12 dicembre 2010

L’uso estremo di un estremo gesto

Se si strumentalizza anche un suicidio
di Francesco D'Agostino
È stato un «estremo scatto di volontà» quello che ha portato Mario Monicelli a uccidersi? Chi può dirlo? Il suicidio è un gesto troppo tragico, troppo solitario, troppo estremo per poter essere decifrato e definito in modo perentorio e univoco. A questo si aggiunga che anche gli stati d’animo più frequenti nella vecchiaia, nella vecchiaia avanzata, come quella cui era giunto Monicelli, possono essere decifrati nelle loro molteplici valenze solo con estrema difficoltà. Di una cosa sola possiamo essere certi: tutti gli uomini sentono il bisogno di non essere lasciati soli, di non essere abbandonati; gli anziani e i malati più di tutti gli altri. Per questo il suicidio è un gesto sconvolgente, perché di norma chi si uccide lo fa in una situazione di totale e spesso disperata solitudine, attivando nei familiari, negli amici e in genere nei suoi 'prossimi' la domanda angosciosa: si sarebbe ucciso se io gli fossi stato vicino?
Ecco perché utilizzare il suicidio di Monicelli come argomento per perorare l’approvazione di una legge eutanasica è scorretto e fuorviante. È scorretto, perché la legge, qualsiasi legge, per sua natura non è chiamata a regolare situazioni estreme, ma standard, ordinarie, normalmente ripetibili, valutabili con fredda pacatezza: non è questa la condizione in cui si trova un suicida, così come non sono queste le condizioni in cui si trovano i malati terminali, gli anziani colpiti da grave disabilità e più in generale i soggetti afflitti da forme depressive gravi, che alterano la volontà e possono attivare desideri patologici di morte, che è doveroso che i medici combattano. Ma soprattutto è fuorviante pensare che possa davvero essere giusta una legge sull’eutanasia, anche la più severa possibile e immaginabile, quella cioè che legalizzi l’eutanasia solo quando questa fosse espressione dell’autonomia della persona, solo quando fosse richiesta con piena coscienza e adeguata informazione dal malato terminale. Nei Paesi in cui sono state approvate leggi del genere si è ottenuto un solo autentico effetto: quello di burocratizzare il processo del morire, incrinando profondamente la deontologia ippocratica, favorendo l’abbandono dei malati e inducendoli a proiettare sul medico l’immagine inquietante di chi è disposto, e non solo in linea di principio, a porre intenzionalmente termine alla loro vita. Non è corretto continuare a ripetere, come si fa da parte di tanti, che il medico che pratica l’eutanasia altro non fa che rispettare la volontà del paziente, perché l’esperienza ci dimostra che questo non è vero: a parte il fatto che accertare rigorosamente la volontà dei pazienti terminali è pressoché impossibile, è un dato di fatto che, dovunque si pratica legalmente l’eutanasia, si assiste all’inevitabile e arbitraria dilatazione burocratica di questa prassi, che viene posta in essere anche quando il consenso del malato non può esserci (come nel caso dell’eutanasia neonatale a carico di bimbi malformati) o non può avere alcun valore giuridico e morale (come nel caso dell’uccisione eutanasica di malati di mente o di malati di Alzheimer).
Non è attraverso l’esaltazione di inquietanti legislazioni eutanasiche che va espresso il rispetto che tutti dobbiamo alla memoria di Monicelli.
L’impegno per la vita, per la salute, per la cura di tutti i pazienti, anche e soprattutto di quelli inguaribili e di quelli terminali deve esprimersi in ben altro modo: moltiplicando l’impegno sociale, giuridico, finanziario e morale nei confronti di quegli esseri umani che sono i più fragili di tutti: i malati e gli anziani. È indubbio che la malattia e la vecchiaia costituiscano i problemi cruciali non solo del nostro tempo, ma soprattutto degli anni a venire, ma è altrettanto indubbio che a questi problemi le spinte per la legalizzazione dell’eutanasia offrono non una risposta, ma una scorciatoia intellettualmente disonesta.
«Avvenire» del 2 dicembre 2010

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