che ricomincino i figli.
Come? Sentite questo dialogo fra due ragazzi del­l’anno 1942, forse il più oscuro della guerra. Lei è Etty Hillesum, giovane ebrea che morirà a Auschwitz. Lui è un amico comunista. «Vedi, Klaas, non si combina niente con l’odio. (..) Ognuno deve distruggere in sé stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». E Klaas, annota la Hillesum nel suo Diario, «Da arrabbiato militante di classe ha replica­to: ma questo, sarebbe di nuovo cristianesimo! E io, divertita da tanto smarrimento: certo, cristianesimo. Perché poi no?».
«Avvenire» del 19 dicembre 2010

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