12 dicembre 2010

Quella Carta non è un vangelo

di Marcello Veneziani
Un bell’applauso per la Costituzione. Se vuoi figurare da buono e giusto, copriti dietro la Costituzione. Da Fazio alla Dandini, dalla Scala ai Tetti universitari, dalla Camera ai Teatrini, dalla Scuola ai Cortei, citare la Costituzione e magari leggere un suo articolo garantisce l’applauso automatico del pubblico e la finta commozione del presentatore. Ricorda Petrolini: Costituzione! Bene, bravo bis. Costituzzione, per dare più forza, Bravo! Grazie!... e via dicendo. Un paese di pappagalli ammaestrati. Anche la mobilitazione di piazza della sinistra di domani ha come parola chiave e titolo di accesso la Costituzione.
Ora non aspettatevi che io sberleffi la Costituzione; mi limito a coglionare gli usi impropri e meccanici, gli abusi e la retorica che fioriscono intorno alla parolina magica. Non disprezzo affatto la Costituzione. Articolo primo, perché è la Costituzione del nostro Paese e va rispettata. Punto secco. Articolo secondo, perché è una buona Costituzione, con principi validi, e fu una buona sintesi, il miglior compromesso possibile fra le culture più significative del tempo: la cultura cattolica e i suoi principi cristiani, la cultura liberale e i suoi principi laici, la cultura socialista e i suoi principi egualitari. Accanto alle tre culture visibili c’era pure un convitato di pietra, innominabile ma presente nella Carta: era la cultura della nazione e dell’umanesimo del lavoro, della funzione sociale della proprietà e della partecipazione agli utili, della salvaguardia dell’ambiente e dell’economia sociale di mercato. Ma non si poteva citare perché ricordava Gentile e Rocco, Bottai e il passato Regime, anche se poi dal Concordato al Codice, dalle leggi in difesa dell’ambiente alla riforma della scuola, molto della Legge veniva da lì. Infine, ci piacerebbe che la Costituzione fosse rispettata in tutti i suoi articoli e non solo in quelli che si citano. Per esempio il diritto alla vita e la sua difesa, la tutela e la promozione della famiglia, il rispetto dei doveri, il riconoscimento della partecipazione, la regolamentazione di partiti e sindacati... Pensate che il primo a citare gli articoli della Costituzione nei dibattiti politici, a portarla nell’arena polemica dell’opposizione, fu uno che era fuori dell’Arco costituzionale. Dico Almirante, che chiedeva l’osservanza degli articoli 39,40 e 46 della Costituzione.
Dunque, rispettiamo la Costituzione, perché è la nostra legge e perché lo merita.
Ma come tutte le carte e i compromessi, non fu dettata sul Monte Sinai da Dio in persona, e nessuno può arrogarsi il ruolo di Mosè. Le costituzioni possono mutare nella parte più dinamica, sono figlie della storia e non reliquie eterne. La forma parlamentare della nostra repubblica può ad esempio evolvere in forma presidenziale, il riconoscimento della privacy, i diritti dei single e degli omosessuali, all’epoca non previsti, sono oggi inevitabili; la denatalità e la senilità della nostra popolazione vanno tenute in conto, così come la considerazione che la Repubblica fondata sul lavoro non è più costituita in maggioranza da lavoratori, tra pensionati, ragazzi, disoccupati e persone a carico.
Modificare la Costituzione non è peccato mortale. Ma il punto non è ancora questo. Il punto è proprio quello da cui siamo partiti. Si può davvero pensare che un paese debba sentirsi unito e solidale nel nome della Costituzione, si può davvero credere che l’amor patrio si riduca al patriottismo costituzionale, come pensano in troppi nei Palazzi, da Napolitano alla sinistra tutta e ora a Fini?
No, per tre ragioni. Primo, perché ciò che unisce un popolo non può derivare dall’alto, da una Carta voluta dai partiti, ma deve venire non dirò dal basso ma dal profondo, dalla vita, la storia e l’anima di un popolo.
Secondo, perché la Costituzione è una Legge, un sistema di regole da osservare e da rispettare, ma le regole non suscitano amore, non generano una comunità calda e partecipe. La Costituzione è un regolamento per sentirsi concittadini, ma non è l’essenza dell’italianità e della cittadinanza. Sarebbe come dire che l’anima di una città è nei cartelli stradali che regolano la circolazione, tra permessi e divieti; o al più che la sua essenza sia nelle mura di cinta e non nelle piazze, nelle chiese, nelle torri e nei campanili, nella vita e nelle persone che la abitano e la animano. Terzo, perché la Costituzione è nata appena il 1948, è troppo recente per suscitare l’amor patrio, soprattutto per un paese speciale, così ricco di storia come l’Italia. No, il patriottismo costituzionale è la riduzione di un amore a carta bollata, di un’appartenenza a un regolamento, di una grande storia millenaria a una piccola repubblica sessantaduenne. L’unico vero patriottismo che può suscitare amore è il patriottismo della tradizione, che comprende la nostra vita, la nostra memoria storica e le nostre culture, le nostre tradizioni civili e religiose, la nostra lingua e i nostri usi, i nostri artisti e letterati, sovrani e condottieri e il popolo nella sua integrità, le diverse italie che compongono l’Italia e ne fanno la ricchezza, la vita e il carattere. In una parola la civiltà. Se permettete, l’Italia è Dante prima di Calamandrei. Voi che vi credete depositari della Cultura, avete un’idea così tristemente notarile dell’amor patrio, negando la cultura e la civiltà che lo sostanziano. Restituite l’amor patrio alla luce del paesaggio, alla natura e alla cultura, non sequestratelo nei regolamenti, nelle aule e nei tribunali. Lasciatelo correre per le vie e le campagne, per il mare e per i monti d’Italia, non chiudetelo nei Palazzi, tra i custodi della Costituzione. L’amor patrio è anima e corpo, non è carta e articoli di legge.
«Il Giornale» del 10 dicembre 2010

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